La supremazia della Città sul Contado fu sempre netta e non lasciò quasi mai spazio a spiragli di autonomia ai singoli castelli, si trovarono anzi in continuazione motivi giuridici e pratici per un attento e serrato controllo. La stessa formazione del Contado, avvenuta per conquista, solo raramente per assoggettamento volontario, portava ad una leadership di Jesi che non accettava né partner né concessioni di sorta, Eppure secondo gli statuti, Città e Contado erano “paritarie per dignità e diritto, ma nella realtà il Contado [fu] confinato in condizione di inferiorità giuridica, sociale ed economica nei confronti della Città”51Urieli C., Jesi e il suo Contado, vol. IV, p. 558
Diverse furono le espressioni concrete di questa supremazia: l’esclusione dei Priori del Contado dalla carica di Gonfaloniere, supremo grado della magistratura jesina, lo stemma di Jesi fatto scolpire sulle porte dei castelli quasi fossero proprietà della città e specialmente, la presentazione del Pallio di S. Floriano. Il peso più rilevante comunque sopportato per secoli dal Contado fu l’iniqua ripartizione delle imposte tra Città e Contado stesso.
Il decreto del Governatore della Marca del 22 novembre 1510, Mons. Antonio De Flores, che avrebbe dovuto trovare una soluzione equa, sanzionando magari la situazione ormai consueta facendo pagare tre parti delle imposte erariali su quattro al Contado, stabili invece che le collette dovevano essere divise in modo che il Contado ne pagasse due terzi più un ottavo e la Città il terzo rimanente meno un ottavo. Se la situazione precedente aveva fatto sorgere già a tempo controversie tra Città e contado (“cum diu fuerit, et sit versa differentia, et controversia inter civitatem Aesij, et eius cives ex una, et comitatum dictae civitatis, et eius homines partibus ex altera”), e per questo era stato chiesto l’intervento del Governatore Flores, il decreto di quest’ultimo non accontentava affatto i castelli che tuttavia dovettero subirlo incrementando un progressivo malcontento. Tra i Priori di Città e Contado che presenziarono ed “accettarono” il decreto c’erano Conte di Ser Gabriele da Massaccio e Sante di Antonio di Monte Roberto.
Lo scontro tra città e contado crebbe nei decenni seguenti interessando anche il governo centrale di Roma con una vertenza giudiziaria durata quasi due secoli: la “Causa Aesina Collectarum” o più brevemente la “Causa Magna” (la “Grande Causa”). La vertenza produsse una mole enorme di documenti e di memoriali, avvocati e patrocinatori della Città e del Contado ed apposite commissioni pontificie a livello anche cardinalizio, discussero e si scontrarono con argomentazioni storiche e giuridiche: il Contado di fronte all’oligarchia cittadina non vide mai riconosciute le sue ragioni di fatto e di diritto. Pagare le tasse all’erario pontificio “per aes et libram” e cioè secondo il reale valore catastale degli immobili, riconosciuto anche da una Bolla di Pio V del 3 ottobre 1567 ma letto con interpretazioni a dir poco interessate, non fu mai possibile: prevaleva sempre il sistema del “decreto Flores”.
Pagandosi meno tasse in città, non pochi erano i benestanti dei castelli che avevano preso residenza a Jesi aggravando così la pressione fiscale sui castelli stessi. Il 15 dicembre 1587 Sisto V, accettando una richiesta della Città concede un Governatore per tutto il Contado: un successo per Jesi che confermò ancora una volta la sua supremazia sui castelli ed un successo per l’oligarchia cittadina che sempre vide il Governatore schierato dalla propria parte.
Nonostante le resistenze messe in atto, i castelli dovettero sempre pagare secondo l’ingiusta ripartizione e cominciano, da questo scorcio del Cinquecento a fino a metà Settecento, sul libro-registro delle “Entrate e delle Uscite”, le ripetute registrazioni: “A[…] per a bon conto della lite tra la Città et Castelli […] fiorini […] 52 Ad esempio, ASC1V1R, Entrate e Uscite (1585-1597),c. 25r (1587).sono le spese per avvocati e patrocinatori che ogni castello si accollava per la “causa magna”.
Un “deputato” a nome di tutti i castelli del contado provvedeva a ritirare le somme dovute da ciascuna comunità e le inviava all’agente (rappresentante) del contado a Roma che a sua volta saldava le spese che si andavano sostenendo per la causa.53In appendice n. 3: Spese per la “Causa Magna”, pp. 288-290.
Il Contado “era ben meno facoltoso di quello si fosse la Città di Jesi”.54Menicucci F., Memorie… Massaccio…, p. 125.
La conferma era stata ufficializzata dal Catasto fatto eseguire da Mons. Gianfrancesco Negroni, già Governatore di Jesi nel 1663, e portato a termine nel 1669. L’estimo del territorio della Città di Jesi era superiore a quello del contado di scudi 295.351.
L’estimo di Monte Roberto, di scudi 56.076,44, era all’ottavo posto tra i castelli; lo precedevano Monsano (123.104 scudi), San Marcello (118.120), Belvedere (109.298), Mono (93.051) Massaccio (70.234), Castelplanio (62.665) Maiolati (62.263) ed era seguito da Montecarotto (54.388), Poggio San Marcello (37.134), Castelbellino (30.938) San Paolo (25.759) Rosora (23.952), chiudevano i castelli più piccoli e più poveri Poggio Cupro (7.759) e Scisciano (4.121).
Il reddito pro capite invece, in rapporto alla popolazione rilevata nel 1749, era per Monte Roberto di scudi 34,1 per una popolazione di 1.634 abitanti, al decimo posto in tutto il Contado compresa Jesi; il reddito più alto era di San Marcello (83,4 scudi), seguivano Jesi e S. Maria Nuova (81,5), Monsano (67,2), Castelbellino (64,7) Mono (54,0), Maiolati (53,7), Belvedere (48,4), Castelplanio (38,9) San Paolo (36,0). Dopo Monte Roberto c’erano Poggio San Marcello (33,3), Scisciano (32,7), Massaccio (25,8) Montecarotto (24,06), Poggio Cupro (20,0) e Rosora (14,8).
Il reddito pro capite della città era di scudi 81,5, quello medio dell’intero contado di scudi 56,5: evidenti la sproporzione e di conseguenza la non equa ripartizione delle collette.
Nel 1714 e nel 1717, nel prosieguo della “causa magna”, ci furono altri pareri favorevoli alla Città; nel 1719 si decideva invece l’annullamento delle precedenti sentaze con l’obbligo di rifare tutto il processo dinanzi alla Congregazione del Buon Governo.
Per oltre un ventennio la causa covò sotto la cenere.
La città, o meglio la nobiltà jesina ne approfittò per chiedere al papa per i Priori di Città i “rubboni rossi”, lasciando quelli neri ai Priori del Contado, presenti nella magistratura jesina; la concessione, ottenuta nel luglio 1738 suscitò ira e sdegno: era una nuova provocazione della città nei confronti del contado.
In questo contesto di reciproca animosità, venne diffuso un manoscritto anonimo, ma negli ultimi decenni del Novecento attribuito a don Giovanni Angelo Tacchi (1666-1746) di Massaccio con la collaborazione di Carlo Ridolfi di Castelplanio e Curzio Bernabucci di Belvedere, “Il Pellegrino in pellegrinaggio per il Contado”.
É la narrazione del “pellegrinaggio” fatto nel mese di ottobre 1738 per tutti i paesi del contado mettendo in evidenza gli aspetti culturali e religiosi e le magnificenze di ciascun castello ridicolizzando la nobiltà jesina e le pretese della città. Un libello satirico, aggressivo, velenoso contro l’oligarchia cittadina.
Parlando di Monte Roberto, l’anonimo pellegrino scrive: “[…] questo Castello ha prodotto e produce oggetti qualificanti, e che ha prodotto altresì con Magistrati e Prelature Monastiche come tra l’altro è stata la Famiglia Amatori, […]. È nativo di questo luogo, il Priore Generale de Monaci Silvestrini,55Si tratta di Don Giovanni Amatori, vicario generale nel 1735-1736 ed abate generale nel quadriennio 1736-1740, cfr. Aspetti e Problemi del Monachesimo nelle Marche, Fabriano 1982, vol. II, p. 763. come anche uno de Capitani, che comanda le tre Compagnie de Soldati esistenti nel Contado”.
Descrive poi la sontuosa abitazione di un “Ricco Sacerdote” con “argenteria Quadri, ed apparati Nobili”.56il libello è stato pubblicato in appendice a Molinelli R., Città e contado nella Marca pontificia in età moderna, Urbino 1984, pp. 243-304; quanto riguarda Monte Roberto è a pp. 270-273.
Le consultazioni sul problema della “causa magna” tra i castelli del contado erano periodiche, erano diventate diremmo istituzionali: sede degli incontri era la Casa della Pieve delle Moglie (Moje di Maiolati) dove convenivano i rappresentanti dei singoli paesi. Per tutti questi “congressi” (come allora li chiamavano), vogliamo ricordare quello del 6 agosto 1738, la “causa magna” fu
evidentemente l’argomento di maggiore importanza (in quest’occasione mancarono i “deputati” di Scisciano e Monsano): Massaccio che in tutta la vicenda ebbe sempre un “molo di punta”, mandò tre rappresentanti, tra essi don Giovanni Angelo Tacchi.57ASCMR, Consigli (1735-1755), cc. 35v e 36v.
Anche Borgo Loreto di Castelplanio e Belvedere furono sede di analoghi incontri tra i castelli del contado.58ASCC, Lettere diverse (1516-1599), lettere del 18 gennaio e del 1 aprile 1571 per Borgo Loreto, e ASCC, Miscellanea (1741-1750), VIII-I, incontro del 17 novembre 1745. Di queste consultazioni se ne fecero per più di due secoli, segno che non mancavano argomenti da discutere sui rapporti con la città, specialmente quelli legati alle tasse da pagare.
I castelli, seguendo l’esempio di Jesi che aveva già dal Cinquecento nominato un “cardinale protettore”, la figura più grande fu quella di S. Carlo Borromeo nominato nel 1562,59Urieli C., feste il suo Contado, vol. III, p. 108. elessero anch’essi un “cardinale protettore” che potesse aiutarli non solo presso il governo centrale nelle pratiche amministrative e nelle richieste che inviavano ma anche presso le autorità periferiche.
Non tutti i castelli se lo potevano permettere perché naturalmente al cardinale era necessario inviare qualche “gratifica”. Il Consiglio della Comunità di Monte Roberto il 31 marzo 1737 nomina protettore del paese il Card. Marcello Passeri, “il patrocinio di un porporato – è scritto nel verbale della seduta – apporterebbe decoro e utile a questa nostra Comunità”.60ASCMR, Consigli (1735-1755), c. 21v. Per il Card. Passeri, cfr. Moroni Gaetano, Dizionario di Erudizione storico-ecclesiale, Venezial 851, vol. II, pp. 265-266.
La “causa magna” negli anni Quaranta riprese il suo cammino con successivi atti del 1742, 1746, 1747, 1749 fino ad arrivare alla sentenza definitiva del 20 marzo 1752.1128 aprile 1752 Benedetto XIV emanava il Motu proprio “Laudabile” dove riassumeva tutte le fasi della vertenza, confermava la sentenza e il sistema del “Decreto Flores” del 1510: “la ripartizione degli oneri pertanto doveva farsi per due terzi più un ottavo a carico del Contado e un terzo meno un ottavo a carico della Città”.
Il contado era definitivamente umiliato; la causa riguardò esclusivamente i proprietari della Città e quelli dei Castelli, sia questi che quelli difesero i propri interessi anche se i proprietari dei paesi chiedevano certamente un modo più equo e onesto nella ripartizione degli oneri fiscali.
Il popolo rimase estraneo a tutta la vicenda, se a Jesi “viveva nella miseria e spesso sopravviveva nel clientelismo all’ombra dei grandi signori […] anche nei Castelli la classe popolare viveva in una povertà di esistenza tale che i soli suoi interessi erano quelli della sopravvivenza”.61Urieli C.. Jesi e il suo Contado. vol. IV, p. 628. Per tutta la vicenda cfr. Urieli C., op. cit., vol.
IV, pp. 551-636 e Urieli C., San Marcello, cit., pp. 193-203 e 247-285.
I proprietari non potevano non difendere i loro interessi: erano loro presenti di padre in figlio nella magistratura del castello al centro dell’economia c’erano sempre loro fornendo lavoro ai coloni ai braccianti agricoli e agli artigiani; solo loro si potevano permettere di far studiare i figli e di far loro intraprendere magari la carriera ecclesiastica o giuridica.
A metà del Seicento a Monte Roberto i proprietari sono 166 con 487 some e 889 canne di terra, 62Una soma equivalente a 1.000 canne quadre, una canna 16 mq., 10 some a 16 ettari. gli enti sono 5 con 49 some e 853 canne. I 20 maggiori proprietari privati, locali e forestieri, possiedono 421 some e 60 canne, pari all’86,3% di tutta la proprietà privata.
Un secolo e mezzo dopo, verso la fine del Settecento, l’estimo di Monte Roberto per le terre private risultò di scudi 76.252,14, era cresciuto di circa 20.000 dal 1749.
Complessivamente le proprietà di tutto il territorio hanno un estimo di scudi 127.747,98; i proprietari locali sono 42 con scudi 11.549,31 e gli enti con scudi 2.014,53; i 20 maggiori proprietari locali possiedono per un estimo di scudi 10.170,97 pari all’ 88,06% della proprietà privata locale. I grandi proprietari del luogo sono Amatori, Salvati, Capitelli, Tesei, Chiatti, Antonelli. La proprietà privata forestiera incide con scudi 65.202,83 per 1’84,95% della proprietà privata totale, la monopolizzano in gran parte i nobili jesini, i Ghislieri, gli Honorati, i Guglielmi; quella degli enti, Capitolo della Cattedrale e ordini religiosi, ammonta a scudi 48.981,31.63Per tutti questi dati, dal Seicento alla fine del Settecento: Molinelli R., Città e contado nella Marca Pontificia in età moderna, cit., pp. 167-174.
Le famiglie di possidenti erano diventate il ceto dirigente inamovibile ormai da generazioni ed avevano intrecciato tra loro rapporti di parentela rafforzando l’oligarchia paesana, mentre all’occasione non disdegnavano matrimoni con esponenti di famiglie di più consolidata nobiltà di Jesi o di altre città.