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189 7.1 PROPRIETA’ E POVERTA’

1. PROPRIETÀ E  POVERTÀ

L’unico reddito per la quasi totalità delle famiglie è stato, da sempre, la coltivazione dei campi. L’economia, spesso di sola sopravvivenza, era legata esclusivamente all’agricoltura e ai proprietari terrieri alle cui dipendenze si muovevano    coloni e braccianti agricoli. Come   già abbiamo    accennato, alla metà del   Seicento, l’86,3% di tutta la proprietà privata del territorio di Monte Roberto   era nelle mani di solo venti famiglie sia locali che forestiere. Alla fine del Settecento la proprietà privata forestiera incide per 1’84,95% sull’intera proprietà privata totale, il resto 15% circa è goduta da 42 proprietari locali di cui solo 20 però ne avevano l’88,6%, da aggiungere poi le proprietà del Capitolo della Cattedrale di Jesi e degli ordini religiosi. Monopolizzavano gran parte della proprietà alcune famiglie nobili di Jesi, i Ghislieri, gli Honorati, i Guglielmi;   proprietari locali erano gli Amatori, i Capitelli, i Paziani, i Chiatti, gli Antonelli, i Tesei, i Salvati, dei quali, quest’ultimi, Tesei e Salvati, accrebbero nel corso dell’Ottocento    notevolmente il loro patrimonio fondiario. Concentrazione   delle proprietà   e conseguente subordinazione      economica della   popolazione nella sua quasi   interezza: popolazione la cui   sussistenza dipendeva    dall’andamento dei raccolti agricoli. Anni di grande carestia furono ad esempio il 1643, il 1644, il 1648, il 1649, il 1677. Veramente    “penurioso” il 1643: “il popolo patisce di vitto”, si prelevano dalle due alle quattro coppe di grano dall’Abbondanza    e si danno alle famiglie più povere a giudizio degli Abbondanzieri; [1] ASCMR, Consigli (1639-1651), c. 53r, 15 marzo 1643.   l’anno dopo si danno quattro   coppe di grano per famiglia. [2] Ivi, c. 78r, 23 marzo 1644. Rubbio = 280,64 litri. Il rubbio si divideva in 8 coppe e una coppa in 4 provende, la provenda in 8 scodelle   Altrettanto “penurioso” il 1648: il Comune fa un mutuo di 550 scudi e insieme ai 60 avanzati dal bilancio del 1647 compra il grano a minor prezzo possibile per “assicurare vitto a questo popolo”; [3] Ivi, cc. 152v, 153r, 16 luglio 1648. per la semina viene dato il grano dai Magazzini dell’Abbondanza ai coloni, ma   solo a quelli che abitano nel territorio di Monte Roberto, questi poi lo   dovevano restituire l’anno dopo. [4] Ivi, c. 160r, 18 ottobre 1648; c. 164r, 8 novembre 1648.   Il mutuo acceso   dal Comune   tuttavia non fu sufficiente per acquistare il grano necessario, si dovette così vendere legname   della Selva della Comunità   per   acquistare altro grano. [5] Ivi, c. 161,28 ottobre 1648 Non fu facile arrivare al raccolto del 1649 la “necessità di vitto del popolo” continuava e per le feste di Pasqua si impiegano altri 100 scudi per provvederlo ai più poveri, la situazione era drammatica, il popolo si ritrovava “in grandissima calamità e miseria di vitto”. [6] lvi, c.168r, 6 febbraio 1649; cc.170v, 171r, 21 marzo 1649; c.173r, 8 aprile 1649.   Nuovo cattivo raccolto di grano nel 1677: molti contadini non hanno di che seminare, interviene la riserva dell’Abbondanza, si vende come già fatto quasi trent’anni prima, la legna della Selva della comunità   per comprare grano per il fornaio. [7] ASCMR, Consigli (1676-1698), cc.12v,13r, 17 ottobre 1677.   Il grano costituiva la maggiore risorsa quando ce n’era a sufficienza per le necessità della comunità e, se avanzava, si   vendeva sia a Jesi (in gran parte) che a Fabriano. Su di esso si basava esclusivamente l’economia, una cattiva stagione o il flagello della grandine creava situazioni di disperazione per la gente della campagna.

La tempesta di grandine verificatasi il 5 giugno 1733 nelle pertinenze di Monte   Roberto e dei paesi vicini distrusse il raccolto del grano, le viti e altre colture: “li poveri contadini quasi ridotti alla disperazione per l’accidente occorso [della grandine] come per le cattive raccolte avute negli anni scorsi vogliono lasciare incolte le nostre terre”. Il Comune non ha alcuna possibilità di fornire sementi e rivolge   una supplica al Papa per aver qualche sussidio. [8] ASCMR.  Consigli (1711-1735), cc. 261r, 262r, 11 giugno 1733.   Quando invece i raccolti erano buoni come ad es. nel 1783 e nel 1784, [9] ASCMR, Consigli (1780-1793), cc.43v, 55v.   se ne avvantaggiavano   proprietari e commercianti favorendo una intensa circolazione monetaria ed anche i contadini traevano un po’ di respiro, la loro condizione però era sempre precaria legata com’era agli eventi metereologici e al duro lavoro della terra che avevano in conduzione. Il padrone era una figura “assoluta” gli si dovevano oltre la metà del grano e dell’uva, due terzi dell’olio, inoltre gli erano dovute le periodiche regalie di capponi, uova, verdure, prestazioni domiciliari ecc.; le sementi erano totalmente a carico del contadino: spesso, per non dire sempre, nei confronti del padrone il contadino era indebitato. Quando    fu introdotta la coltivazione del mais   o granoturco, questo mescolato con ghiande e veccia, sarà il cibo base dei contadini poveri: “mangiano, quella povera gente, pane di   ghiande seccato al forno […] in altri paesi mangiano assai migliore li cani da caccia”, scriveva un osservatore apostolico nel settecento. [10] Anselmi Sergio, Appunti per sulla storia della mezzadria, in li patto arcaico, a cura di Walter Montanari, Ancona 1977, pagine non numerate. Urieli   Jesi e il suo Contado, vol. IV, pp. 266-272. Nonostante tutto però avere un po’ di terra da coltivare, magari a mezzadria nelle generali condizioni di povertà, era una certezza; più nera e   drammatica era invece la situazione di chi veniva licenziato da un terreno e non   sapeva dove andare; in uno stato già miserevole la prospettiva per tutta la famiglia era quella di una miseria ancor più triste e di autentica disperazione, come quella di Andrea   Lucarini che   licenziato nell’estate 1809    dal terreno in contrada Rovigliano, “vive, scrive il sindaco Salvati al suo   padrone, in uno stato compassionevole   con la famiglia”. [11] ASCMR, Registro delle lettere (1808-1809), p. 231, n. 259, 17 agosto 1809. Più drammatica ancora era la condizione dei “casanolanti”, di coloro cioè che avevano casa in affitto e lavoravano in campagna a giornata, evidentemente un cattivo raccolto o una stagione poco propizia    rendeva la loro situazione al limite della sopravvivenza: i bisogni del mangiare e del riscaldamento in inverno non potevano essere risolti, a questi poveri il Comune   per le feste di Natale distribuiva il consueto sussidio in grano [12] Cfr. ad es. ASCMR, Consigli (1780-1793), c. lv, 17 dicembre 1780.   ed anche in fascine. Al lavoro occasionale o stagionale nei campi, si aggiungeva o si alternava la manovalanza nei lavori per le strade o nell’edilizia: raccogliere e trasportare le pietre dal fiume per selciare le strade e per le costruzioni, trasportare acqua per i cantieri, aiutare i muratori ecc., erano lavori per uomini e per donne, si preferivano però le donne perché venivano pagate di meno, specie in certe stagioni. Nel 1757 la paga per raccogliere ghiaia e pietre dal fiume per accomodare le strade era di 5 baiocchi al giorno per gli uomini e di 4 baiocchi per le donne e questo dal mese di ottobre a marzo   compreso, [13] ASCMR, Consigli (1756-1766), c. 45v, 22 maggio 1757.   d’estate poi anche le donne ricevettero 5 baiocchi al giorno, elevata dal Consiglio della Comunità “considerandosi che con tale mercede [4 balocchi] non possono viverci nei tempi di estate specialmente [14] Ivi, cc. 47v e 49r, 10 luglio 1757.   Non era facile così affrontare le necessità della quotidiana alimentazione, a soffrirne di più erano i bambini la cui mortalità era molto elevata anche per la scarsità di cibo, oltre che per le malattie che non potevano essere superate talvolta proprio per   mancanza di adeguato sostentamento. Il sale ad esempio, necessario per un sano ed equilibrato sviluppo non sempre si poteva acquistare, i più indigenti allora mancando di denaro usufruivano come altri di Massaccio, Staffolo, Maiolati e S. Paolo, delle “acque salse” di una sorgente lungo il torrente Cesoia tra San Paolo e Massaccio, in contrada Acqua Salata o Follonica; si faceva bollire l’acqua della sorgente particolarmente ricca di sali minerali ricavandone direttamente il sale, una consuetudine questa secolare per le stesse popolazioni ripresa   anche durante le difficoltà dell’ultimo conflitto mondiale. [15] Ceccarelli R., Le strade raccontano, cit., pp. 203-204 Alla    sorgente, è scritto in   rapporto del secondo decennio dell’Ottocento, si recava “la classe più indigente di questa Popolazione, la quale cerca a stento la sua sussistenza, e la salute de’ Bestiami, pecorini e porcini, che per mezzo di queste acque restano preservati da varie loro malattie”. [16] ASCC, Atti 1818, tit. I, lettera del vice-gonfaloniere di San Paolo, Luigi Dominici, del 18 maggio 1818. Un uso alimentare terapeutico per uomini e animali, come ricorda anche una dotta dissertazione sull’argomento del sec. XVIII. [17] Casagrande Giuseppe, Della nuova scoperta e dell’esame dell’acqua subtermale che scaturisce nelle falde del colle di Follonica del contado difesi… Dell’analisi e dell’uso delle medesime      in molte gravissime malattie croniche, ragguaglio…, Jesi, Stamp. Bonelli 1785, pp. 112. Dopo il “secolo dei Lumi”, da noi le condizioni di povertà non cambiano; le nuove imposizioni, trascorsa la prima burrasca giacobina, pesano   gravemente sulla classe più povera: osserva il Consiglio Comunale nella seduta del 2 gennaio 1803: “[…] siamo sempre più gravati [dalle nuove imposizioni] non tanto i possidenti quanto la   povera gente, la quale a stento conduce la sua vita quotidiana. La fame estrema, i generi a sommo   prezzo, scarso il denaro, il cui acquisto in alcune famiglie si rende impossibile, non che difficile. […] Non v’è dubbio che le collette presenti gravano soprattutto la gente “miserabile” [18] ASCMR, Consigli (1794-1808), cc. 127-129 Da   sempre coloro che hanno più pagato sono i più poveri, i meno abbienti.

2. COLTIVAZIONI AGRICOLE

La coltivazione del grano, come   abbiamo visto, era la più estesa e la più redditizia, specie in pianura, non mancavano però orzo, fave e legumi ecc., dal Settecento poi si cominciò a coltivare il granoturco. Ampie erano allora ancora le zone boscose, come la Selva della Comunità in contrada Rovegliano-Catalano, tradizionale riserva di legname per le necessità economiche dell’intera comunità.    Sulle pendici collinari si coltivavano in maniera più intensiva viti e olivi. La produzione di vino e di olio, come quella del grano, non era sempre omogenea, le condizioni del tempo giocavano un ruolo determinante, nelle buone stagioni ce n’era comunque per vendere.

A – VITIVINICOLTURA

Il vino dei castelli, Massaccio, Monte Roberto, Maiolati, Castelbellino, era conosciuto non solo a Jesi perché non pochi proprietari dei terreni erano nobili jesini, ma anche in Ancona dove il vino veniva   commercializzato in tempo di pace e richiesto dalle truppe militari quando esse con una certa frequenza sostavano in porto o in città. Ai francesi che avevano scorrazzato per la Vallesina, specie da Monte Roberto a   Massaccio nei primi mesi del 1798, il vino che si produceva   su queste colline dovette essere stato particolarmente gradito, se, durante la loro permanenza in città, la Municipalità di Jesi, da loro sollecitala o per far loro una gradita “sorpresa”, richiese alle rispettive Municipalità di Monte Roberto, Maiolati   o Massaccio l’apertura di una cantina in Jesi. [19] ASCC, Repubblica Romana: lettere diverse, anno (1798-1799).   il governo pontificio aveva garantito il libero commercio   dei vini “tanto dentro   quanto fuori dello stato “Ecclesiastico”, perseguendo    coloro che esigevano “tangenti” (l’uso non è poi tanto nuovo!) nella concessione dei relativi permessi. [20] Cfr. Editto del Card. Azzolino del I settembre 1667 in ASCC, Editti e Bandi sec. XVII, riprodotto anastaticamente in appendice al volume II Verdicchio dei Castelli di Jesi, a cura di R. Ceccarelli, A. Nocchi, E. Stolfi, Città. di Castello 1991. Da una mentalità protezionistica del   Cinquecento, si pensava infatti che si dovesse   ostacolare l’esportazione dei generi di prima necessità, si passò nel Seicento ad una mentalità più pragmatica: di volta in volta il commercio veniva incentivato o sospeso a seconda sia della scarsità dei prodotti sia della necessità del denaro circolante. Editti in tal senso erano emanati dall’autorità centrale e dai governatori locali; si andava da una specie di liberismo assoluto a norme altrettanto restrittive in tempo di carestia fino ai divieti totali di esportazione emanati sotto Urbano VIII. [21] Cfr. Editto del Governatore Mons. Francesco Boncompagni del 7 gennaio 1676 in Ibidem. A. Nocchi, R. Ceccarelli, Editti e Bandi del sec. XVII, Cupra Montana 1986, p. 30. Caravale M., Caracciolo A., Lo stato Pontificio da Martino Va Pio IX, Utet, Torino 1978, pp. 427-428. 

B – OLIVICOLTURA

La produzione dell’olivo doveva essere sufficiente più per i padroni che per i contadini: ricordiamo che ai padroni ne andavano due terzi, tanto che   quando mancava, non solo per i poveri ma forse anche   per i piccoli proprietari, si comprava altrove, come   nel novembre   del 1800 quando fu acquistato a Cingoli al prezzo di 97 baiocchi e mezzo per ogni boccale. [22] ASCMR, Consigli (1794-1808) cc. 71-72, 23 novembre 1800. Ceccarelli Riccardo, Olivicoltura e frantoi nella Marca di Ancona, Provincia di Ancona, Ancona   2009. 4a edizione.   Per l’olio   accadeva spesso che, rivedendosi i prezzi   ogni due mesi, commercianti senza scrupoli ne facessero incetta per poi, accresciuto il prezzo, rimetterlo in vendita alla nuova data ed evidentemente al nuovo prezzo incorrendo nelle ire del Governatore che tuttavia non sembravano incutere molto timore se la stessa disposizione veniva riproposta annualmente   in ogni castello del contado. [23] A. Nocchi, R. Ceccarelli, op. cit., pp. 13-14.  

C – IL GRANO E “L’ABBONDANZA”

La normativa per il grano era più capillare, il relativo bando era ripubblicato anch’esso   ogni   anno con pochissime    varianti. Essa    prevedeva la precisa conoscenza delle persone da sfamare in ogni comunità (entro “li 8 agosto haver data giusta assegna di tutte le bocche effettive, che mangino quotidianamente   il pane ancorché    non avesse raccolto   grano”), disposizioni sulla battitura, la raccolta, la   conservazione, il   commercio e l’esportazione del grano   e la proibizione di farne incetta, seguivano    norme per i fornai, l’Abbondanza   ed i loro responsabili gli “abbondanzieri”. [24] Ivi, Editto del Governatore Jacopo Angeli del 15 luglio 1651.  Ceccarelli Riccardo, Grano, pane e riso nella Marca di Ancona, Provincia di Ancona, Ancona 2009. 4′ edizione.  ” L’Abbondanza”, Magazzini dell’Abbondanza    o   Monte Frumentario, era il luogo dove veniva raccolto e conservato il grano per sopperire alla sua eventuale mancanza durante l’anno, per distribuirlo alle famiglie più povere in tempo   di Natale e fornirlo a chi ne avesse bisogno al momento della semina, con l’obbligo di restituirlo dopo il raccolto dell’anno successivo.   Il patrimonio dell’Abbondanza, tra entrate e uscite, doveva rimanere integro, severi controlli venivano fatti in questo senso agli “abbondanzieri”, a   coloro cioè che eletti ogni anno dal Consiglio della Comunità gestivano l’Abbondanza o il Monte   Frumentario. Il Monte Frumentario, l’Abbondanza, detto anche    Monte di Pietà, a Monte Roberto era stato eretto prima del 1537; [25] Zenobi C., L’episcopato jesino di Mons. Gabriele del Monte, p. 138 era ubicato nei pressi del   vecchio palazzo comunale, si  aggiungeva il magazzino     dell’Abbondanza con la scala posta davanti al palazzo stesso. [26] ASCMR, Consigli (1608-1616), c. 140r, 28 dicembre 1614. Nonostante che gli Abbondanzieri avessero il dovere di conservare il grano e di distribuirlo secondo le decisioni del Consiglio della Comunità, [27] Ivi, c. 44r., 19 luglio 1609.   non era raro il caso di una certa amministrazione “allegra”: gli stessi Abbondanzieri   prendevano il grano senza restituirlo a tempo debito [28] ASCMR, Abbondanzieri (1621-1810), c. 90r.v e seppure il patrimonio dell’Abbondanza veniva ogni anno reintegrato con la restituzione ma anche con la contribuzione di “una prevenda e mezza per soma” [29] ASCMR, Consigli (1608-116), c. 44r, 19 luglio 1069.   con un “rubio e   mezzo per dicina di tutto il grano che haverà raccolto da pagarsi a giusto prezzo”, [30] Editto del 15 luglio 1651 del Governatore Jacopo Angeli, in A. Nocchi, R. Ceccarelli, op. cit., pp. 22. rimaneva il grave illecito. Il Governatori o i loro rappresentanti eseguivano controlli periodici e dettavano prescrizioni rigorose: “in avvenire   non     debbono esercitare la carica di Abbondanziere quelli che saranno debitori di essa Abbondanza come comanda la Bolla del Buon Governo e gli Abbondanzieri eletti e approvati dal Consiglio con le idonee sicurtà debbono render conto ogni   anno”. [31] ASMR, Abbondanzieri (1621-1810), c. 59r, 26 luglio 1699 Al termine di ogni anno infatti, scadendo l’incarico, due deputati eletti dal Consiglio dovevano rivedere i conti e se c’era qualche debito o qualche   ammanco gli Abbondanzieri    “siano subito astretti all’intera soddisfatione”; mancando questa verifica “I Quattro” e il Cancelliere, cioè il Segretario, ne dovevano rispondere “del proprio”. [32] Ivi, c. 77v, 8 agosto 1681 La ragione di tanto controllo si fondava sul fatto che l’Abbondanza    era “patrimonio    de Poveri e bisognosi che dovevano   essere sollevati nelle loro necessità con l’imprestanza delli Capitali di detta    Abbondanza”. [33] Ivi, c. 91r, 9 ottobre 1698.   La distribuzione del grano doveva   essere fatta esclusivamente ai poveri di Monte Roberto e non ai forestieri, altrimenti gli stessi Abbondanzieri erano obbligati a loro spese a ritrovare la stessa quantità di grano illecitamente distribuita, i prestiti di grano dovevano essere restituiti entro i mesi di luglio e agosto. [34] ASCMR, Abbondanzieri (1675-1771), c. 194v, 21 dicembre 1765; c. 202r, 6 gennaio 1768; c. 207r, 4 febbraio 1770. L’Abbondanza, o meglio, il Monte Frumentario    come    cominciò ad essere chiamato dall’Ottocento in poi, fu presente operando   attivamente durante il napoleonico    Regno d’Italia (1808-1815) e poi di nuovo con lo Stato Pontificio fino al 1859; [35] Urieli C., Archivio Diocesano – Visite pastorali, p. 267.   con lo stesso nome, cui si aggiunse quello di Cassa di Prestanze Agrarie, come   in altri paesi della Vallesina, ad esempio Rosora e Castelbellino, arrivò fino alle soglie del Novecento. Il   Monte Frumentario   della Comunità    non fu l’unico ad operare a   Monte Roberto: lo ebbero la Confraternita del Sacramento   e Rosario, la Confraternita Pietà o della Morte e la Confraternita del Crocifisso, il più longevo fu quello della Confraternita del    Sacramento e del Rosario, [36] Ivi, pp. 65, 77,97, 104, 131, 252, 267.   erano per lo più a servizio degli iscritti alle confraternite stesse.

D – RACCOGLITORI DI SPIGHE

Dopo la mietitura del grano, era “uso antico della Città e del contado” che i poveri e i nullatenenti raccogliessero le spighe rimaste nei campi. Per quanto la consuetudine   fosse antica, essa trovava una continua   opposizione da parte dei padroni   dei campi e di quanti li avevano in affitto. I Governatori allora per garantire   questa misera possibilità ai più poveri, ogni anno    ritornavano sull’argomento   ordinando “tanto alli padroni delli campi, quanto alli cottomatarij de grani in tutta questa nostra giurisditione non ardischino   in modo   alcuno impedire alli Poveri il raccogliere le spiche de grani, nelli campi, purché non faccino danno alli Padroni de grani”. [37] Cfr. Editto del Governatore Mons. Francesco Boncompagni del 16 giugno 1684, in A. Nocchi, R. Ceccarelli, op. cit., p. 26 In un bando   del Governatore mons.   Giacomo   Fantucci del 18 giugno 1672, si garantiva la accolta delle spighe ai poveri “purché raccoglino dietro le loro opere [braccianti assoldati giorno per giorno dai loro padroni] e famiglie”. Non avranno   raccolto molto, comunque    l’autorità assicurava quel poco, almeno   a parole e anche per iscritto, forse senza tanta convinzione considerata la scarsa entità delle pene per quanti avessero   impedito questa raccolta, “scudi 1 per ciascheduno” e le   generiche “altre pene a nostro arbitrio”. [38] Ivi, p. 27.  

E – COLTIVAZIONE DEI GELSI E BACHICOLTURA

La   coltivazione dei gelsi e la relativa bachicoltura risalgono per tutto il contado   al Seicento. [39] Urieli C., Jesi e il suo Contado, vol. IV, pp. 256-257 Seguendo l’esempio di Jesi che nel 1673 aveva proceduto ad una   intensa piantagione di   mori-gelsi, anche Monte Roberto    delibera un’analoga    piantagione nel 1679, provvedendo    in pari tempo a proteggere le piccole piante minacciate da pecore e maiali. [40] ASCMR, Consigli (1676-1698), c. 49v, 10 dicembre 1679.   Queste piante, per più ai lati delle strade erano di proprietà comunale; con la vendita delle foglie (“Trasatto delle foglie de’ mori-gelsi”) che si faceva ogni anno in aprile a chi allevava bachi da seta, si cercava di racimolare   qualche entrata nelle sempre esauste casse comunali. [41] Ivi, c. 110v, 8 aprile 1685.   La bachicoltura si sviluppò così progressivamente   in tutti i paesi della valle, i bozzoli erano inviati sulla Piazza di Jesi”, una filanda per la loro lavorazione la troveremo a Monte   Roberto nei primi   decenni dell’Ottocento.

F – TABACCO

Un’altra ‘coltivazione che tra la fine del Settecento e gli inizi dell’Ottocento ebbe una certa fortuna in territorio di Monte Roberto, fu quello del tabacco. Nello Stato Pontificio era stato introdotto a metà del Settecento; a Chiaravalle un primo laboratorio per la lavorazione delle foglie era stato realizzato nel 1759. La coltura si estese ben presto a tutta la media e bassa valle dell’Esino favorita dalla particolare conformazione dei terreni e dall’aumento del reddito agricolo che essa garantiva. [42] Pedrocco Giorgio, Coltivazione e manifattura del tabacco a Chiaravalle, in Nelle Marche Centrali, op. cit., vol. I, pp. 1395-1426. Cappelletti Sandra, Dalla Abbazia alla Manifattura – Le origini di Chiaravalle, Chiaravalle   1978, p, 90. A Monte Roberto se ne coltivava nella zona di Pianello, a valle di Rovegliano e nell’area di S. Apollinare. Le foglie di tabacco si potevano consegnare   nei magazzini   della Fabbrica di Chiaravalle due volte all’anno, in primavera e in autunno: nel 1817, dal 4 febbraio   al 15 marzo e dal 26 settembre in poi, [43] Cfr. Notificazione della Delegazione Apostolica di Ancona del 3 febbraio e 14 novembre   1817, in ASCC, Editti Bandi Notifiche Avvisi Circolari (1814-1817). con una precisa ripartizione dei giorni per i coltivatori di ogni singolo paese a seconda del loro numero e della distanza a Chiaravalle, ad esempio nella primavera   del 1816 i coltivatori di Jesi, Monte Roberto e Maiolati    potevano consegnare dal 22 marzo al 12 aprile. [44] ASCC, Editti Bandi Notificazioni, VI (1815-1818), p. 108, notificazione del 31 gennaio 1816.   Il   Governo conosceva già in dettaglio tutti i coltivatori, le denunce e la capacità produttiva delle rispettive piantagioni e faceva presente che “se alcuno dei coltivatori o detentori de detti Tabacchi osasse di convertire a proprio uso le foglie o venderle, o distrarle comunque, per eludere gli ordini del Governo, non isfuggirà alla nostra vigilanza la di lui frode”. Nel   trasportare le foglie a Chiaravalle   poi era necessario coprirle opportunamente     per non lasciarle disperdere e difendere dall’umidità. Nel 1849 il terreno assegnato per la coltivazione del tabacco in tutto il distretto di Jesi che comprendeva   il territorio di Jesi, Castelbellino, Castelplanio, Maiolati, Massaccio, Montecarotto, Monte Roberto, Morro, Monsano, Rosora e Staffolo era di 33 rubbia (61 ettari circa) con un numero    di piante coltivate pari a 1.056.000. [45] ASCC, Editti Bandi (1849).   Quello che si coltivava a Monte Roberto nella zona di Pianello era classificato di prima classe, quello di S. Apollinare e Rovegliano di seconda classe; all’interno di queste classi il tabacco poteva essere di prima, seconda e terza qualità, con prezzi diversi a seconda della classe e della qualità; ciò era stabilito da un disciplinare, diremmo oggi, di produzione, preciso e rigoroso. Eppure alla consegna delle foglie non sempre i ricevitori di Chiaravalle lo rispettavano, facendo “comparire qua tutti [i tabacchi] che provenivano da   Monte Roberto di cattiva qualità”, con di divergenze anche sul prezzo stabilito. Le lamentele venivano esternate al Sindaco che   provvedeva a vagliarle e a farle presenti alle competenti autorità. [46] ASCMR, Registro delle lettere (1808-1809), p. 153, n. 80 dell’8 marzo 1809.   Il toponimo Canapina o Calapina, come abbiano visto, lascia intendere che nella zona un tempo ci fossero coltivazioni di canapa. Nel secondo   decennio dell’Ottocento in un clima di ripresa agricola e di differenziazione delle colture (canapicoltura e linicoltura), venne proposto al Comune (“È il papa che lo desidera”) l’acquisto di   una “macchina     per lavorare   le canape    senza macerazione”; la proposta fu respinta dal Consiglio    Comunale in quanto, si osserva, “da noi la canapa non si coltiva affatto, o in pochissima quantità, cosa questa che rende inutile l’acquisto di una simile macchina”. [47] ASCMR, Consigli (1808-1827), p. 190, 19 settembre 1820} Per quanto riguarda gli allevamenti di pecore e l’incremento della produzione della lana, più di dieci anni prima, negli ultimi anni del Settecento, a seguito di una grande propaganda nei “dipartimenti”, ci furono ripetute importazioni di pecore “merinos”, [48] Caravale Mario, Caracciolo Alberto, op. cit., p. 602. si assicura che nel 1809 anche a Monte   Roberto “si incrociano le pecore con montare delle pecore spagnole per migliorare il gregge pecorino”. [49] Pedrocco Giorgio, Coltivazione e manifattura del tabacco a Chiaravalle, in Nelle Marche Centrali, op. cit., vol. I, pp. 1395-1426.   Cappelletti Sandra, Dalla Abbazia alla Manifattura – Le origini di Chiaravalle, Chiaravalle   1978, p, 90.  .

3. EDILIZIA RURALE

La casa tipica delle campagne   era costituita, almeno   nel Settecento, dalle stalle al piano terra, con la cucina e le altre stanze al piano superiore raggiungibili da una scala esterna sotto la   quale ricavare lo “stanziolo” per gli animali domestici, e il forno contiguo alla casa. Così risulta dal capitolato di appalto per la costruzione della casa colonica in contrada Catalano (Rovegliano) di proprietà del Comune, del 1763. [50] ASCMR, Libro de Trasatti della Comunità di Monte Roberto (1758-1777), cc. 37-38; vedi Appendice n. 6, pp. 295-296.   Vennero aggiunte poi ampie “bigattiere” quando si incrementò la bachicoltura, mentre capanne per il ricovero   degli attrezzi agricoli nei pressi, costruite con materiale povero (legno, paglia, fronde di alberi ecc.), ci sono sempre state [51] Brigidi L., Poeta A., La casa rurale nelle Marche centrali e meridionali. C.N.R. Firenze 1953. Insediamenti rurali Case coloniche economia del podere nella Storia dell’agricoltura   marchigiana, a cura di Sergio Anselmi, Cassa di Risparmio, Jesi 1986, 2a ed. Due costruzioni, anche se non tipiche tuttavia del nostro territorio, sono state presenti in passato in un certo numero: si tratta delle palombare e delle case terra.

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