Autore: panfoli

  • 17 1.1 I CONFINI

    17 1.1 I CONFINI

    catasto gregoriano mappetta Monte Roberto
    Monteroberto catasto gregoriano

    Compreso tra i 72 e i367 metri sul livello del mare, il territorio del comune di Monte Roberto si estende per 13,51 Kmq, confinando con quello di Maiolati Spontini, Castelbellino, Jesi, San Paolo di Jesi e Cupramontana.
    Corsi d’acqua e strade per lo più segnano i confini del comune: il fiume Esino, per un tratto a valle, con Cstelbellino e Jesi, il torrente Cesola con Jesie San Paolo di Jesi, la strada Cuzzana con Cupramontana e la Boccolina con Miolati.
    Con il territorio di Jesi i confini furono stabiliti con l’accordo de 31 ottobre 1569, raggiunto tra le magistrature di Jesi e Monte Roberto, dopo che tra le due comunità per diverso tempo , c’erano stati litigi e divergenze.1ASCMR, Trasatti e Giuramenti (1569/1643), cc. 5-7: “Cum diu versa fuerit lis et differentia…”, cfr. Appendice n. 1, pp. 281-284.
    Analoghe divergenze erano sorte e stavano manifestandosi in quegli anni con gli altri paesi limitrofi: il problema non riguardava solo Monte Roberto: il Consiglio Generale di Massaccio (Cupramontana) il 13 maggio 1584 discusse “sopra li confini che se letica con le Comunità di Magliolati, San Paolo e Monte ruberto”. 2ASCC, Consigli, II (1574-1584). Liti prolungate ci furono anche con Maiolati, 3ASCMR, Entrate e Uscite (1558-1586), anno 1573, c. 165v. un accordo tuttavia fu siglato a Jesi nel maggio-giugno 1586. 4ASCMR, Entrate e Uscite (1585-1597), c. 10r. Tranquillizzati i rapporti circa i confini con Jesi, Massaccio e Maiolati, non fu altrettanto con Castelbellino, una causa tra le due comunità, proprio per i confini, si protrasse per decenni e decenni. Alla radice di ogni conflitto per le delimitazioni dei confini c’erano sempre ragioni fiscali, far valere cioè su alcuni territori i propri diritti di tassazione.
    Gli antichi confini stradali in qualche caso non rispondono più al vero per lo spostamento della sede stradale avvenuta nel corso dei secoli;

    S. Appolinare, catasto Gregoriano

    è il caso del confine con Cupramontana tra Ponte Magno e le immediate vicinanze di Villa Ghislieri-Marazzi (via Torre per Cupramontana e via Costa per Monte Roberto):
    la strada fino ai primi decenni dell’Ottocento costeggiava un fosso, che era ed è tuttora il confine con Monte Roberto, la strada che “era d’incomodissima discesa”, soggetta a “continue dilamazioni” a causa del “precipitoso fosso”, venne in questo tratto risistemata nel tracciato attuale, 5Ceccarelli Riccardo, Le strade raccontano, Città di Castello (PG)1991, p. 199. i lavori di rifacimento iniziarono nel 1837 per concludersi l’anno dopo. 6Cfr. il progetto del nuovo tratto in ASCC, Atti 1838 tit. 9 e “Verbale di collaudo della nuova strada in vocabolo La Cozzana, negli anni 1837 e 1838” del 29 gennaio 1839, in ASCC, Atti 1839, tit. 9. Dal 1808 al 1817 Monte Roberto, Castelbellino e San Paolo di Jesi costituirono un’unica realtà amministrativa voluta dalla legislazione del napoleonico Regno d’Italia.
    Con la legge per l’unificazione amministrativa del Regno d’Italia del 20 marzo 1865 all’art. 14 dell’Allegato A (Legge sull’Amministrazione comunale e provinciale), si prevedeva l’unione dei “comuni contermini che hanno una popolazione inferiore a 1500 abitanti e che manchino di mezzi sufficienti per sostenere le spese comunali […]. Alla luce di questa legge il Comune di S. Paolo aveva progettato, secondo i capifamiglia della zona, l’aggregazione della parte del territorio appartenente a Monte Roberto sulla sponda destra del torrente Cesola, il Consiglio Comunale di Monte Roberto il 24 maggio 1866 respinse l’ipotizzata aggregazione accogliendo l’esplicita volontà degli abitanti di rimanere uniti a Monte Roberto “come lo furono sempre in addietro”.
    Poco più di un anno dopo, l’8 ottobre 1867, in forza della stessa legge, si discute la “proposta di annessione del territorio di Castelbellino a Monte Roberto”; la proposta questa volta viene adottata “con voti unanimi” purché “l’annessione del territorio di Castelbellino a questo Comune venga accettata senza condizioni”.
    Le proposte di aggregazione che per legge dovevano essere vagliate dal Consiglio Provinciale non ebbe alcun seguito giuridico-amministiativo.7ASCMR, Consigli (1865-1866), pp. 113-114, 24 maggio 1866. ASCMR, Consigli (1866-1876), pp. 112-114, 8 ottobre 1867. Bollettino officiale della Prefettura di Ancona, Anno II, 1867, pp. 298-300: circolare del Ministero-dell’Interno – Direzione Superiore d’Amministrazione – Firenze 14 agosto 1867.


    Un accordo per la rettifica dei confini tra Monte Roberto e Cupramontana lungo la strada Cuzzana-via Torre, fu raggiunto il 3 settembre 1890 con la redazione di un “Verbale di delimitazione del Territorio Comunale di Cupramontana in confine col Comune di Monteroberto” che recepiva cambiamenti avvenuti nel corso dei decenni fissando in maniera definitiva i reciproci confini segnati in apposita mappa.8ASCMR, Lavori (1891-1895), tit. XI, verbale, mappa e carteggio tra i due comuni.

  • 18 1.2 ASPETTO GEOLOGICO E MORFOLOGICO

    18 1.2 ASPETTO GEOLOGICO E MORFOLOGICO

    Il territorio del comune è compreso nella fascia dei rilievi collinari che si sviluppano immediatamente ad est della dorsale montuosa, calcarea, dell’Appennino Marchigiano. Dal punto di vista geologico possiamo distinguerlo in due zone: la prima (zona collinare dai 120 mt. s.l.m. alla parte più alta del territorio, 367 mt. s.l.m.) è costituita da formazioni di origine sedimentaria, terreni prevalentemente sabbioso-arenacei (da noi chiamati “tufo”) alternati e passanti (in profondità) a terreni in gran parte argilloso-marnosi. Sono i depositi di un ciclo sedimentario marino verificatosi tra la fine del Miocene ed il Pliocene (5-2 milioni di anni fa circa), in un mare che allora lambiva i “giovani” rilievi montuosi appenninici.

    I movimenti tettonici che si sono susseguiti durante le ultime fasi della formazione della crosta terrestre, avvenute nel Plio-Pleistocene (4-2 milioni di anni fa), hanno contribuito a dare l’attuale assetto strutturale al territorio ed hanno portato all’emersione delle suddette formazioni argilloso-sabbiose. In seguito a tale evento sono state sottoposte al modellamento degli agenti atmosferici e delle acque correnti, attraverso processi di erosione, trasporto e sedimentazione.
    l sedimenti argilloso-marnosi, tettonizzati, facilmente soggetti ad erosione, hanno dato origine a pendii dolci cui fanno netto contrasto le forme accidentate ed aspre dei sedimenti arenacei più resistenti all’erosione stessa. Tale contrasto è l’elemento dominante e caratteristico del paesaggio collinare.
    I versanti, che raccordano la sommità con il fondovalle, sono generalmente ricoperti da coltri superficiali derivanti dal disfacimento delle sottostanti formazioni geologiche; essi si presentano, nel complesso, in forme armoniche caratterizzate da pendenze medio-basse e da superfici lievemente ondulate, qua e la interrotte da ripidi pendii causati dall’instaurarsi di fenomeni di dissesto (frane ecc.) o da scarpate e rupi scoscese in corrispondenza degli affioramenti degli strati arenacei.

    Carta geologica regione Marche

    Una paleofrana è individuabile all’incirca sotto contrada Sabbioni verso il torrente Fossato, uno smottamento di terreno che pur perdendosi nella notte dei tempi ha lasciato tracce visibili.
    La seconda zona, quella a valle (Pianello Vallesina, S. Apollinare, Cesola) e quella più immediatamente vicina alla sponda destra del fiume Esino, è formata da depositi alluvionali ghiaiosi e talora sabbiosi del Pleistocene Superiore (1.000.000/400.000 anni fa). Da decenni quest’ultima fascia è sottoposta ad intensa azione di scavo che ne ha modificato non poco l’aspetto ambientale. [9]Un ringraziamento particolare al Geologo Dott. Giuseppe Federici di Cupramontana cui si deve gran parte di queste annotazioni. Per una trattazione completa nel contesto regionale, cfr. Regione Marche, L’ambiente fisico delle Marche. Geologia-geomodblogia-idrologia,Firenze, S.E.L.C.A. 1991.

  • 19 1.3 CLIMA

    19 1.3 CLIMA

    Tutte le colline ed i relativi castelli che fiancheggiano il medio corso dell’Esino, dopo la sua uscita dalla gola della Rossa, hanno un clima particolarmente favorevole.

    A determinarlo è la configurazione geografica, “varj monticelli uno più alto dell’altro”, e proprio “per si fatta cagione tanto è grande la salubrità di questa clima, che non si può dir di più”. lo scriveva così, verso la fine del Settecento, lo storico di Cupramontana don Francesco Menicucci (1748-1818) che traduceva le espressioni latine del monaco camaldolese don Mauro Sarti (1709-1766) di qualche decennio prima: [11]Sarti Mauro, De Amiqua Picentym Civitate Cupra Montana, Pesaro. Tip (livelli I 718, p. 9.. scrivevano di Massaccio (Cupramontana), ma poteva e può essere detto anche di Monte Roberto.

    L’altezza media della collina (mt. 350 s.l.m.) e la sua posizione che gli permette di affacciarsi senza barriere verso il mare Adriatico avendo sulla sinistra la valle dell’Esino e a destra la piccola valle del torrente Fossato, creano le condizioni per un’ottima e fresca ventilazione estiva, così come d’inverno non mancano fredde giornate di tagliente e forte vento di nord-est.
    Clima e microclima di Monte Roberto hanno avuto l’attenzione di erudite osservazioni ed approfondite note: furono elaborate e divulgate negli anni Sessanta del Novecento nel contesto di un “lancio turistico” del paese. [12]Pro-Loco di Monte Roberto, Bellezze dell’Appennino Marchigiano, Monte Roberto I 96 , Pp. 21-25.
    Evidentemente però questo clima non è uniforme su tutto il territorio del comune: il fondo valle e la fascia limitrofa al fiume Esino sono meno ventilati, più afosi ed umidi con frequenti giornate di nebbia. Qui d’estate la temperatura massima può arrivare anche a valori elevati: ad es. a Pianello Val lesina, presso l’Istituto Professionale di Stato per l’Agricoltura “Serafino Salvati”, il 2 luglio 1968 e il 7 agosto 1971 si registrò la temperatura di 39C. [13]Bocci Roberto, Lineamenti climatici delle Marche, Regione Marche, Ancona 1982, p, 171,

  • 21 1.4 CORSI D’ACQUA

    21 1.4 CORSI D’ACQUA

    rpDel fiume e dei torrenti, dei mulini e dei ponti, ieri come oggi mancavano sempre i soldi.

    Tre sono i corsi d’acqua che lambiscono o scorrono nel territorio comunale:
    il fiume Esino e i torrenti Cesola e Fossato.

    A – Fiume Esino

    Confine attuale, per il tratto che riguarda Monte Roberto, con il territorio di Caststelbellino e lesi, linea di confine per gran parte del suo corso in epoca tra il Piceno (V Regio) e l’Umbria (VI Regio), il fiume Esino ha avuto sempre uno stretto rapporto con la popolazione del fondo valle e dei castelli sovrastanti: la raccolta della legna lungo gli argini, le gite al fiume, la pesca erano un tempo le occasioni per incontrarsi con uno degli elementi più caratteristici del territorio, ora solo la pesca sportiva fa accorrere al fiume molti appassionati, mentre da qualche anno ecologi ed ambientalisti si premurano di “riscoprire” l’Esino denunciandone in modo particolare il degrado.[14]Marinelli Giorgio, L’Esino dal monte al mare. L’uomo e l’ambiente, ed. Errebi, Falconara Marittima (AN) 1991. Badioli Leonardo, a cura di, Esino, natura & risorse. Raccontare il fiume. la Conferenza Provinciale sul fiume, Jesi, 28-29 maggio 2004, Provincia di Ancona, Ancona 2005. Meschini Renato (foto), Serpilli Fabio M. (poesie), Esino, immagini e parole, Chiaravalle (AN) 2005. Marinelli Giorgio, Il fiume Esino. La valle e i colli. Conoscenza e valorizzazione di un territorio, Ed. SAFRAF, Castelferretti (AN) 2006.

    La sorgente dell’Esino

    l’inquinamento ha raggiunto livelli allarmanti, comunque nel tratto che insiste in territorio di Castelbellino e Monte Roberto la situazione non è critica come in altre zone dell’asta fluviale.[15]Cocchioni M., Pellegrini M. G., Zanetti A. R., Musone ed Esino. Qualità delle acque, Amministrazione Provinciale, Ancona 1993, pp. 33-48.
    Misurazioni fatte agli inizi degli anni Novanta a Moie, hanno determinato la portata media annua in 16.5 mc/s e la portata di magra ordinaria in 3.3 me/s.[16]Regione Marche, L’ambiente fisico della Marche, cit. p. 96. E’ da ritenere per certo tuttavia che nei decenni e nei secoli passati la portata fosse maggiore: acquedotti che emungono dal suo alveo, sorgenti canalizzate che prima si riversavano nel fiume e irrigazioni intensive sono all’origine di una magra quasi perenne. Di tanto in tanto però si possono verificare disastrose inondazioni, l’ultima avvenuta nella seconda decade del dicembre 1990 conferma quelle del passato.[17]Biondi Edoardo, Baldoni M. Antonia, e Ambiente nella Provincia di Ancona, Ancona 1991, pp. 90-91. In territorio di Monte Roberto piene del fiume con relative alluvioni e inondazioni avvenivano verso i confini con Jesi, nella confluenza del torrente Cesola, come nel novembre 1808[18]ASCMR, Bollettini (1791-1808). e nel gennaio 1809, [19]ASCMR, Registro di lettere (1808-1809), n. 22 del 19.1.1809, p. 128. rendendo difficile e problematico per qualche giorno attraversare il fiume e raggiungere la città. Ponti in quella zona allora non c’erano, arrivare a Ponte San Carlo a sud di Jesi per entrare in città importava allungare di molto un non facile tragitto.

    Per attraversare il fiume c’era una barca o zattera: a due pali, uno per sponda, era ancorato un cavo o “canapo” che facilitava alla barca l’attraversamento del fiume. Una di queste barche nel 1644 era posizionata “nel passo dell’Imperatore o fonte della Spina”, la tariffa usata per i cittadini di Monte Roberto era di “tre quatrini per ciascuna persona in qualsivoglia tempo, il doppio alle bestie (6 quatrini)”. [20]ASCMR, Consigli (1639-1651), 3 aprile 1644, c. 79 riv. Sei anni più tardi è barcarolo Domenico di Giovanni Battista da Castelbellino, talmente povero che non ha il denaro per comperare il “canapo” per la barca, per acquistarlo si rivolge alla Comunità chiedendo un contributo (che gli viene elargito) di 3 scudi promettendo di traghettare quelli di Monte Roberto per due quattrini.[21]Ivi, 26 dicembre 1650, cc. 194v e 195r. Analoga richiesta rivolge alla Comunità di Massaccio e a quelle “circonvicine”, ai cittadini di queste farà pagare “tre quatrini per volta” e per tutte le stagioni, mentre i magistrati, “i quattro” di ogni castello, la tariffa sarà di “doi quatrini”.[22]ASCC, Suppliche (1632-1686) .
    Altro punto di attraversamento, agli inizi dell’Ottocento, si trovava nei pressi dell’attuale Ponte Pio. Nella riunione del Consiglio della Comunità di Monte Roberto del 18 marzo 1818 si discute la proposta di costruire nella zona un ponte di legno, sentendo anche le comunità di Jesi, Maiolati, Massaccio, Castelbellino, San Paolo, Staffolo e Apiro perché a tutte le rispettive popolazioni il ponte sarebbe stato di grande utilità: “la barca – si afferma – di fragile legname […] ha cagionato significanti sventure”.[23]ASCMR, Consigli (1809-1827), pp. 136-137. Non rare infatti erano le disgrazie mortali nel guadare il fiume con i carri. La sera del 17 marzo 1809, Bernardino Campana di Monte Roberto, di ritorno da Chiaravalle “nel valicare con il carro e bestie vaccine il fiume Esino presso la barca detta di Moricone, e precisamente tra il territorio di Jesi e questo di Monteroberto, si annegò sventuratamente perché abbondanti acque gli rovesciarono il carro indicato”. [24]ASCMR, Registro di lettere (1808-1809), p. 162, n. 93: lettera di Filippo Salvati sindaco di Monte Roberto al Giudice di pace del Cantone di Jesi, in data 18 marzo 1809.
    Il progetto di un ponte stabile sull’Esino fu portato a termine verso la fine del 1830, fu chiamato “Ponte Pio” come “la nuova strada Provinciale Pia già Labiena”[25]ASCMR, Consigli (1829-1839), p. 191. ASCC, Atti 1835, tit. che conduceva a Cingoli, in onore di papa Pio VIII (1829-1830), Francesco Saverio Castiglioni di Cingoli. Il ponte più volte rovinato e rifatto, per ultimo fu fatto saltare dai tedeschi in ritirata la notte del 18/19 luglio 1944.[26]Luconi Giuseppe, Storia difesi, Jesi 1969, p. 546. Urieli Costantino, 1944 Verso la liberazione, Comune di Santa Maria Nuova 1984, p. 140. La vegetazione lungo il fiume, da Pianello Vallesina a Ponte Pio, è caratterizzata da bosco ripariale a dominanza di pioppo bianco e nero con salici, [27]Biondi Edoardo, Baldoni M. Antonia, op.cit., p. 93. per la fauna ittica invece è questo, una piccola parte del lungo tratto dell’Esino, da Moie fin quasi alla foce, individuato come regione dei ciprinidi termofili (lasca, cavedano, barbo ecc.) senza però che vi sia una netta predominanza di una specie sull’altra. [28]Ivi, p.96.
    Per diversi decenni le zone limitrofe all’asta fluviale sono state interessate, ad un’intensa attività di scavo di materiali inerti; fino al 1980 le cave erano coltivate anche con il metodo detto “a piscina” (estrazione del materiale fin sotto il livello di falda) alcune di queste, ormai abbandonate e trasformate in altrettante “piscine” hanno causato insieme ad altre cave dismesse, un aspetto particolarmente alterante sia a livello paesaggistico che funzionale a tutto il territorio,[29]Ivi p. 92. anche se da parte delle competenti autorità ci si è preoccupati e si è proceduto ad una azione di recupero.
    Per favorire l’attività agricola mediante l’irrigazione dei terreni che da Pianello fiancheggiano l’attuale strada provinciale Planina, furono realizzati, verso la fine dell’Ottocento, iniziando dal fiume, tre vallati: il vallato Paolini che derivando l’acqua in territorio di Castelbellino e dopo aver alimentato l’omonimo molino irrigava i terreni sia nel comune di Castelbellino che in quello di Monte Roberto; il vallato di Pianello e il vallato di Passo Imperatore, più esteso, si limitavano al territorio di Monte Roberto; tutti e tre i vallati furono inquadrati da provvedimenti legislativi del 1900, del 1907 e del 1927.[30]Bonasera Francesco, I Vallati del territorio di Jesi, in Bollettino economico, Camera di Commercio di Ancona, n. 4-1985, pp. 23-33.

    B – IL TORRENTE CESOLA

    Cesola

    L’ultimo tratto del torrente scorre completamente in territorio di Monte Roberto e prima di immettersi nell’Esino raccoglie le acque di tutta l’ampia valle del Massaccio tra Cupramontana, San Paolo e Staffolo e quelle del Rio di Staffolo. Il suo nome Cesola è analogo a Cese, contrada in territorio di Cupramontana dove il torrente nasce e deriva da “silvae caesae”,

    cioè boschi tagliati, ricordando l’opera di disboscamento iniziata probabilmente in questa contrada già agli inizi del Duecento. [31]Ceccarelli Riccardo, Le strade raccontano, cit., p. 224. Il suo corso fu probabile linea di confine sotto il dominio longobardo tra la Pentapoli e il ducato di Spoleto-Camerino.[32]Urieli Costantino, Jesi il suo Contado, Jesi 1988, vol. I, torno I, pp. 104-105.Cherubini Alvise, Presenza longobarda nel territorio jesino, in Istituzioni e Società nell’alto medioevo marchigiano. Atti e Memorie, 86-1981, Deputazione di Storia Patria per le Marche, Ancona 1983, vol. II, p. 537. Nei tempi passati era più ricco di acque e se, stando al Menicucci, in territorio di Cupramontana si idoveva registrare una “sufficiente quantità di barbi e lasche, [33]Menicucci Francesco, Massaccio nel 1789, appendice in Dottori Delfo, Cupra Montana e i suoi figli più noti, Cupra Montana 1983, p. 131.

    C – IL TORRENTE FOSSATO
    Percorso torrente Fossato

    Scende dalle contrade Capriola, Palazzi e Fonte della carta in territorio di Cupramontana con il nome di fosso di San Giovanni,[34]Ceccarelli Riccardo. op. cit., pp. 155-156. cambia nome in Fossato, Fossaro o Rio Fossato [35]ASCMR, Deliberazioni consigliari (1946-1950) n. 22/5,7 maggio 1950. in territorio di Maiolati Spontini, Monte Roberto e Castelbellino prima di confluire nell’Esino. Nel tratto di Monte Roberto era chiamato anche torrente Bovana.[36]Amatori Alberico. Le Abazie e monasteri piceni, Tip. Borgarelli, Camerino 1870, p. 2.

    Alcune sorgenti fanno si che il torrente per quanto in magra nel periodo estivo abbia sempre un po’ d’acqua; l’ampio bacino di raccolta e le piogge prolungate ed insistenti lo fanno diventare impetuoso con allagamenti nella zona di Borghetto di Castelbellino.

    In queste condizioni, più frequenti nel passato, attraversarlo era addirittura un rischio: il passo del Fossato, così era chiamato il punto della strada pubblica che saliva verso CastelbelIino e Monte Roberto, non aveva un ponte e “in tempo di pienara” non si attraversava, così. il 22 maggio 1757 il Consiglio della Comunità decide di porre una trave di quercia sul torrente per fare passare i pedoni con più sicurezza. [37]ASCMR, Consigli (1756-1766) cc. 45-46.

    ponte su Fossato loc. Borghetto

    Lo stesso Consiglio sessant’anni prima, il 22 gennaio 1697, aveva deciso a stragrande maggioranza (18 voti favorevoli e uno solo contrario) la costruzione di un molino a grano sul Fossato ubicato sui beni della comunità per sollevare il comune dalle tasse e per comodità del popolo specie delle vedove [38]ASCMR, Consigli (1676-1698), c. 251 r/v. e delle donne, in considerazione che queste più degli altri si recano al molino per macinare. [39]Ivi. c. 201v (23 novembre 1692). Per questo progetto ci vogliono circa 200 scudi che si pensa di prendere dalla vendita della legna della selva della Comunità; la Congregazione del Buon Governo però ne interrompe nel 1699 la costruzione. [40]Niccoli M. Pia, Legislazione molitoria a Jesi in età moderna, in Nelle Marche Centrali (a cura di Sergio Anselmi), Cassa di Risparmio di Jesi, Jesi 1979, vol. 1, (p. 709-741), p.718. Tuttavia il Governatore di Jesi Mons. Giambattista Barni nel febbraio 1713 ordina che “si fabbrichi un molino da grano nel nostro Fossato”, la spesa prevista intanto si era ridotta a 100 scudi. [41]ASCMR, Consigli (1711-1735), cc. 31v e 33v (19.2.1713) e c. 34r (24.1.1713). Comunque anche l’ordine del Governatore non giunge a compimento.
    Il Consiglio della Comunità infatti ritorna sul progetto il 4 agosto 1720: “È bene che la nostra Comunità fabrichi un molino a grano nel Fossatd dove c’è un sito molto a proposito e questo ridonderebbe in grand’utile non solo di questa Comunità, ma anche del suo Popolo e degli abitanti dei circonvicini Paesi, mentre questi dal tempo che restò inabile il molino della Torre [il molino delle Torrette in fondo alla strada Boccolina] stanno in continui pericoli d’affogarsi nel fiume che necessariamente devono passare a guazzo, oppure su la barca con pagare per andare a macinare nel Molino del Franciolini [sulla sinistra del fiume in territorio di Castelplanio], quale il più delle volte resta di non macinare o pure in Jesi e questi stanno molto lontani”.[42]Ivi, cc. 149ve 150r. II molino proprio non si doveva fare: verso la metà del secolo, Nicolantonio Amadio comincia a costruire il molino dopo aver ricevuto il parere favorevole dalla “Camera Apostolica”, deve però ben presto rinunciare perché su ricorso della città di Jesi gli viene revocato il permesso.
    Agli inizi dell’Ottocento i suoi figli supplicano ancora la competente autorità cioè “Monsignor Tesoriere della Marca per la facoltà di costruire nuovamente l’accennato molino a grano”, che si sarebbe chiamato di “mal tempo”, perché avrebbe funzionato solo nei giorni di tempo piovoso. Con tutta probabilità anche questa supplica avrà avuto risposta negativa. Il regime fiscale sulla macinatura era particolarmente duro e favoriva i molini della comunità; cioè quelli della città di Jesi, presso i quali si era obbligati a macinare, così la magistratura jesina, appoggiandosi sulle disposizioni pontificie, faceva del tutto per non far proliferare molini privati, dove però, in quei pochi che c’erano, ci si recava ugualmente contravvenendo agli ordini superiori: [43]Niccoli M. Pia, op. cit., pp. 719-720.

  • 25 1.5 LE STRADE

    25 1.5 LE STRADE

    rpDove passano le strade, non passa la miseria, però c’è sempre qualcuno che fa i dispetti.

    Per ogni comunità le strade in tutte le epoche sono state di fondamentale importanza, le autorità ad ogni livello si sono sempre preoccupate della loro condizione ed anche molte delle risorse del pubblico bilancio venivano impegnate per la loro manutenzione. I problemi della viabilità preoccupavano di più le piccole comunità perché avevano meno risorse e di più ancora quelle in collina: bastava qualche forte temporale, per non parlare di lunghe stagioni inclementi, per mettere a soqquadro il sistema viario fatto per lo più di strade impervie. A creare ricchezza per una comunità era in modo particolare il commercio delle derrate agricole e dei prodotti dell’artigianato, per questo le strade erano di vitale oltre a quello di favorire una circolazione di persone più sicura e più celere.
    Da Monte Roberto la strada pubblica “sopra il Crocefisso”, l’attuale via Pace, conduceva a Maiolati e “ad altri paesi verso la montagna”, [44]ASCMR, Trasatti (1775-1788), c. 122v (10.8.1788) e Trasalii (1788-1801), It da questa diramava la strada della Buccolina, necessaria per andare al molino della Torre.
    Il primo tratto di questa strada, confine e in comproprietà con Maiolati, provocava a volte qualche incomprensione o lite tra le due comunità in occasione dei lavori di manutenzione che, in considerazione della forte pendenza della strada stessa, dovevano essere fatti con le dovute cautele, ad es. eliminando le selciate “ove le Bestie, specialmente le Bovine non possono fermare li piedi per far forza a tirare li carri”. [45]ASCMR, Consigli (1780-1793), c. 93r. Verso Castelbellino l’unica strada per tanti secoli è stata l’attuale via San Marco, anch’essa bisognosa di continui lavori per la forte pendenza: erano a volte radicali rifacimenti come l’intervento del 1587 [46]ASCMR, Entrate e uscite (1585-1597), c. 25r. o del 1816, anno in cui si parla di “apertura” della strada “diretta e rettilinea” tra Castelbellino e Monte-Roberto, riassettata con “giornate a fuoco”.[47]ASCMR, Consigli (1809-1827), p.181 (13 agosto 1820).
    La strada pubblica “per andare a Jesi, Loreto, Ancona ecc.”, scendeva dal castello verso il torrente Fossato; [48]ASCMR, Consigli (1735-1755), c. 282r. il tratto, prima di incontrare il corso d’acqua, si chiamava strada di S. Giorgio e si incrociava con la ripida strada di Garnbasilla o Gammasilla che proveniva da Castelbellino. Sul torrente fino alla metà dell’Ottocento mancò un ponte in muratura o anche in legno, il luogo del guado era chiamato passo del Fossato; [49]Vedi nota 37. del ponte in muratura il Consiglio della Comunità ne discusse nel 1845 da costruirsi insieme a Maiolati e Castelbellino, [50]ASCMR, Consigli (1843-1849),12 gennaio 1845. solo però nell’ottobre del 1850 il ponte venne ultimato su progetto dell’architetto jesino Ciriaco Santini le spese furono sostenute soltanto dalle comunità di Monte Roberto e Castelbellino. [51]ASCMR, Consigli (1850-1859), 11 agosto 1850, p. 5.
    Superato il torrente, la strada verso Pianello che divideva il territorio tra Monte Roberto e Castelbellino era a volte poco praticabile per acque stagnanti che chiamavano “morticci” [52]ASCMR, Consigli (1780-1793), 10 agosto 1788, c. 94r. Essa poi proseguiva verso lesi quasi costeggiando il fiume in zone fangose e acquitrinose spesso impraticabili, e proprio per ovviare questa situazione che diventava sempre più insostenibile, fu redatto nel 1813 da Serafino Salvati un progetto per una nuova strada per Jesi. [53]ASCMR, Descrizione della chiusa, vallati e molini urbani di Jesi (1794) cc. 15v e 15v.
    Il fiume si attraversava, prima della costruzione di ponte Pio (1830), sulla barca o a guado o nella zona di Passo Imperatore o presso l’attuale ponte, per incontrare la strada consolare o Clementina (ex strada statale, ora provinciale 76) sul passo del Massaccio, così era chiamato questo bivio alla fine del Settecento, come del resto la strada, strada del Massaccio (attuale via Planina, tratto della strada provinciale n. 9 Castelferretti-Montecarotto), dal nome della località più importante che raggiungeva. [54]ASCMR, Consigli (1809-1827), p. 43. Per il mantenimento di questa strada che da ponte Pio arrivava a Massaccio, attraverso Pianello, Castelbellino, Monte Roberto e Maiolati, fu predisposto nel 1834 dal comune di Monte Roberto un progetto di consorzio “mediante il quale ciascuna delle Comuni contribuisca proporzionatamente alla spesa della manutenzione”. [55]ASCC, Atti 1855, tit. 9.Accolto in linea di massima da tutti i comuni interessati [56]Per l’adesione di Monte Roberto, cfr. ASCMR, Consigli (1829-1839) pp. 191-192. e sanzionato dal Delegato Apostolico di Ancona mons. Gasparo Grasselli ni il 13 dicembre 1834, il progetto fu poi respinto il 5 marzo 1835 dal Consiglio della Comunità di Massaccio che ugualmente negò parere favorevole nella seduta del giorno 11 marzo 1839 ad un nuovo progetto redatto dalle magistrature di Maiolati, Castelbellino e Monte Roberto. Massaccio giustificava il suo rinnovato rifiuto al consorzio, il cui primo progetto addirittura risaliva al 1816, e alla ripartizione della spesa, per essere “già bastantemente dispendiata per aver sostenuto poco fa una spesa ben forte nella costruzione del nuovo tronco di strada denominata la Cozzana” e per il poco utilizzo di detta strada, chiamata strada di Monte Roberto o strada dei Castelli, da parte della sua popolazione che preferiva la strada della Torre-Cozzana. [57]ASCC, Consigli XXVI, torno 1(1835-1843), n. 23, pp. 214-219. L’attuale tracciato della strada provinciale dei castelli fu progettato ed approvato dai comuni di Castelbellino, Monte Roberto, Maiolati e Massaccio negli ultimi mesi del 1860,[58]Villani V., Vernelli C:, Giacomini R., Maiolati Spontini – Vicende storiche di un castello della Vallesina Comune di Maiolati Spontini 1990, pp. 274-275 e 481-483., fu tuttavia realizzato negli anni 1878-1882 in base alla legge n. 4613 de13 agosto 1868. [59]Consiglio Provinciale di Ancona, sessione ordinaria del 1911 (9.8.1911), fasc.7, p. 31. Poco oltre la metà dell’Ottocento si pensò ad una strada che arrivasse in contrada Colmorino di Maiolati proseguendo quella che veniva da Pianello (attuali via S. Giorgio e via Calapina). Il progetto viene respinto dal Consiglio Comunale di Monte Roberto il 1° gennaio 1854: la strada doveva essere costruita in consorzio tra Monte Roberto, Castelbellino e Maiolati, il progetto era stato del Priore di Maiolati “per ai poveri nell’attuale perniciosa stagione invernale”. [60]ASCMR, Consigli (1850-1859), p. 168. La cosiddetta strada di S. Apollinare (ora tratto della provinciale n. 9, Castelferretti-Montecarotto) è stata fino al secolo scorso in precarie condizioni: nel 1823 non era “ricoperta né di ciottoli, né di breccia, né di selciato”, veniva utilizzata prevalentemente dalla gente di San Paolo, Massaccio, Staffolo e Apiro che non dagli abitanti di Monte Roberto. Per questo motivo di fronte alle richieste, come quelle di Massaccio, di intervenire per accomodarne il tratto in dissesto,
    Monte Roberto si rifiuta affermando che “in nessuno degli atti communitativi tanto antichi che recenti, si trova descritta una benché tenue spesa sostenuta per i riattamenti di detta strada e si rivolge alle superiori autorità suggerendo anche lo spostamento del tracciato stradale più lontano dal fosso adiacente. [61]ASCMR, Consigli (1809-1827), pp. 241-242 (10.10.1823) e pp. 271-273 (16.7.1826).
    A questo rifiuto di Monte Roberto alle richieste di Massaccio per la strada di S. Apollinare seguirà, come abbiamo visto, pochi anni dopo l’altrettanto netto rifiuto di Massaccio a Monte Roberto ad entrare in consorzio per la manutenzione della strada dei Castelli: rifiuti tutti ben motivati ufficialmente da ragioni contabili e di utilizzo che tuttavia fanno capire come ciascuna comunità, e lo si dice in maniera ufficiale in seduta consiliare, ricorresse a “studiati maneggi e forti impegni” presso le superiori autorità per indurre la controparte alle proprie ragioni. [62]ASCC, Consigli XXVI, ( 1835-1843), torno I, p. 219.
    In tempi più recenti il territorio di Monte Roberto a valle, è stato interessato al nuovo tracciato della statale 76 (superstrada) a quattro corsie, che attraversa tutta la Vallesina: il tratto che riguarda la nostra zona fu inaugurato nei primi giorni di agosto del 1981. Il progetto risaliva alla fine degli anni Sessanta, l’intera opera era stata richiesta da sindaci ed amministratori della Vallesina, da organizzazioni provinciali e regionali nel contesto di nuovi e più rapidi collegamenti tra Marche, Ancona in particolare, e l’Umbria. [63]Ceccarelli R., Franceschetti M. A., Massaccio M., Il cammino di una comunità – Macine e Borgo Loreto di Castelplanio, Città di Castello (PG) 1993, pp. 61-62.

  • 29 1.6 LE FONTI

    29 1.6 LE FONTI

    rpAcqua, fonte di vita e di controversie.

    Agli inizi dei Seicento le fonti cui poter attingere acqua per uso alimentare e domestico erano fonte della Chiesa Nuova, fonte di Berto, fonte della Ciampana e fonte Estate.[64]ASCMR, Consigli (1608-1616), c. 133r (7.9.1614) . Fonte della Chiesa Nuova, così chiamata per la relativa vicinanza alla chiesa di S. Maria del Buon Gesù finita di costruire nel 1567 ubicata all’angolo tra le attuali via Pace e viale Matteotti, ebbe dalla metà del Settecento la denominazione di fonte sopra il Crocifisso e fonte del Crocifisso dopo la costruzione dell’omonima edicola; una strada collegava la fonte alla chiesa, mentre la fonte aveva come protezione una piccola volta.[65]Ivi, c. 140v.

    Fonte di Berto e fonte Estate, ubicate nelle omonime contrade, avevano “trocchi” e beveratoi per il bestiame e pantani-lavatoi per lavare panni.[66]ASCMR, Trasatti (1755-1788), c. 30. Il bestiame ovviamente si poteva abbeverare anche presso le altre fonti mentre c’era la necessità di tenere sotto controllo la pulizia delle stesse fonti, per questo con periodicità quasi annuale venivano ripulite e si facevano precise ordinanze di lavare nei luoghi destinati o come si prescrive il 15 febbraio 1615 “alla distanza di due canne” per la fonte della Chiesa Nuova e per la fonte della Ciampana.[67]ASCMR, Consigli (1608-1616), c. 146r; norme precise erano dettate degli statuti della città e del contado di Jesi, cfr. Statuta sive Sanctiones et Ordinamenta Aesinae Civitatis, Macerata, Luca Bini 1561, c. 80v, Liber Quartus, Rub. XXVIII: “De pannis & aliis turpibus lavandis apud fontes civitatis”, in questa norma la distanza da osservare era di “una pertica o di una canna”; la “canna” corrispondeva a circa 4 metri. In qualche fonte si lavavano gli arnesi usati per la vendemmia (fonte della Chiesa Nuova), rimandando la pulizia della stessa fonte a dopo la conclusione di questi lavori agricoli.[68]ivi, c. 134r (14.9.1614). Fonte della Ciampana, ubicata presso il “borgo”, era, per la sua vicinanza al castello, quella più frequentata e quella che riceveva più attenzioni, nonostante questo, il 16 ottobre 1644 si ravvisa la necessità di rimondarla ogni anno “per buttarsi dalle genti in essa sporchizie” e si stabilisce la pena di uno scudo per ogni persona e per ogni volta che fosse stata colta in fragrante, e denunciata con prove e testimoni, ad imbrattare la fonte stessa. [69] ASCMR, Consigli (1639-165 1), c. 86r “Ciampana” o “ciampane” equivaleva a “pantano” o “vasca”, si parla infatti “di accomodare il ciampano” o “li ciampani”, Ivi, c. 103r (21.XII.1645) e c. 133v.

    La fonte ebbe nel 1865 un radicale restauro diretto dall’architetto jesino Ciriaco Santini mentre l’anno dopo, per meglio attingere acqua, vi fu installata una moderna “pompa a tromba assorbente” fatta da Pietro Montali di Jesi.[70] ASCMR, Consigli (1865-1866), p. 117 (24.5.1866).

    Fonte Estate

    Più decentrata dal castello era, ed è, fonte Estate utilizzata sia dai residenti in territorio di Monte Roberto che da quelli di Castelbellino; dopo anni e anni di comune e pacifica convivenza presso la fonte, dovettero verificarsi episodi spiacenti, peraltro non altrimenti specificati e conosciuti, se il Consiglio della Comunità di Monte Roberto il 28 aprile 1641 decise di proibire alle donne di Castelbellino di lavare panni a fonte Estate, evitando così altri inconvenienti tra Monte Roberto e Castelbellino “per la poca intelligenza che v’è tra detti Castelli”, sotto la pena, anche questa, di scudi uno per ciascuna volta.[71] ASCMR, Consigli (1639-1651), c. 24r/v.

    Probabile luogo di Fonte della Spina C.Ghislieri

    Fonte della Spina si trovava sulla sponda sinistra dell’Esino di fronte a passo Imperatore; campo della fonte della Spina con “moglia” contigua, era la zona limitrofa alla fonte, territorio di Monte Roberto pur al dì là del fiume.[72] ASCMR, Consigli (1665-1676), c. 37v (27.4.1666) e Consigli (1676-1698), c. 31r. Il campo, confinante con altri appartenenti ai Ghislieri, era proprietà della Comunità di Monte Roberto; verso metà del Seicento si cerca di permutare questa “moglia al di là del fiume” con un terreno degli stessi Ghislieri in contrada Rovegliano vicino però ad altri di proprietà pubblica. La comunità aveva provveduto in questi anni a bonificare in parte la “moglia”, zona acquitrinosa e con vegetazione spontanea, salvaguardando alberi piccoli, alberi da frutto e quelli d’alto fusto (“da costruzione”), tagliando solo spini e seminando a grano il terreno bonificato. Decisa la permuta dal Consiglio il 1 dicembre 1643, cinque anni più tardi non si ha ancora il relativo permesso dai competenti uffici delle congregazioni romane nonostante sia stato già concordato il prezzo della valutazione del terreno con i Ghislieri (200 scudi la coppa per la terra arativa e 25 fiorini la coppa per la moglia). [73]C ASCMR, Consigli (1639-1651), c. 195 (16.X1.1640); c. 37v(24.2.1642); c, 38r/v (23.3.1642); cc. 69-71(I XII.1643); c.

    Le foto e i percorsi sono di Daniela Chiariotti.

  • 30 1.7 I TOPONIMI

    30 1.7 I TOPONIMI

    rpAmbienti, colture, storia e storie, il tutto concentrato in un nome.

    La commissione    chiamata a realizzare, verso la fine del Settecento, il nuovo catasto dei terreni divise il territorio in quattro zone: Il Piano, Rovegliano, al di là del Fossato, al di qua del Fossato, ciascuna con le sue contrade. 74ASCMR, Verbali della Congregazione Catastale (1778-1781), la commissione era formata dai periti Lorenzo Moriconi, Domenico Mazzarini, Domenico Tesei, Francesco Tesei, Domenico Campana, Carlo Romagnoli, Giovanni Amatori, sotto la direzione di Don Francesco Antonelli. Calcolatori erano Serafino Salvati e Clemente Mazzarini. Molti di quei nomi sono scomparsi, altri rimangono   ancora, tutti comunque erano antichi ed usati da secoli per indicare una parte specifica del territorio. Analizzandoli si possono ricostruire ambienti, colture, storia e storie, il tutto concentrato in un nome, unica reliquia forse e segno di un passato e di un vissuto di tante generazioni.  
    Queste   le quattro zone con le relative contrade:   
    1) II Piano, comprendeva le contrade di: Avolante o Forsaneto   o Pian della Torre, Campo maggio, Coste o Monte    Cucco, Limiti, Monte   Santo Pietro, Panicaglia, Passo dell’Imperatore, Pian della Cesola, S. Apollinare, S. Settimio o Varchio, Vallottone, Valcerreta.
    2) Rovegliano nel piano, comprendeva: Pian di S. Luca, Schiete, Spescia, Trivio o Pianello, mentre    Rovegliano nel Colle era formato dalle contrade di Chiusura, Ser Tomasso e Torre.
    3) Al di là del Fossato   c’erano le contrade di: Cantalupo, Campo   Grasso, Cannuccia, Catalano, Castellano, Locora o Lucora, Passo di Ceccone, Pratacci, Ripa Corvara, Ranco, Savino, Sanguinetti, Selva.
    4) Al di qua del Fossato invece le contrade di: Calapina, Ciampana, Chiesa Nuova, Contessa, Costa di Luccio, Fonte, Fontestate, Fonte di Berto, Forcone, Fornace, Fossatelli, Fosso Curto, Fosso Lungo, Lenze, Montali, Noceto, Olivella, Poggetto, Porcini o S. Settimio, S. Brigida o Sabbioni, S.   Giorgio, S. Silvestro, Temperatura, Tremoni, Valle di Calapina, Villate.
    Registrati in ordine alfabetico, di ogni     toponimo proveremo    a dare la spiegazione storicamente   più attendibile situandolo nell’attuale   toponomastica del comune.  Innanzitutto il nome del capoluogo:
    Monte Roberto, nella dizione popolare viene detto anche “Monteribèrto”   o “Monteribè, è un evidente composto di   “monte” e di un nome di   persona “Roberto”(dal germanico   “Hrodbert”), probabilmente   all’origine del castello o se non altro proprietario della zona. [75]AA.VV., Dizionario di Toponomastica/Storia e significato dei nomi geografici italiani, Torino, Utet 1990, p. 421.   
    Il Piano era, ed è, più della metà del territorio comunale delimitato dall’attuale via S. Pietro, dal corso del fiume Esino e dai confini con Jesi, San Paolo e Massaccio.  Si estendeva verso Jesi, la maggior parte in pianura sotto la Torre dei Ghislieri, da cui i nomi di Piano, per tutta l’area, e di Piano della Torre.[76]I toponimi, quando non altrimenti segnalato, sono desunti sia dai citati Verbali della Congregazione Catastale (1778-1781) che da altri due Catasti, il primo redatto nel 1743 e l’altro verso la fine dello stesso secolo.    
    Piano della Torre, “tra la strada che va a S. Maria Nuova   e la Cesola”; S. Maria Nuova era la chiesa di S. Maria di Rovegliano della metà. del Quattrocento, [77]Cherubini Alvise, Le antiche pievi della Diocesi di Jesi, Fano 1982, pp. 91-92.di questa piccola chiesa rimase fino agli inizi del Novecento il ricordo in una strada vicinale chiamata appunto “di S. Maria Nuova” che dalla strada provinciale, in territorio di Massaccio (Cupramoptana), presso il confine con San   Paolo, costeggiando la Cesola, proseguiva verso il territorio di Monte    Roberto.[78]Ceccarelli R., Le strade raccontano, cit., p. 197. È questa la zona industriale di Monte Roberto con le recenti denominazioni di via dell’Industria, via dell’Artigianato.
    Avolante, toponimo oggi limitato all’omonima   contrada, in passato indicava una zona più ampia arrivando ai confini con   Massaccio i cui terreni limitrofi, nel Cinquecento, erano chiamati “fundus   Finilium aut contrata   Avolantis” o anche   “Agulanti”.[79]Ivi, p. 198. 
    Forsaneto, è la zona limitrofa al fosso che   scende da via Avolante e   che divide il territorio di Jesi da quello di Monte Roberto.
    Campo Maggio   o S. Apollinare, anche questo “tra la strada che va a S. Maria Nuova e la Cesola”; da “campus”, luogo pianeggiante, un’aperta   campagna, e “major”, più grande, maggiore,[80]Pellegrini G. B., Appunti di toponomastica marchigiana, in Istituzioni e Società, cit., p. 228. corrisponde alla zona attuale tra via Cesola, via dell’Industria e via S. Apollinare; poco oltre tra il torrente Cesola e l’abbazia c’era il Pian del Comune con prati e vegetazione   di querce e pioppi.
    Coste o   Monte Cucco, oltre la Cesola, tra il confine con San   Paolo e la strada di S. Maria Nuova che proveniva dal confine con Massaccio, “cucco” da “cucus”, altura tondeggiante.
    Limiti: contrada della Moglia o delli Limiti, nei pressi del fiume, zona in parte acquitrinosa con vegetazione spontanea o ripariale, è sostanzialmente la zona dell’attuale via Planina.
    Monte Santo Pietro, toponimo rimasto come via S. Pietro; è l’ultimo ricordo della chiesa di S. Pietro di Rovegliano, situata a sinistra del torrente Cesola sul colle chiamato fino al secolo scorso Monte S. Pietro, fu donata nel 907 dall’ex-imperatrice Ageltrude moglie di   Guido da Spoleto, re d’Italia e   imperatore, all’abbazia di S. Eutizio in Campi (Norcia).[81]Cherubini A., op. cit., pp. 66 e 84.Nel Settecento nella contrada c’erano ancora i beni della chiesa di S. Pietro, andata in rovina verso la metà del sec. XIV, i cui resti probabilmente erano nella boscaglia a monte dell’omonima attuale via. [82]Ceccarelli R., op. cit., p. 200.   
    Panicaglia o Trivio, indicava tutta l’ampia zona tra la strada che segnava e segna il confine con   Castelbellino e l’abbazia di S. Apollinare, è gran parte dell’attuale centro abitato di Pianello   Vallesina.    Panicaglia, dal latino “panicalis”, da “panicum”, panico (pianta erbacea), i cui semi    piccolissimi costituiscono un ottimo   alimento per gli uccelli, costituiva in età medievale il cibo ordinario della gente di   campagna.[83]Baldetti Ettore, Aspetti topografico-storici dei toponimi medievali nelle valli del Misa e del Cesano, Serra de’ Conti 1988, p. 127. Trivio, da “trivium”, incrocio di strade.
    Passo dell’Imperatore, oggi è via Passo Imperatore. E’ un toponimo che risale al Quattrocento e al Cinquecento[84]ASCMR, Trasatti e Giuramenti (1569-1643), 31 ottobre 1569, c. 5r. e viene legato all’imperatore Federico II che avrebbe varcato il fiume in questo luogo, come riferiscono alcuni storici locali, nel corso della sua visita fatta a Jesi nel 1216, visita rivelatasi del tutto infondata in quanto Federico II in quel tempo era in Germania.[85]Pietro Gritio, Ristretto delle Istorie di Jesi, Macerata, Sebastiano Martellini 1578, pp. 23-24. Urieli Costantino, Jesi e il suo Contado, Jesi 1988, vol. I, tomo 2, pp. 118-119 e relativa bibliografia.   Probabilmente invece il toponimo deriva da “paratore”, “paratura”, “strettoia”, in analogia   a   Campo Imperatore, in quel punto infatti il letto del fiume si restringeva e vi era posizionata la barca-traghetto per attraversarlo. La strada che vi arrivava, superava il fosso della Palombaretta, il nome del luogo era allora passo del fosso della Palombaretta o passo Imperatore,[86]ASCMR, Bollettini (1775-1790), 22 gennaio 1781, c. 63. più   brevemente passo della Palombaretta. Anche la strada era chiamata strada della   Palombaretta in contrada passo dell’Imperatore. [87]ASCMR, Registro delle Lettere dei Signori Superiori… , c. 211r e c. 226v. Indubbiamente una piccola costruzione per l’allevamento dei piccioni o palombi, “palombaretta”, dava il nome   sia alla strada che   al fosso.  La   contrada comprendeva     anche l’attuale via I Maggio.
    Pian della Cesola, da contrada passo Imperatore ai confini con Jesi, zona limitrofa al torrente Cesola, comprendeva   l’attuale via S. Antonio, che ricorda la chiesa di S. Antonio di   Antignano del sec.  XIII/XIV.
    S. Apollinare, toponimo identico all’attuale, fa riferimento all’area limitrofa all’abbazia.
    S.  Settimio o Varchio, zona nei pressi della piccola chiesa dedicata a san Settimio ricordata per la prima volta in una visita pastorale del 1726 situata nei pressi del torrente Cesola   ed ora anche della nuova statale 76; varchio, da “varco”, stretto passaggio probabilmente sulla Cesola.
    Vallatone, detto anche Vallattone o Vallettone, tra S. Apollinare, la Cesola ed i confini con San Paolo, è rimasto nella toponomastica attuale come via Vallettone.
    Valcerreta, tra la strada che   andava alla chiesa di S. Maria   Nuova e S. Apollinare nei pressi della Cesola, il toponimo rivela la presenza di antichi boschi di cerri (specie di quercia) nella piccola valle.
    Rovegliano, dalla      denominazione   romana di una   proprietà fondiaria Ruvellianum, mutuato a sua volta dal nome del suo proprietario Rubellius.[88]Pellegrini GB., op.cit., p. 257.Altri spiegano il toponimo dall’antico pagus   Veheianus ricordato da una iscrizione su un piatto    ritrovato nel secolo XVIII   in    contrada Pieve di     Massaccio (Cupramontana).[89]Mancia F., Lettera… intorno al sito di Cupra Montana, Faenza 1768, p. 84. Menicucci F., in Antichità Picene, vol. XV, p. 225. Tesei B., Cupra Montana antica città del Piceno, Monsano 1970, p. 43.  Con   questo   nome si indicava un   tempo una zona più ampia dell’attuale via Rovegliano sia in territorio di Monte Roberto che in quello di Cupramontana   chiamato con la denominazione di contrada Rovejano.
    Rovegliano nel   Piano, era la zona limitrofa alle attuali via XXV Aprile e parte di via S. Pietro, dalla pianura alle prime propaggine del colle.
    Pian di S. Luca, presso l’attuale via S. Pietro, il toponimo è presente solo nei “Verbali della Congregazione Catastale (1778-81)”, e si riferisce non ad una chiesa ma ad una edicola religiosa dedica al santo.
    Schiete, antico toponimo presente nei catasti jesini della fine del Duecento come “fundus de Scletis seu Ysclete”,[90]Menicucci F., Estratti dai catasti jesini, cc. 79v, 80v, 84r/v. da “aesculetum” cioè “bosco di farnie”,[91]Pellegrini G.B., op. cit., p. 280. una specie di quercia di grandi dimensioni, detta anche eschia; di questa importante vegetazione in zone pianeggianti, ormai scomparsa, rimase per lungo tempo solo questo nome andato in disuso nell’Ottocento.   
    Spescia, da “spissus” cioè bosco fitto,[92]Ibidem. un nome anche questo che ricorda come la zona fosse stata per secoli ricoperta da boschi e selve.
    Trivio o Pianello, da “trivium”, incrocio di strade – come abbiamo già visto e Pianello dal latino “planum”, distesa di terreno piano, pianura.
    Rovegliano nel Colle, comprendeva una zona molto più ristretta da quella indicata oggi con lo stesso toponimo, sostanzialmente   era l’attuale via Ponte Magno, anche se altri nomi venivano associati con “Rovegliano”.
    Chiusura: era la parte media dell’avvallamento dove scorre il piccolo fosso che scende dalla collina di Rovegliano, si tratta con tutta probabilità dell’area chiamata anche   Rovegliano o il Vallone, o anche Rovegliano o sia Forcone, più in basso c’era la strada che andava alla chiesa di S. Maria Nuova.
    Ser Tomasso, dal nome di un proprietario del luogo, era la parte più bassa limitrofa alla strada che andava alla chiesa di S. Maria Nuova e S. Apollinare.
    Torre, la parte immediatamente sotto villa Ghislieri-Marazzi o villa della Torre, delimitata dall’attuale via Torre e dalla strada provinciale (n.  9 Castelferretti-Montecarotto) denominata via Costa.
    Al di là del Fossato: il torrente ha sempre avuto nel contesto del territorio di Monte Roberto una riconosciuta importanza, discriminando le contrade al di qua o al di là del corso d’acqua, per alcune questioni amministrative come ad es. per il diritto alla cavalcatura per il medico: solo se le famiglie erano “al di là del Fossato” il medico poteva esigere la cavalcatura altrimenti doveva andarci a piedi.[93]ASCMR, Consigli (1711-1735), 25 giugno 1713, c. 44r.    
    Cantalupo, a valle lungo il Fossato, nei pressi dei confini con il territorio di Massaccio (Cupramontana); il toponimo può ricordare l’antica presenza nella zona del lupo che fino ai primi decenni del Seicento veniva segnalato anche nei boschi e nelle selve nei pressi di Jesi, può essere tuttavia anche una espressione apotropaica, usata cioè per scongiurare ed allontanare la presenza dell’animale ritenuto malefico.[94]Ceccarelli R., Le strade raccontano, cit., p.27I e relativa bibliografia.  
    Campo Grasso, indicava un’area compresa tra contrada Torre, contrada Le Locora e contrada Sànguinetti: l’indicazione specifica non di rado veniva fatta anche con questi nomi; “grasso”, sta per fertile, ubertoso.
    La Cannuccia   o Le Selve, chiamata anche Cannuccia   o Cantalupo, tra il fosso di Camoriano o il Fossato e il confine con Massaccio. Il fosso di Camoriano è un altro nome del fosso di San Giovanni o Fossato, deriva da “camurianum” antica proprietà fondiaria della gens Camuria o Cameria.[95]Ivi, p. 157.
    Catalano, zona in contrada Torre, con tutta probabilità così chiamata da un lontano proprietario proveniente dalla Catalogna o più in generale dalla Spagna meridionale. Un forte movimento migratorio di catalani verso l’Italia si verificò tra il XI e il XIII secolo. In questa contrada la comunità di Monte Roberto aveva una delle sue proprietà fondiarie con relativa casa colonica. [96]ASCMR, Consigli (1665-1676), 13 febbraio 1667, c. 45v.
    Castellano o il Castellaro, adiacente a Le Locora, da “castellanus” o “castellarium” dipendente del castello: è un probabile riferimento all’antico castello di Berempadria che sorgeva non lontano e che andò distrutto nel sec. XIV.[97]Menicucci F., Memorie istoriche della Terra di Massaccio, Fermo 1793, p.30. L’attuale via Castellaro “al di qua del Fossato”, tra via Calapina e via Fonteberto, non fa riferimento specifico a questo toponimo pur rimanendo lo stesso significato di dipendente dal castello.
    Lucora o Le Lucora, da “lucus” bosco, nelle immediate vicinanze di contrada Sanguinetti con la quale non di rado si scambiava il nome, si estendeva fin verso la villa Ghislieri; l’area, ridotta quasi esclusivamente a coltivazione agricola, già alla fine del Settecento, nel toponimo rivela l’antica situazione boschiva.    
    Passo di Ceccone o Fossato, indicava l’area limitrofa al punto dove il torrente si poteva superare, nell’odierna via Fossato; dal nome di un lontano proprietario della zona.    
    Pratacci, lungo il torrente Fossato, con zone di vegetazione erbacea poco adatta al pascolo o non idonea al bestiame.
    Ripa Corvara, area in pendio con notevole presenza di corvi; dal latino “ripa” riva, in particolare “pendio ripido” in zona collinare e appenninica; “Corvara” da “corvarius”, “corvus”, corvo.
    Ranco, toponimo rimasto nell’odierna    via   Rango, ai confini   con Cupramontana; da “runcare” dissodare, tagliare, terminologia propria del disboscamento: “ranco”, terreno dissodato, pronto per nuove colture. Lo stesso toponimo per le aree tra Monte Roberto e Massaccio risulta anche nei catasti cuprensi del Cinquecento e del Settecento.[98]Ceccarelli R., op.cit., pp. 194-195.    
    Savino o Rovegliano, la contrada è detta anche Saino, verosimilmente dal nome latino “Sabinus”; analogo toponimo Mollia de Savino, tratto di sponda palustre dell’Esino presso Jesi, viene registrato nel 1029. [99]Pellegrini GB., op.cit., p. 260.
    Sanguinetti, il toponimo già presente nei catasti jesini del sec. XlV [100]Menicucci F., Estratti dei catasti Jesini, c. 84v. rimane nell’attuale via Sanguinetti che indica la zona su ambedue le sponde del Fossato, nel Settecento e nei secoli precedenti si limitava alla sponda destra; deriva dal nome di una pianta   selvatica “sanguinella”   che nella zona   cresceva in abbondanza.
    Selve o Fossato, indicava l’ampia zona boschiva tra le odierne via Fossato e via Torre dove era ubicata la selva della Comunità che ha rappresentato per secoli una notevole risorsa economica per la pubblica amministrazione, si usava anche la dizione contrada del Colle detto la Selva.
    Al di qua del Fossato: tutto il territorio e le contrade tra il Fossato e i confini con Maiolati e Castelbellino, compreso il centro storico.
    Calapina, era ed è un’ampia zona parallela al corso del Fossato, indicata anche oggi dallo stesso nome, via Calapina. Altre indicazioni si aggiungevano per meglio specificare le parti del territorio: Schiena d’Asino o Fossato, Piano di Calapina, Calapina o Pratacci, Valle di Calapina   o contrada Valle ovvero Calapina; si usavano   anche le dizioni    Canapina e Fossato di    Canapina, evidenziando così l’origine del toponimo e cioè dalla coltivazione della canapa praticata nella zona e molto importante nell’economia del medioevo. Già nel Settecento era diffusa l’attuale dizione popolare Calapigna.[101]ASCMR, Consigli (1756-1766), c. 133, 15 giugno 1760.   La   contrada comprendeva   anche l’attuale via della Cupa e via S. Maria, probabilmente così chiamata per una edicola religiosa dedicata alla Madonna.  
    Ciampana, o contrada del Ciampano, dall’omonima fonte, è l’attuale via XXIV maggio; si diceva pure Ciampana   o Borgo per la vicinanza al “borgo” che si snodava lungo l’odierna via Giacomo Leopardi da cui si diramava la breve via del Cipresso, per la presenza appunto di un grande cipresso, presente già in un dipinto del XVII secolo ed abbattuto verso la fine degli anni Sessanta del Novecento.
    Chiesa Nuova, indicava l’area a nord-ovest, immediatamente sotto il castello, tra le attuali via Pace, via Noceto, via Fonte del Crocefisso, viale   Giacomo Matteotti e piazza Serafino Salvati; dalla chiesa di S. Maria del Buon   Gesù terminata nel 1567 e situata tra via Pace e viale Matteotti. Il nome “Chiesa Nuova” era unito di volta in volta ad altro termine di riferimento: Chiesa Nuova o Fonte (si tratta della fonte del Crocefisso, non molto lontana), l’Olivella o Chiesa   Nuova (zona coltivata ad ulivo), Fosso Lungo o Chiesa Nuova, Fosso o Chiesa    Nuova (riferimento al fossato presente un tempo   lungo le   mura castellane).
    Contessa, contrada detta anche La Contessa o   San Silvestro, è la zona dell’attuale via San Silvestro; “contessa” dai   possedimenti in loco di una nobildonna, “San Silvestro”, dalla chiesa di S. Silvestro “de Curtis” che sorgeva nel “fondo di S. Silvestro”, per arrivarvi era necessario passare nella strada in contrada del Luto102ASCMR, Consigli (1735-1755), c. 73v, 14 agosto 1740. o Costa del Luto103ASCMR, Bollettini (1775-1790), c. 69, 5 agosto 1781. o contrada del Loto.104ASCMR, Consigli (1766-1780), c. 158r e c. 160v, 15 maggio 1774.      
    Costa di Luccio, zona   in forte pendio, il nome deriva    probabilmente dall’antroponimo latino Luttius.   
    Fontestate, dall’omonima fonte, è l’odierna via Fontestate; nelle vicinanze era ubicata contrada San Giuseppe, il nome derivava da un’edicola religiosa dedicata al santo che sorgeva, nella seconda metà del Seicento105ASCMR, Consigli (1676-1698), c. 49r, 10 dicembre1679. accanto alla strada. Questa edicola detta “figura” o “figuretta” diede il nome a contrada della Figura e all’attuale via Figura. Fonte di Berto, dall’omonima fonte, è l’odierna via Fonteberto, dal nome del proprietario o di chi sistemò la fontana, Berto o Roberto, nome di origine germanica, si tratta verosimilmente della stessa persona che è all’origine del castello. La contrada si estendeva fin verso Calapina per cui prendeva nome di Calapina o Fonte Berto.
    Forcone, dal latino “furca”, “biforcazione” o gola, zona a valle nei pressi del Fossato di fronte alla contrada Cantalupo, veniva infatti chiamata anche Forcone o Cantalupo, e non lontana dall’omonima contrada cuprense. Curiosa anche la dizione Paglia Nuova o vero Forcone. Questa zona tra Forcone, Valle di Calapina e S. Settimio, era chiamata anche La Valle o sia S. Andrea per la vicinanza all’omonima contrada e chiesa in territorio di Maiolati; c’era altresì una contrada S. Martino, dalla chiesa di S. Martino che sorgeva tra Maiolati e Monte Roberto.
    Le Lenze, ampia zona attorno ai fianchi della collina immediatamente prima del castello, sistemata e coltivata per lo più a superficie orizzontale, quasi a terrazzo; il toponimo veniva usato spesso con altri per meglio specificare le diverse parti del territorio, così. abbiamo: Lenze o via Fossatello o Fossatelli, S.Anna o Lenze (da un’edicola dedicata alla santa), La Figura o Lenze, Fornace o Lenze o solo Le Fornaci, Lenze o il Moro o solo II Moro, Le Lenze o il Colle (appresso il castello sopra la Chiesa Nuova), Le Lenze o il Noceto, Ciampana ovvero Lenze, Le Lenze detto Monterotto, in catasti più antichi, (proprio sotto il castello, confinante con la casa e con l’orto del Pievano). La strada, che l’attraversava, detta delle Lenze, prima di arrivare alla strada della Figura, era “necessaria per andare al molino della Cesola”.106ASCMR, Consigli (1766-1780), c. 118v; 1 maggio 1772.
    Fosso Curto, dal fossato a sud del castello, comprendeva le attuali via Colle, via Ponte (che introduceva al ponte levatoio e all’unica porta per entrare nel castello), parte di via Gaspare Spontini, piazza Roma, via Roma e via Leonardo da Vinci.
    Montali, limitrofa all’omonima contrada in territorio di Castelbellino, la strada che l’attraversava e l’attraversa arriva in via Fontestate.
    Noceto, terreno coltivato a noci, è la zona a nord del castello limitrofa a contrada Fosso Lungo tanto che si poteva chiamare anche Noceto o Fosso Lungo; il toponimo Noceto o Cannetacci rivela la presenza di vegetazione spontanea di canne. La strada via Noceto, ormai ridotta ad un viottolo, univa via S. Marco, che scendeva da Monte Roberto verso Castelbellino, con via Boccolina.
    Poggetto, contrada indicata anche come Le Villate o via Poggietto “con [alla fine del Settecento] tre case per lavoratori, Palazzo e Chiesa”, è la chiesa della Madonna della Neve ricostruita nel 1697 il cui ricordo rimane nell’odierna via Madonna della Neve che da via Roma (strada provinciale dei castelli) si congiunge con via S. Atanasio (altro patrono di Monte Roberto)” e via Villarella.  
    Porcini o S. Settimio, è l’attuale via S. Settimio così chiamata da una proprietà appartenuta al Capitolo della Cattedrale di Jesi dedicata appunto a S. Settimio; Li Porcini o Porcini da un allevamento di maiali che doveva trovarsi verso via Fonteberto e via S. Silvestro se troviamo anche il toponimo San Silvestro o vero Porcini. La presenza di quest’allevamento fu all’origine altresì del toponimo Li Porcini o sia Temperatora, o soltanto La Temperatora o Temperatura.
    S.  Brigida o Sabbioni, il toponimo rimane nell’odierna via Sabbioni.  La contrada era chiamata anche S. Brigida o la Valle per la presenza, poco oltre la metà del Settecento, di una “figuretta di S. Brigida nel terreno di Carlo Mancini” situato presso il confine con Maiolati scendendo un po’ a valle lungo l’attuale via Villarella.107ASCMR, Consigli (1756-1766), c. 334v, 1765. “Contrada S. Brigida [era] nomata i Sabbioni” per la presenza di terreni sabbioso-arenacei da noi chiamati “tufo” o “sabbione”. La strada di S. Brigida, ora appunto via Sabbioni, imboccava la strada della Boccolina che andava al molino della Torre.   
    S. Giorgio, il toponimo rimane nell’odierna via S. Giorgio con la sostanziale ed immutata indicazione della zona nei secoli, deriva infatti dall’omonima chiesa monastica, in territorio di Castelbellino (Borghetto), ricordata per la prima volta nel 1105. Ricostruita poi verso la seconda metà del Settecento un po’ più in alto in contrada Montali, nella zona veniva ugualmente segnalata la “chiesa diruta detta San Giorgio Vecchio”. La zona è limitrofa e parallela al corso del Fossato per cui era chiamata anche Fossato o sia S. Giorgio.  Contrada Tremoni era ubicata nella stessa zona “vicino ai beni di S. Giorgio”. In contrada Tre Noci o sia S. Giorgio, poco sopra il Fossato, aveva una proprietà don Gianfrancesco Lancellotti, storico e letterato di Staffolo (1721-1788). In contrada della Serra o fondo della via della Serrai108Cherubini A., Le antiche pievi della Diocesi di Jesi, Edizioni Studia Picena, Fano 1982, p. 67. la chiesa di S. Giorgio possedeva altri beni. Gambasilla, dal nome   della ripida strada che veniva da Castelbellino, è “sita sotto S. Giorgio [Nuovo] ove l’acqua del Fossato, laterale alla detta strada, fa continuo scavo”.109ASCMR, Consigli (1766-1780), c. 169v, 22 settembre 1774.Da via S. Giorgio si diparte via Quaternara per congiungersi a monte con via Torre, il toponimo è segnalato nei catasti jesini della fine del Duecento   come “fundus Quartanarie”.110Menicucci F., Estratti dai catasti Jesini, c. 84v.
    La Villa, rimane nell’attuale via Villa, ridotta a poco meno di un viottolo di campagna, che partendo da via S.  Marco e attraversando la strada provinciale dei castelli arriva fino a via Figura, che oltre la metà del Settecento era chiamata Strada Lenze o pure Villa. 111ASCMR, Consigli (1780-1793), c. 85v, 26 novembre 1786.

    A – CENTRO STORICO DI MONTE ROBERTO

    Ai toponimi già descritti che riguardano il territorio rurale e le immediate vicinanze del castello di Monte Roberto, dobbiamo aggiungerne pochi altri presenti nell’antico agglomerato urbano.


    All’esterno del castello tra Fosso Curto (via G. Spontini) e Fosso Lungo (viale Matteotti), via Francesco Giuliani, già via Poggetto, ricorda un valoroso garibaldino di Monte Roberto (1846-1931), combattente con Garibaldi nel 1866. 112cfr. Il Giornale d’Italia, 15 agosto 1931, p. 3. Via Giacomo Leopardi, così denominata il 24 aprile 1898, è “il borgo” sviluppatosi nei secco XVII/XVIII con la traversa di via Concordia che sbocca su piazza Roma.

    ad un eroico carabiniere di Monte Roberto (1912-1937) medaglia d’argento morto nella regione di Datj alta (Eritrea) il 21 agosto 1937. Prima si chiamava piazza Castello e prima ancora piazza S. Carlo per la presenza dell’omonima chiesa. L’attuale via Guglielmo Marconi, dal 4 marzo 1939, era via Castello, antecedentemente via S. Carlo, fu chiamata via Roma il 4 agosto 1931. Era stato lo stesso capo del governo, Benito Mussolini, a dispone che con l’inizio dell’anno X dell’Era Fascista (28 ottobre 1931) tutti i centri urbani dovessero avere una via non secondaria con il nome di via Roma. 114ASCMR, Deliberazioni Podestarili (1930-1932), p. 91.La denominazione fu trasferita successivamente ad un tratto della strada provinciale dei castelli, mentre piazza Roma fu così chiamata nel contesto di una revisione generale della toponomastica comunale fatta il 12 settembre 1935115ASCMR, Deliberazioni Podestarili (1935-1936), n. 134 e seguenti. Via Ponte introduce da via Spontini in piazza S. Silvestro.
    L’attuale viale Giacomo Matteotti, già denominato il 25 luglio 1936 viale Arnaldo Mussolini (1885-1931) in onore del fratello dell’allora capo del governo, 116ivi, n. 131. nel primo tratto, tra la strada provinciale e via Pace, già via del Cimitero, fu chiamato via XXVIII Ottobre (anniversario della Marcia su Roma, 28 ottobre 1922). 117Ivi, n. 143.

    B – PIANELLO VALLESINA

    L’antico nome di Pianello era S. Maria del Trivio o S. Maria del Pianello, dall’omonima primitiva chiesa costruita attorno alla metà del Seicento. 118Ceccarelli R., L’antica chiesa della Madonna del Trivio, in Voce della Vallesina, n. 22/23 del 15 giugno 1986. L’aggiunta di Vallesina fu fatta negli anni immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale. 119Negli atti comunali la dizione Pianello Vallesina si trova per la prima volta il 23 maggio 1948, cfr. ASCMR, Deliberazioni Consigliari (1946-1950), n. 61. Le vie più antiche, definite ufficialmente il 12 settembre 1935, sono quelle del primo nucleo abitato: via S. Benedetto, via Esino che con via San Giorgio segna il confine con il Comune di Castelbellino, piazza della Vittoria, in ricordo appunto della vittoria nel primo conflitto mondiale; a questa memoria sono dedicate anche via IV Novembre (già via Tempesta) e via Trento; laterale a via Trento c’era la piazzetta Dante Alighieri dove il 24 maggio 1936 fu innalzata l’antenna della vittoria, 120ASCMR, Deliberazioni Podestarili (1935-1936), n. 44 del 2 maggio 1936. l’odierno monumento ai caduti. L’attuale via XXV Aprile, in onore della Liberazione d’Italia (25 aprile 1945), dal settembre 1935 era chiamata via XXI Aprile, anniversario della fondazione di Roma.
    Sulla sinistra di via San Giorgio è ubicata via del Colle.
    La demolizione (2002) della secolare fornace con la costruzione del primo lotto funzionale del complesso residenziale e commerciale (2005-2009) ha originato piazzale della Fornace e via Giovanni Paolo II (1920-2005), pontefice dal 1978 al 2005.
    Le altre vie seguono lo sviluppo della frazione con intitolazioni a noti personaggi della storia politica e sociale nazionale, ad esponenti della Resistenza o ad altre figure di notevole rilievo.
    Via Bruno Buozzi sindacalista socialista (1881-1944), fu costruita nel 1948 ed intitolata il 7 gennaio 1953; 121121 ASCMR, Deliberazioni di Giunta (1950-1954), pp. 245-246. via Giovanni Amendola, giornalista e uomo politico antifascista (1882-1926); via Alcide De Gasperi, statista italiano (1881 – 1954); via Giacomo Brodolini, uomo politico marchigiano (1920-1969); via Benedetto Croce, filosofo (1866-1952); via Palmiro Togliatti, uomo politico (1893-1964), tra i fondatori nel 1921 del Partito Comunista Italiano; via Antonio Gramsci (1891-1937), uomo politico e studioso anch’esso tra i fondatori del Partito Comunista Italiano; piazza della Repubblica; via Martiri della Resistenza; via don Giovanni Minzoni, vittima della violenza fascista (1885-1923); via Fratelli Cervi; 122122 Erano agricoltori di Campegine (Reggio Emilia). Si trovavano in carcere con il loro padre Alcide incolpati di aver ospitato prigionieri alleati evasi, quando i sette fratelli, Ettore, Ovidio, Agostino, Ferdinando, Aldo, Antenore e Gelindo, furono prelevati e fucilati il 27 dicembre 1943 a Reggio Emilia dai fascisti per rappresaglia all’uccisione di Vincenzo Onfiani segretario del Comune di Bagnolo in Piano. via Francesco Contuzzi, partigiano jesino morto in uno scontro con i tedeschi, a 21 anni, nei pressi di Santa Maria Nuova il 10 giugno 1944. 123123 AA.VV., Dall’antifascismo alla Resistenza. Le origini del P.C.I. a Jesi, Jesi 1984, p. 89. Via Gino Tommasi, comandante partigiano (“Annibale”) della V Divisione Marche (1895-1945); via Amato Vittorio Tiraboschi (1901-1948), vice comandante (“Primo”) delle formazioni clandestine delle Marche; 124124 Giuseppe Luconi, L’anno più lungo. 25 luglio 1943-20 luglio 1944. Jesi 1975, pp. 44,76, 99. Bocca Giorgio, Storia dell’Italia partigiana, Laterza, Bari 1966, p. 209. La Resistenza nell’anconitano, Anpi, Ancona 1963, pp. 303-305. Salvadori Max, La Resistenza nell’Anconitano e nel Piceno, Cassino 1962. Edizione anastatica, Jesi 2005, pp. 189:190. via II Giugno; via Giuseppe Garibaldi che si snoda lungo il Terrone dove si trovano via Camillo Benso Cavour, via Fabio Filzi, martire ed eroe trentino della prima guerra mondiale (1884-1916); via Aldo Moro (1916-1978), statista italiano ucciso dalla Brigate Rosse il 9 maggio 1978; via Sandro Pertini (1896-1990), presidente della Repubblica dal 1978 al 1985; via Guido Rossa (1934-1979), sindacalista ucciso dalle Brigate Rosse il 24 gennaio 1979.
    Nella lottizzazione tra via Esino e villa Salvati le nuove strade sono via Agabito Salvati (1829-1897), sindaco di Monte Roberto dal 1861 al 1897 e combattente nella battaglia di S. Martino il 24 giugno 1859; via Europa e via Papa Giovanni XXIII (1881-1963), pontefice dal 1958 al 1963.
    Nella lottizzazione in zona Terrone sorta tra il Novecento e il Duemila la nuove strade sono via Giovanni Falcone (1939-1992), magistrato ucciso dalla mafia il 23 maggio 1992; via Carlo Alberto Dalla Chiesa (1920-1982), generale dei Carabinieri e prefetto di Palermo ucciso dalla mafia il 3 settembre 1982; via Madre Teresa di Calcutta (1910-1997), missionaria di origine albanese, premio Nobel per la Pace nel 1979, beatificata il 19 ottobre 2003; via Paolo Borsellino (1940-1992), magistrato ucciso dalla mafia il 19 luglio 1992.
    In Località Ponte Pio, che ricorda la costruzione del ponte (1830) dedicato all’allora papa Pio VIII (Francesco Saverio Castiglioni di Cingoli), la strada che attraversa il rione sorto alla fine del Novecento, è via Jesi, quella lungo la provinciale è via Planina.
    Nella zona industriale invece troviamo via del Commercio, via del Lavoro, via dell’Artigianato, via dell’Industria.
    Il parco pubblico nei pressi di Villa Salvati è stato dedicato nel primo centenario dello scoutismo (2007) al fondatore degli scout Robert Baden-Powell (1857-1941).

  • 43 1.8 LA POPOLAZIONE

    43 1.8 LA POPOLAZIONE

    La popolazione del Comune di Monte Roberto al 31 dicembre 1994 ammontava a 2229 unità; aveva superato la soglia delle 2000 nel censimento del 1911 con 2050 abitanti. Le 1000 unità invece erano state superate nella seconda metà del Settecento: nel 1782 si registrano 1042 abitanti.
    Nel 1656 gli abitanti erano 758; Monte Roberto non era più piccolo dei castelli del contado di Jesi, con meno popolazione c’erano solo Scisciano, Poggio Cupro, Castelbellino (403), Rosora (589) e Poggio S. Marcello (653). In poco meno di cinquant’anni la popolazione crebbe di quasi 150 unità, nel 1701 c’erano 901 abitanti.
    La crescita per tutto il secolo XVIII fu lenta ma graduale, arrivando agli inizi dell’Ottocento alle 1242 unità (1802). Nel 1853 si arrivò a 1548 persone presenti nel territorio: l’ultimo ventennio del secolo vide una crescita di 243 unità, passando il numero totale degli abitanti dai 1687 del 1881 ai 1930 del 1901.
    La prima metà del Novecento registrò sempre una popolazione al di sopra delle 2000 unità, con il massimo raggiunto nel 1951 con 2362 abitanti, mentre stabile fu tra il 1921 e il 1936 con 2260 abitanti circa (2287 nel 1921, 2258 nel 1931 e 2284 nel 1936).
    Il fenomeno dell’esodo dalle campagne verificatosi tra il 1950 e il 1970 segnò profondamente l’assetto demografico del comune: tra il 1951 e il 1971 si persero 722 abitanti, dei quali 541 solo tra il 1961 e il 1971, arrivando a 1640, livello pari a quello di cento anni prima (nel 1871 c’erano 1636 abitanti). Da notare che l’incremento demografico che si verificava in quegli anni nella frazione Pianello non compensava il decremento totale del territorio.


    Quello del 1971 fu il minimo storico; 125I dati sulla popolazione dal 1656 al 1971 sono stati desunti da Nelle Marche Centrali, cit., vol. I, pp. 254-255, quelli più recenti dall’Ufficio Anagrafe del Comune ai cui titolari va il grazie più sentito. ben presto l’incremento che si registrava specie a Pianello, esaurita la fuga dai campi, fece aumentare il numero totale degli abitanti: dal 1971 al 1991 la popolazione crebbe di 526 unità passando da 1640 a 2166, dei quali 328 dal 1971 al 1981.
    Osservando l’andamento della popolazione di questo periodo si nota che l’incremento è minore o nullo, o addirittura si può parlare di decremento. Nel 1983 gli abitanti erano 2087, più o meno come nel 1987 (2090) o nel 1989 (2092), addirittura 2057 nel 1986 e nel 1988; la differenza tra nati e morti è a favore di questi ultimi nonostante che la media della popolazione sia giovane e che il tasso delle nascite sia superiore che in altre zone della Vallesina.
    L’incremento si ha dunque solo con l’arrivo di nuovi abitanti e questo si verifica quando ci sono gli strumenti edilizi che permettono nuove costruzioni, ciò si è verificato dal 1989 in poi quando dai 2082 abitanti si è passati ai 2162 del 1990, ai 2166 del 1991 e ai 2186 del 1992, ai 2190 del 1993 e ai 2229 del In dieci anni tra il 1990 e il 2000 si è passati dai 2162 abitanti ai 2394 con un incremento di 232 unità.
    L’incremento maggiore si è avuto in questi ultimi dieci anni, dal 2000 al 2010, quando si è superata la soglia dei 3000 abitanti con un aumento di ben 617 abitanti (3027 al 31 dicembre 2011). (nota aggiunta: nel decennio 2011-20121 la popolazione si è mantenuta stabile, si contano 3052 abitanti all’inizio del 2021). I nuovi arrivi provengono per lo più dalla città, trovando, a Pianello in particolare, nuove abitazioni economicamente più abbordabili ed un ambiente più a dimensione umana. Significativa numericamente la presenza di extracomunitari. Molte vecchie case coloniche sono state restaurate, soprattutto da stranieri affascinati da una campagna incontaminata.

  • 47 2.1 PREISTORIA

    47 2.1 PREISTORIA

    rpNel quale si da conto delle vestigia perse nel tempo, dei reperti ritrovati e di quelli trafugati.

    Il territorio di Monte Roberto già in epoche preistoriche ebbe una frequentazione umana sufficientemente documentabile.
    La zona non è molto lontana dagli insediamenti individuati in grotte nell’area della Gola della Rossa (Serra San Quirico) i cui reperti (strumenti litici: bulini, grattatoi, raschiatoi ecc.) risalgono al Paleolitico Superiore e datati 9.800 a.C. 1A. Broglio e Delia Lollini, I ritrovamenti marchigiani del paleolitico superiore e del mesolitico, in l° Convegni) dei Beni Culturali (Numana 8-10 maggio 1981), Paleani, Roma 1982, pp. 30-60.
    Dello stesso periodo è il giacimento di Fosso Mergaoni, sempre in comune di Serra San Quirico, sulla riva destra del fiume Esino, poco più a valle della Gola della Rossa. 2Mara Silvestrini, Gioia Pignocchi, Giacimenti del paleolitico superiore di Fosso Mergaoni, in Le Marche-Archeologia, Storia, Territorio, Arcevia-Sassoferrato 1987-0, pp. 7-16.
    Reperti della medesima epoca sono anche quelli ritrovati in territorio di Cupramontana, 3Ceccarelli R., Le strade raccontano, cit., fig. 56 e p. 167. non destano così meraviglia gli strumenti litici rinvenuti in contrada S. Apollinare (zona Gagliardini Edilizia, S.E.S. Stampi, Gherardi Aratri Attrezzature Industriali). Si tratta di lame, raschiatoi, bulini, nuclei ecc., non in grande quantità ma sufficienti a farci pensare ad una presenza umana non lontana dalla riva del fiume.

  • 48 2.2 LA NECROPOLI IN CONTRADA NOCETO

    48 2.2 LA NECROPOLI IN CONTRADA NOCETO

    Un insediamento più consistente di epoca più recente, di età certamente pre-romana, ci è testimoniato, sulle pendici della collina tra Castelbellino e Monte Roberto, da una necropoli scoperta più di 130 anni fa. Essa è da attribuirsi ai Piceni diffusi almeno dall’VIII sec. a. C. nella media valle dell’Esino. 4Paci Renzo, Sedimentazioni storiche nel paesaggio agrario, in Nelle marche Centrali, Jesi 1979, vol. I, p. 100.AA.VV., Piccola Guida della Preistoria italiana, Sansoni, Firenze 1965, 2a ed., p. 84. La zona è quella di contrada Noceto, allora indicata con questo toponimo, ora la si può indicare come la parte sinistra dell’inizio di via S. Marco, salendo verso Monte Roberto, alla cui destra incomincia appunto via Noceto (strada non più praticabile) con la relativa contrada.


    La scoperta fu fatta verso la fine del mese di marzo del 1880, mentre si eseguivano lavori di sbancamento per la costruzione dell’attuale strada provinciale dei castelli. Gli scavi continuarono a più riprese fin quasi alla metà di agosto. Il sindaco Agapito Salvati ne diede notizia 24 maggio e il 12 agosto al prefetto di Ancona. A fine mese il Ministero della Pubblica Istruzione incaricò il prof. Alessandro Chiappetti (1842-1900), docente nel Liceo-Ginnasio di Jesi, da fare sul luogo un’attenta ispezione.
    Il Chiappetti dopo aver osservato ed esaminato con cura i luoghi ed i reperti ne stese una dettagliata relazione, essenziale per conoscere l’esatta consistenza dei ritrovamenti. 5Chiappetti Alessandro, Monte Roberto – Necropoli Picena in contrada Noceto, in Notizie degli Scavi, 1880, pp. 343-349 e in estratto. La Necropoli di Monteroberto, coi tipi del Salviucci, Roma 1881. Oltre allo scavo eseguito per i lavori stradali, si esplorò una superficie di circa 400 mq. Furono trovati circa settanta scheletri con il capo rivolto verso levante infossati nella terra senza lastre o tegole di copertura.
    Nelle tombe si rinvennero ornamenti d’ambra, di bronzo, anellini, fibule, lamine, elementi, di collana in vetro, punte di lancia, frammenti ceramici ecc. Gran parte di questi reperti è ora conservato presso il Museo Archeologico Nazionale deli Marche di Ancona.
    A conclusione della sua relazione il Chiappetti osservò che “in questi scavi, tanto alle figuline quanto scheletri si pose poca attenzione, e poco ancora si badò, se vi fossero ornamenti d’osso e istrumenti di pietra, per metterli in serbo e farne oggetto di studio. Questo avvenne, perché sul principio si mise mano all’opera con l’idea di trovare cose di gran valore, tanto per la materia quanto per l’arte, né si pensava al vantaggio, che dalle scoperte sarebbe venuto alla scienza e alla storia delle genti primitive, che popolarono questa contrada”. 6Ivi, (ed. Salviucci), p. 8. “Sempre a Monte Roberto si sono scoperti anche fondi di capanne risalenti all’età del ferro e simili a quelle degli antenati eneolitici”, così scrive Costantino Urieli in Jesi e il suo Contado, vol. I, tomo I, Jesi 1988, p. 40 citando W. Dimitrescu L’età del ferro nel Piceno, Bucarest1929, p. 178. L’osservazione è valida ancor oggi, quando non di rado si ritrovano reperti archeologici, certamente di non grande entità ma senza dubbio significativi, che vengono tenuti nascosti in casa o si immettono nel mercato clandestino, privando così gli studiosi di elementi conoscitivi essenziali per una più esauriente comprensione storica del territorio o per una convalida di ipotesi, destinate, in assenza di questi dati fondamentali a rimanere tali.

  • 49 2.3 LA NECROPOLI IN CONTRADA S. ANTONIO

    49 2.3 LA NECROPOLI IN CONTRADA S. ANTONIO

    A poco più di un secolo dalla scoperta della necropoli in contrada Noceto, un’altra necropoli, questa volta a valle, nell’ottobre 1982 fu portata alla luce.
    La scoperta di numerose ossa umane fu fatta durante i lavori di sbancamento per l’apertura di una cava di ghiaia in contrada S. Antonio, non lontano dalla strada provinciale n. 9 Castelferretti-Montecarotto, la cosiddetta “Planina”.
    I saggi di scavo, mettendo in luce una ventina di tombe, hanno accertato l’esistenza di una necropoli sufficientemente ampia che si estendeva su un’area di circa 3.500 mq., per complessivamente un centinaio di tombe. Un fossato curvilineo delimitava verso nord-ovest la necropoli: probabilmente in esso c’erano cespugli, alberi ornamentali o qualche altro segno che indicasse il sepolcreto. Le tombe del tipo a fossa, originariamente avevano la copertura a tegola andata però quasi completamente rovinata ad opera delle arature fatte sul terreno.
    Gli scheletri avevano il cranio in direzione nord-ovest. Non è stato rinvenuto alcun oggetto di corredo. Una tomba, sotto il piano di deposizione, aveva un piccolo vano che doveva servire con tutta probabilità come camera d’aria, per isolare il corpo dall’umidità e da infiltrazioni d’acqua. Altre avevano le pareti fatte di frammenti di tegole e mattoni.
    Tra la terra ghiaia di riempimento e tra i frammenti di copertura sono stati trovati alcuni frammenti di intonaco dipinto che certamente appartengono a costruzioni più antiche. Il sovrapporsi caotico di non poche tombe rivela come la necropoli continuasse ad essere in uso per lungo tempo. Risulta difficile una loro datazione per la mancanza totale di oggetti di corredo, genericamente però si possono attribuire ad età romana.
    La consistenza della necropoli, non lontana dall’Abbazia di S. Apollinare, rivela la vicinanza di un grosso centro abitato probabilmente proprio Planina ubicata nell’area della stessa abbazia. { tooltip}7{end-texte}Rita Virzi Hdgglund, Una necropoli romana a Pianello Vallesina (Monte Roberto), in Picus- Studi e ricerche sulle Marche nell’antichità, II, 1982, P. 177-182, da cui è stato tratto ampiamente il testo.{end-tooltip}

  • 50 2.4. PLANINA

    50 2.4. PLANINA

    Plinio il vecchio – Naturalis Historiae – Libro terzo

    La consistenza della necropoli, non lontana dall’Abbazia di S. Apollinare, rivela la vicinanza di un grosso centro abitato probabilmente proprio Planina ubicata nell’area della stessa abbazia.[7]Rita Virzì Hàgglund, Una necropoli romana a Pianello Vallesina (Monte Roberto), in Picus- Studi e ricerche sulle Marche nell’antichità, II, 1982, p. 177-182, da cui è stato tratto ampiamente il testo.

    4. PLANINA

    Di questa città unico a parlarne è Plinio il Vecchio (23-24 d.C. -79 d.C.)[8]Naturalis Historia, lib. IlI, cap. XIII. nel contesto di altri abitanti di relative città poste all’interno del Piceno, la Regione V Augustea. La tradizionale ubicazione viene indicata nei pressi dell’Abbazia di S. Apollinare [9]Annibaldi G. alla voce Planina in Enciclopedia Arte Antica, IV, Treccani, Roma 1965, p. 223 con bibliografia.anche se ormai da diversi anni alcuni studiosi ed archeologi la mettono in dubbio a favore del municipio romano di S. Vittore di Cingoli.[10]Nereo Alfieri, Lidio Gasperini, Gianfranco Paci, M. Octavii Lapis Aesinensis, in Picus, N, 1985, p. 31 Gianfranco Paci, Un municipio romano a S. Vittore di Cingoli, in Picus, VIII, 1988, p. 67. Mario Luni, Archeologia nelle Marche, Banca delle Marche-Nardini Editore, Firenze 2003, pp. 104, 137, 169, 232, 241. A supporto di quest’ultima ipotesi c’è una maggiore abbondanza di materiale archeologico ritrovato a S. Vittore e conservato sia in loco che a Cingoli, nessuna epigrafe finora conosciuta conferma comunque Planina a S. Vittore escludendo S. Apollinare di Monte Roberto. È da precisare tuttavia che neanche in questa località sono state rinvenute epigrafi o prove decisive; a favore di questa locazione c’è la tradizione secolare motivata da ritrovamenti fatti anche in tempi recenti; altra prova potrebbe essere la presenza di necropoli nelle vicinanze (contrada S. Antonio in territorio di Monte Roberto e contrada Molino in territorio a Castelbellino); non sono poi da trascurare altri siti archeologici in contrade limitrofe (contrada S. Pietro).

    È il Colucci che ci descrive, verso la fine del Settecento, quanto rimaneva dell’antica Planina. La sua descrizione si fondava su quanto gli aveva scritto don Sebastiano Marini di Castelplanio, ma soprattutto su alcuni appunti di don Gianfrancesco Lancellotti (1721-1788) di Staffolo che gli aveva fatto avere don Francesco Menicucci di Massaccio (Cupramontana).“Nel territorio del castello detto di Monte Roberto in vicinanza dell’antica Badia di S. Apollinare esiste un presidio dei signori Marchesi Silvestri Bovio, ed ivi si osservano grandi costruzioni di antiche, e grosse muraglie rese già più informi dal tempo […]. Ivi si veggono avanzi di aquidotti, e di fogne fatte con duro sasso, pavimenti a mosaico, quantunque di niuna squisitezza; ivi si scavano molte lastre di marmo. medaglie d’ogni grandezza, idoletti, canali di piombo, ed altre anticaglie, delle quali se n’è fatta qualche raccolta dal sig. d. Giammaria Chiatti”.[11]Chiocci Giuseppe, Antichità Picene, voi. IV, Fermo 1789, pp. 117-120.

    Don Ottavio Turchi (1694-1769), storico nativo di Apiro, potè vedere direttamente gran parte delle cose descritte ed aggiunge che nel sito “sono state raccolte molte monete antiche”, “si raccolgono ancora frammenti, anche di bronzo, antiche iscrizioni e, secondo la testimonianza degna di fede di alcuni, sono stati trovati idoletti ugualmente in bronzo” ed osserva che se “quel luogo per diversi secoli non fosse stato soggetto a continui lavori altri reperti certamente più interessanti si sarebbero potuti ammirare” (nisi locus ille per plura saecula fùisset dissipatus, alia sane nobiliora apparerent vestigia admiratione dignissima).[12]ivi, pp.. 120-121.13 ivi, p. 124.Poco più oltre il Colucci – sulla traccia dei suoi informatori – cerca di spiegare meglio la mancanza di abbondanti reperti dell’antica Planina. “La bella positura del suo territorio, la facilità di coltivarlo, e la feracità del medesimo sono stati tanti motivi per i quali […] tutto si è abbattuto […] e non si perdonò né a lapidi, né ad altra qualunque cosa degna di essere conservata a perpetua memoria della defunta colonia. Nondimeno di tempo in tempo si van discuoprendo delle anticaglie, le quali son degne di far ornamento a qualunque museo”.[13]ivi, p. 124.

    Ricorda poi tra i ritrovamenti “un bel gruppo di statuine di bronzo rappresentanti un sacrificio d’Iside” che fu dato a Bertrand Chaupy di Tolosa venuto ad osservare i resti di Planina, testimone di questo dono fu il Lancellotti che spesso veniva a Castelbellino e a Monte Roberto sia a far visita ai propri parenti sia per vigilare sulle sue proprietà.Un analogo gruppo di statuine, riferisce sempre il Colucci, fu trovato nel 1775 tra le medesime rovine ed acquistato dal conte Niccolò Mosconi di Jesi. Si fa cenno inoltre di un’altra “statuetta ignuda d’informe manifattura, e a quel che apparisce sembra possa esser d’un satiro. Stà seduta, ed ha la testa in forma di bestia”.[14]IbidenDopo oltre un secolo dalla testimonianza del Colucci e dei suoi corrispondenti, Giovanni Annibaldi sen., scriveva nel 1880: “Benché al presente nulla appaia della distrutta città, nondimeno i coloni di quelle contrade trovano sotto il suolo lunghi ordini di mura, pavimenti, monete romane e simiglianti. Inoltre hanno scoperto una lunga traccia di strada antica or coperta dal suolo coltivabile, volgente da Planino, a scirocco”.[15]Annibaldi Giovanni, San Benedetto e l’Esio, Tip. Ruzzini, Jesi 1880, p. 3.

    Monete romane da S. Apollinare

    Molte cose, di piccola fattura, sono venute alla luce agli inizi degli anni Novanta, come monete romane frammenti ceramici o di statue in bronzo ecc. Chi li ha ritornati o li ritrova ancora si premura di immetterli nel mercato più o meno ufficiale conservarli in casa per l’esclusiva gioia sua o la meraviglia di qualche amico, distogliendo gli addetti ai lavori da studi ed approfondimenti che potrebbero far maturare altre certezze. É il caso di alcune monete (periodo repubblicano – asse e sestante – e periodo imperiale, Nerone, Commodo, Gordiano Pio ecc.) e di un piccolo piede e di un braccio in bronzo che abbiamo potuto vedere di persona. Poche invece le iscrizioni di cui si hanno notizia e che con certezza o con forte probabilità provengono da Planina. Innanzitutto un’iscrizione mutila su un frammento di lastra in bronzo posseduta, alla fine del Settecento, da don Giovanni Maria Chiatti che abitava nei pressi dell’abbazia di S. Apollinare e che il Lancellotti potè vedere e descrivere:

    III
    AVRELI
    ANS

    pochissime espressioni per tentare una lettura completa.[16]Lancellotti Gianfrancesco, Manoscritti, alla voce Planium, cc. 305-308, Biblioteca Comunale Planettiana. Jesi.

    Attualmente nella sacrestia della chiesa parrocchiale di S. Silvestro a Monte Roberto un’iscrizione conferma l’appartenenza della popolazione a destra dell’Esino alla tribù Velina istituita nel 241 a.C.:

    L. PLOTIVS L. E.
    VEL.
    CRVSTA


    L’iscrizione su blocco di calcare (cm 31 x 53) proviene quasi certamente dall’area di Planina: a metà Settecento era su una parete della vecchia chiesa di S. Silvestro, finì sulla facciata della nuova chiesa quand’essa fu ricostruita alla fine del secolo, coperta dall’intonaco fu riportata alla luce nel 1953 per essere posta nel sito attuale.[17]Ivi, p. 125.Sarti Mauro, De antiqua Picentum Civitate Cupra Montana, Tip. Gavelli, Pesaro 1748, p. 70. Mommsen T., Corpus Inscriptionum Latinorum, voi. IX, Berlino 1883, n. 5714, p. 546.Grazzi Luigi Ag., Di alcune antichità di Jesi e della sua valle con discussione sui primi vescovi di Jesi, Italstampa, Roma 1955, p. VII. Il Grazzi scrive che “dallo stile può giudicarsi del sec. II-III d.C.”. [18]Grazzi Luigi Ag., Ibidem.Di probabile provenienza da Planina è anche un’altra iscrizione, oggi collocata nell’aula consigliare del comune di Castelplanio.

    Si trovava nella “sala della residenza priorale” (diversa dalla sede attuale) già nel quarto decennio del Settecento, “avendo servito prima di coperchio ad una sepoltura in una chiesa di detto luogo”.[19]Colucci G., op. cit., p. 126.

    La fanno risalire, stando ai caratteri incisi, al periodo dell’alto impero, da Domiziano (81-96) o, meglio ancora, ai primi anni dell’impero di Traiano (98- 117) ed è dedicata a Grecinia Petina che il Grazzi ascrive alla famiglia dei Pomponii Grecinii di Gubbio, una delle famiglie dei fedeli cristiani attorno agli apostoli Pietro e Paolo ai primordi della predicazione della fede in Roma.Suggestiva (o forse azzardata?) è l’ipotesi del Grazzi sull’introduzione del cristianesimo nel nostro territorio attraverso questa “nobildonna cristiana venuta a morte in quella prima decade del II secolo”, sposa di Quinto Precio Proculo, presente in zona al servizio dello stato o dell’esercito dell’imperatore Traiano, impegnato in quegli anni a trasbordare le truppe da Ancona in Dalmazia per le sue campagne di guerra contro i Daci.[20]Grazzi Luigi, Storia di Poggio San Marcello, Gesp, Città di Castello 1987, pp. 106-110. Grazzi Luigi, Ricerche sui “fideles” e i primi cristiani in Roma (41-155), Roma 1981, pp. 54-67. A Quinto Precio Proculo era stata dedicata una lapide, conservata a Ostra, andata però perduta dopo il secondo conflitto mondiale: Bozzi Marino, Ostra – Iscrizioni e memorie, Ostra Vetere 1985. pp. 117-118.

    Altre lapidi d’epoca romana ricordano Planina e i suoi abitanti, Planinenses. Le registrava, nel secolo scorso, nel suo “Corpus Inscriptionum Latinarum”, il Mommsen: in una, si nomina la tribù Velina (III, 6202), in un’altra, vista dallo studioso tedesco a Londra e finita poi nei pressi di Liverpool, si riporta un elenco di soldati, tra costoro uno era nato a Planina (VI, 2375 I, 7); una terza lapideTextus:
    [- – – La]ur(enti) Lavin(ati),
    [sacerdot]i urbis Romae
    [aet]ernae, Ticini,
    5 [item p]atrono reì publ(icae)
    [Urbi] Salvensium,
    [rei p]ubl(icae) Numanatiûm,
    [rei] p(ublicae) Tollentinatium,
    [rei] p(ublicae) Planinensium,
    10 [actori] causar(um) fideliss(imo),
    [pat]ron(o) reì p(ublicae) Aug(ustae) Ṭ[aur(inorum)]
    [ob] eius erga r[em p(ublicam)]
    [fidem at]que ac[- – -]
    [clemen]tiam (?), caritat(atem)
    15 [ordo splen]didiss(imus) ob merit(a)
    [pop]ulo postulante
    d(ecreto) d(ecurionum).
    presente in un museo di TorinoUrbs nostrae aetatis: Torino Locus inventionis: Torino, reimpiegata nelle mura
    Locus adservationis: Torino, Museo di Antichità, inv. nr. 331
    , riferisce di un “patronus [rei] p.[ublicae] planinensium” (V, 6991).

    Dolio romano ritrovato nel 1972.

    Nel luglio del 1972 a poche centinaia di metri dall’Abbazia di S. Apollinare, mentre si stava facendo lo sterro per le fondamenta del capannone industriale dell’attuale S.E.S venne tranciato a metà un “dolio” sepolto a pochi decimetri sotto il livello del terreno. Era il classico contenitore a forma oblunga con una apertura rotonda che presso i Romani si utilizzava per il vino, l’olio, il grano o la farina. Il dolio aveva “un diametro nel punto centrale di maggiore ampiezza di oltre un metro, l’altezza invece doveva avvicinarsi un metro e mezzo”. Alcuni frammenti furono portati a cura di soci dell’Archeoclub nel Palazzo della Signoria di Jesi, presso l’allora sede del Museo archeologico: ne ha reso testimonianza il parroco di S. Apollinare di quel tempo, don Vittorio Magnanelli, che si trovava sul luogo.

    Gli allora responsabili della Soprintendenza non ritennero però opportuno recuperarlo nella sua interezza, così il manufatto rimase di nuovo sepolto nonostante che si fosse auspicato di ricostruirlo nella sua integrità costituendo un segno ed una struttura di deposito alimentare che non poteva certamente essere isolata in aperta campagna.[21]Riaffiorano ancora i segni dell’antica Planina, in Voce della Vallesina, n. 30 del 30 luglio 1972, pp. 3 e 6.

    Ora di questo reperto non ci rimane che una fotografia scattata da un appassionato di archeologia. Si parla anche di anfore intere rinvenute sempre nella stessa zona; mentre si ha la certezza, da documenti fotografici, di balsamari tubolari in vetro, di coperchi di vetro, di frammenti di fondo e di parte laterale di coppa o di contenitore di vetro rinvenuti circa il 1980 nei pressi del bivio dalla strada provinciale per Staffalo verso l’abbazia di S. Apollinare, o di frammenti di ceramica e frustoli di piombo trovati negli stessi anni nella zona dell’ex scuola elementare (attualmente “Schola” Gagliardini). Altri oggetti testimoniano una sicura attività artigianale e commerciale: sono un peso in piombo da telaio ed un peso da bilancia.

    Pesi in piombo da telaio e da bilancia, da S. Apollinare

    Di alcune monete ritrovate già si è accennato, di altre si è scritto da parte di esperti nel contesto di rinvenimenti monetali nella valle del fiume Esino.“Per Planina resta solo una documentazione fotografica di 12 esemplari ormai dispersi, che però sono estremamente importanti per due motivi. Uno è dato dalla presenza di due frazioni di bronzo provenienti rispettivamente da Siracusa e da Taranto della metà del III sec. a. C., che sebbene siano da considerarsi una presenza episodica di moneta greca, attestano una frequentazione del luogo nel tempo; i pezzi infatti abbracciano un arco cronologico che va dal III secolo a. C. alla fine del IV d. C.Il secondo motivo per cui questi pezzi inediti sono importanti, è dato dal fatto che di recente alcuni studiosi ed archeologi, hanno messo in dubbio la tradizionale ubicazione dell’antica Planina nel territorio del comune di Monte Roberto a favore del municipio romano situato nell’alta valle del Musone, di S. Vittore di Cingoli, per una maggiore abbondanza di materiale archeologico, ma queste monete dimostrano l’esistenza di un insediamento di qualche rilievo, che seppure non dovesse trattarsi dell’antica Planino, inducono ad una ‘revisione’ delle potenzialità archeologiche del sito”.[22]Sgreccia Eleonora, I rinvenimenti monetali nella valle del fiume Esino, in “Cronaca Numismatica”, n. 125-Dicembre 2000, pp. 78-81.Di questi reperti abbiamo notizia certa e testimonianza diretta; di molti altri abbiamo raccolto la voce della gente: oggetti conservati in casa o comunque avuti tra le mani (ceramiche e piccoli manufatti metallici specie in bronzo) ritrovati a S. Apollinare o a Pianello durante lavori in campagna, in particolare durante scavi per fondamenta di abitazioni; l’attendibilità di queste notizie non l’abbiamo potuta verificare, ma dal momento che se ne parla con una certa precisione identificando luoghi e persone, si può ben ritenere che non si tratti di semplici fantasie.Come non è fantasia il sito archeologico di via San Pietro, dove affiorano nei pressi di una casa colonica, mattoncini di pavimento, frammenti ceramici di vasellame, di anfore, di grosse tegole, mentre non sono mancati ritrovamenti di tubi in piombo, di monete, di elementi decorativi in terracotta (antefisse ecc.) o con figurazioni in rilievo (cavallo con cavaliere) o ritrovamenti più consistenti come moduli di colonne ecc.

    L’ipotesi di un luogo di culto a poche centinaia di metri da Planino nel folto di un bosco potrebbe rivelarsi non del tutto peregrina: la zona è proprio quella del bosco di farnie (contrada Schiete) con una strada di collegamento di cui parla l’Annibaldi con la città vicina. Preziosa per questi ritrovamenti e per quanto nasconde ancora il terreno è la testimonianza diretta di coloro che periodicamente arano il terreno ed hanno modo così di individuare sul terreno questi manufatti. A quanto sopra riportato e concernente ritrovamenti fortuiti e del tutto occasionali si deve aggiungere il ritrovamento di una necropoli picena, sempre in via San Pietro, nel dicembre 2001, nel corso dei lavori di scavo per l’edificazione di un capannone della ditta O.M.R. di Ricci & C., quando vennero intercettate undici tombe, dieci delle quali, una volta scavate, risultavano di età picena (IV sec. a. C.), mentre l’undicesima di tarda età romana. Solo la tomba tardo romana non conteneva corredo, le altre invece avevano un ricco corredo ceramico (ciotole, olle, piattelli, Oinochoe, Kilix, Pocula., Skyphos, ecc.), quelle femminili fuseruole, anelli, rocchetti, bracciale in bronzo; quelle maschili spada a scimitarra, arco in ferro, punta di giavellotto. [23]Pangea Soc. Coop. Falconara, Documentazione fotografica di una necropoli picena (Necropoli Ricci, via San Pietro, Monte Roberto), Gennaio 2002, Archivio Soprintendenza per i Beni Archeologici delle Marche, Ancona.

    5. NUOVE ACQUISIZIONI                                                                                               

    Già si è accennato alla necropoli di via S. Antonio scoperta nel 1982; in anni più recenti altre acquisizioni si sono aggiunte alle non poche e significative Testimonianze dell’intera zona che va appunto da via S. Antonio a S. Apollinare.A breve distanza da via S. Antonio nei pressi della chiesetta sconsacrata di S. Settimio nel 1990 a seguito dell’ampliamento della cava di ghiaia, saggi di scavo hanno messo in luce strutture di età romana con resti evidenti di concotto, non bene identificabili, ma forse riconducibili ad attività artigianali.
    Nella stessa area nel 1999 vennero in luce in due tornate successive, prima una struttura muraria quadrangolare di m 3,40 di lato, parzialmente conservata oltre i resti di una cisterna riutilizzata come scarico di materiale fittile difettato • scarti di fornace) e quindi i resti di un forno per manufatti ceramici e un’area di fuoco caratterizzata da una vasta area di concotto.

    Tra il 1999 e il 2003 sono stati messi in luce altri tre siti (due vicinissimi all area dell’abbazia di S. Apollinare e uno un po’più a NE di essa, nelle vicinanze della SS 76) identificati come forni per materiali ceramici.

    I materiali ceramici rinvenuti, per lo più frammentati (anche frammenti di ceramica africana e un esemplare di imitazione di lucerna africana), si riferiscono a produzione locale e a vasellame di importazione. La datazione va dal I al V- VI secolo d. C.

    La decorazione di tutti i frammenti di S. Apollinare è caratterizzata da una vernice bruno rossastra, piuttosto fluida, stesa a pennellate irregolari con motivi vagamente geometrici e con sgocciolature lasciate scivolare lungo il corpo del vaso.Tutto il materiale rinvenuto è attualmente (2011) depositato presso la Soprintendenza per i Beni Archeologici di Ancona e presso la sede del Comune di Monte Roberto, solo in piccola parte è stato schedato. Tutta l’area comunque risulta interessata da insediamenti, che nel corso dell’età imperale hanno avuto funzioni diversificate e che ulteriori studi potrebbero meglio precisare.

    Scheletro rinvenuto nel 2007 a Pianello Vallesina

    L’attività di una o più fornaci potrebbe inoltre essere giustificata dal facile approvvigionamento di acqua, per la presenza in zona di torrenti e piccoli fossi afferenti all’Esino, e di argilla, presente nella naturale costituzione geologica del terreno.[24]Milena Mancini – Gaia Pignocchi, Nuove acquisizioni su alcuni insediamenti rurali tardo antichi nella vallate dell’Esino e del Musone (Osimo, Santa Maria Nuova, Monte Roberto), in “Studi Maceratesi”, n. 40, 2006, pp. 244-249, il testo è stato sunteggiato e ripreso in gran parte integralmente. Nel mese di aprile 2007, nell’area immediatamente vicina a quella dove è stata realizzata la nuova Scuola dell’infanzia (2008-2011), è venuta alla luce una tomba d’epoca romana (larga 90 cm e lunga 200) alla “cappuccina”, con base le classiche tegole romane (affiancate e rovesciate) e le pareti in pietra arenaria e frammenti di tegola legate con malta: è stata data del I-II secolo d. C. All’interno è stato trovato un tubo in piombo del diametro esterno di 6 centimetri adagiato sullo scheletro. Un’estremità del tubo poggiava sulla bocca del defunto, altra sporgeva dal tettino della tomba, in questa i parenti introducevano alimenti e bevande utili, si credeva, al defunto nel suo viaggio verso gli dèi. Una rarità, come hanno detto gli esperti: nelle Marche solo altre due tombe sono state rinvenute con queste caratteristiche. Nei pressi della tomba è stato individuato un manufatto d’epoca picena risalente con tutta probabilità al V secolo a. C. Il tutto deve essere ancora schedato e studiato, non sono da escludersi sorprese per una lettura più completa ed esauriente di tutto territorio di 2000-2500 anni fa.

  • 61 2.5 NUOVE ACQUISIZIONI

    61 2.5 NUOVE ACQUISIZIONI

    Già si è accennato alla necropoli di via S. Antonio scoperta nel 1982; in tempi più recenti altre acquisizioni si sono aggiunte alle non poche e significative testimonianze dell’intera zona che va appunto da via S. Antonio a S. Apollinare.
    A breve distanza da via S. Antonio nei pressi della chiesetta sconsacrata di S. Settimio nel 1990 a seguito dell’ampliamento della cava di ghiaia, saggi di scavo hanno messo in luce strutture di età romana con resti evidenti di concotto, non bene identificabili, ma forse riconducibili ad attività artigianali.
    Nella stessa area nel 1999 vennero in luce in due tornate successive, prima una struttura muraria quadrangolare di m 3,40 dilato, parzialmente conservata oltre i resti di una cisterna riutilizzata come scarico di materiale fittile difettato (scarti di fornace) e quindi i resti di un forno per manufatti ceramici e un’area di fuoco caratterizzata da una vasta area di concotto.
    Tra il 1999 e il 2003 sono stati messi in luce altri tre siti (due vicinissimi all’area dell’abbazia di S. Apollinare e uno un po’ più a NE di essa, nelle vicinanze della SS 76) identificati come forni per materiali ceramici.
    I materiali ceramici rinvenuti, per lo più frammentati ,(anche frammenti di ceramica africana e un esemplare di imitazione di lucerna africana), si riferiscono a produzione locale e a vasellame di importazione. La datazione va dal I al V-VI secolo d. C.
    La decorazione di tutti i frammenti di S. Apollinare è caratterizzata da una vernice bruno rossastra, piuttosto fluida, stesa a pennellate irregolari con motivi vagamente geometrici e con sgocciolature lasciate scivolare lungo il corpo del vaso.
    Tutto il materiale rinvenuto è attualmente (2011) depositato presso la Soprintendenza per i Beni Archeologici di Ancona e presso la sede del Comune di Monte Roberto, solo in piccola parte è stato schedato. Tutta l’area comunque risulta interessata da insediamenti, che nel corso dell’età imperale hanno avuto funzioni diversificate e che ulteriori studi potrebbero meglio precisare.
    L’attività di una o più fornaci potrebbe inoltre essere giustificata dal facile approvvigionamento di acqua, per la presenza in zona di torrenti e piccoli fossi afferenti all’Esino, e di argilla, presente nella naturale costituzione geologica del terreno. 24Milena Mancini — Gaia Pignocchi, Nuove acquisizioni su alcuni insediamenti rurali tardo antichi nella vallate dell’Esino e del Musone (Osimo, Santa Maria Nuova, Monte Roberto), in “Studi Maceratesi”, n. 40, 2006, pp. 244-249, il testo è stato sunteggiato e ripreso in gran parte integralmente.
    Nel mese di aprile 2007, nell’area immediatamente vicina a quella dove è stata realizzata la nuova Scuola dell’Infanzia (2008-2011), è venuta alla luce una tomba d’epoca romana (larga 90 cm e lunga 200) alla “cappuccina”, con base le classiche tegole romane (affiancate e rovesciate) e le pareti in pietra arenaria e frammenti di tegola legate con malta: è stata data del I-II secolo d. C.
    All’interno è stato trovato un tubo in piombo del diametro esterno di 6 centimetri adagiato sullo scheletro. Un’estremità del tubo poggiava sulla bocca del defunto, altra sporgeva dal tettino della tomba, in questa i parenti introducevano alimenti e bevande utili, si credeva, al defunto nel suo viaggio verso gli dèi. Una rarità, come hanno detto gli esperti: nelle Marche solo altre due tombe sono state rinvenute con queste caratteristiche. Nei pressi della tomba è stato individuato un manufatto d’epoca picena risalente con tutta probabilità al V secolo a. C. Il tutto deve essere ancora schedato e studiato, non sono da escludersi sorprese per una lettura più completa ed esauriente di tutto territorio di 2000-2500 anni fa.

  • 62 2.6 LA NECROPOLI DI CONTRADA MOLINO

    62 2.6 LA NECROPOLI DI CONTRADA MOLINO

    In territorio di Castelbellino, a Pianello, in contrada Molino, a poco più di un Km a nord-ovest di Planina, non lontano dalla sponda destra del fiume Esino, nei primi decenni di questa secolo, è stata scoperta una necropoli picena.
    Inizialmente i rinvenimenti furono fortuiti con la conseguente dispersione dei materiali, poi in campagne di scavi del 1912, 1913 e 1918-1919 furono scoperte numerose tombe databili tra il 700 e il 500 a.C. ed i reperti attentamente studiati.

    “Tra i materiali recuperati, accanto a quelli di produzione locale, si distinguono numerosi e pregevoli oggetti esotici provenienti da paesi del Mediterraneo orientale, dalla Grecia e dall’Etruria”. 25AA.VV., La ceramica attica figurata nelle Marche, Ancona 1991, p. 110. In particolare ci sono avori “di stile spesso ancora orientalizzante, tutti o quasi di importazione”, probabilmente dalI’Etruria, “d’ispirazione fenicia e nordsiriana, sia essa o no mediata dalle botteghe degli incisori etruschi”. 26Bisi Anna Maria, Componenti siro-fenicie negli avori piceni, in La Civiltà Picena – Studi in onore di Giovanni Annibaldi, Maroni, Ripatransone (AP) 1992, pp. 128-139. “La continuità e la varietà di tali importazioni attestano l’importanza della via di penetrazione offerta dalla valle del fiume Esino”.
    Alcune tombe di fine VI sec. e del V sec. a.C. hanno restituito “numerosi esemplari in ceramica attica figurata e bronzi di produzione etrusca, greca e/o megalogreca. Dopo Numana, Pianello di Castelbellino è l’unico centro piceno che ha restituito il maggior numero di vasi attici a figure rosse, alcuni dei quali di grandi dimensioni […]. Da Pianello proviene inoltre un cratere a figure nere […]. che deve essere considerato come una delle più antiche importazioni attiche nel Piceno”. 27AA.VV., La ceramica attica… , cit., pp. 20-25 e 110-115. La Civiltà Picena… , cit., p. 288.
    Questi rinvenimenti nella valle dell’Esino, compresi quelli avvenuti a S. Maria di Monsano, a Moscano, a Attiggio di Fabriano e a Matelica, insieme a quelli analoghi fatti nelle altre vallate appenniniche delle Marche (Chienti, Potenza, Musone, Misa, Cesano, Metauro, Foglia, Conca), testimoniano una fiorente penetrazione commerciale che, risalendo le stesse vallate e superando i passi appenninici, arrivava alle valli degli affluenti del Tevere.
    Tra l’Etruria e la costa adriatica vie naturali di questo commercio erano costituite dall’Esino e dal Sentino, mentre Numana e Ancona sostenevano “non solo il ruolo di centro mercantile aperto verso le aree periferiche del territorio piceno, ma anche di “terminale di usate vie di comunicazione con il versante tirrenico” e quindi di base dei traffici tra Greci ed Etruschi”. 28Luni Mario, Ceramica attica nelle Marche settentrionali e direttrici commerciali, in La Civiltà Picena…, cit., pp.331-363. Edvige Percossi Serenelli, Le vie di penetrazione commerciale nel Piceno in età proto-storica. Nota Preliminare, in Picus, I, 1981, pp. 135-144.
    Giovanna Maria Fabrini, La ceramica attica figurata nelle Marche. Annotazioni in margine alla mostra anconetana, in Picus, II, 1982, pp.103-117.

    Tutti i reperti rinvenuti in questa contrada, o per lo meno quelli rimasti dopo i danneggiamenti subiti durante il secondo conflitto mondiale, sono conservati nel Museo Archeologico Nazionale di Ancona.
    Un luogo di forte interesse archeologico, poco più in alto della necropoli di contrada Molino, è individuabile in via Mattonato, l’attuale scorciatoia per Castelbellino, un tempo l’unica strada per raggiungere il paese. Anche se in tempi recenti sono venuti alla luce frammenti ceramici di decorazioni in rilievo o frammenti notevoli di pavimenti in mosaico, ben più consistenti sono stati i ritrovamenti nella seconda metà del Settecento.
    Testimoni ed artefici di alcuni scavi furono sia il Menicucci che il Lancellotti che sul terreno di proprietà della famiglia Berarducci, zii materni dello stesso Lancellotti, ebbero modo di riportare alla luce importanti testimonianze. Al Menicucci, che ne fece precisa relazione, i ruderi emersi sembrarono “vestigj di un’antichissimo Tempio”, individuati “anche vestigj di quattro stanze […] e tutte […] hanno il pavimento di belli mosaici. Vi sono anche trovati dei basamenti di colonne intonacati di rosso”. Il tempio, con l’entrata a rivolta a nord, secondo lo stesso Menicucci, doveva essere dedicato alla dea Iside, ne poteva far fede “un bellissimo lavoro di bronzo a tutto rilievo” che secondo il Lancellotti che lo aveva trovato, rappresentava appunto un sacrifico alla dea. Questo reperto non visto dal Menicucci, era stato donato qualche anno prima dai Berarducci ad un antiquario francese, il Menicucci tuttavia lasciò una dettagliata pianta e descrizione degli scavi e dei ruderi in via Mattonato.
    29Colucci G, Antichità Picene, vol. XV, Fermo 1792, p. 227. La relazione del Menicucci è stata studiata da Bresciano Tesei, Testimonianze e vestigia di un antichissimo tempio in contrada Mattonato-di Castelbellino, 1987, pp. 7, ds. La stessa relazione con il disegno del sito, è stata integralmente pubblicata in “Quaderni Storici Esini”, II-2011, p. 120. L’erudito sacerdote di Massaccio, Menicucci, cultore di storia locale e di archeologia di cui scriveva o ragionava frequentando assiduamente archivi e verificando, quando possibile, di persona luoghi e reperti, annotava con cura anche notizie di fatti quotidiani e ritrovamenti di cose antiche. Per quanto riguarda Monte Roberto, scrive nel febbraio del 1774: “Si à veridica relazione, aver un contadino ne’ mesi passati trovato una cassetta d’argento con entro un vitello d’oro massiccio nella sua possessione vicino a Monte Roberto il vitello è di grossezza come un coniglio e pesa circa libre novanta. Ne à dato relazione alla Camera, e l’à soddisfatta circa quello che dovea, un cornetto del medesimo l’à venduto, insieme con la cassetta, l’altro ancora ritiene in casa”. 30Menicucci Francesco, Sylva Hystorica Massacciensis (1773-1805), Cupramontana, Archivio Parrocchiale S. Leonardo, Fondo Menicucci, p. 4. La riproduzione e la trascrizione del manoscritto, a cura di Riccardo Ceccarelli, sono state pubblicate da Arnaldo Forni Editore di Bologna per la collana “La Pieve” (N. 9) di Cupramontana nel 1999. Il testo trascritto è a p. 15.
    Il Menicucci questa volta non aggiunge altro: non vide direttamente il reperto, né riuscì ad indicare una data o un periodo presumibili del reperto stesso, si fidò di quanto gli veniva riferito (“si à veridica relazione”), scrive comunque che furono informate del ritrovamento le competenti autorità amministrative e fiscali (la Camera Apostolica) pagando quanto prescritto. Storia vera o fantasia raccolta dallo storico di Massaccio? Alcuni elementi, la data del ritrovamento, la notizia datane alle autorità, la tassa pagata, la parte venduta, la fanno indicare come un racconto di un fatto corrispondente al vero; altri invece come il vitello d’oro che avrebbe dovuto pesare almeno 32 Kg (salvo errori del Menicucci nell’indicare le 90 libbre) configurano il racconto a quello di un “tesoro” attinente alla fantasia popolare, non nuova, allora e come sempre, a “tesori ritrovati”.
    Autentico o falso che sia, il fatto, o meglio, questa notizia lasciataci dal Menicucci, ci fa intravedere come il territorio di Monte Roberto abbia restituito di volta in volta ‘oggetti o tracce di una antica ed operosa presenza umana.


  • 67 3.1 BIZANTINI E LONGOBARDI

    67 3.1 BIZANTINI E LONGOBARDI

    rpArrivano i barbari e con loro distruzione e morti.

    Le memorie archeologiche del nostro territorio, cui abbiamo fatto cenno, hanno avuto certamente un punto di riferimento in un agglomerato più importante, in Planina, le cui tracce però sembrerebbero non dare sufficienti garanzie agli studiosi. Alcune delle ragioni della mancanza di testimonianze definitive sono già state indicate.
    Planina, al pari della vicina Cupra Montana e degli altri centri abitati come Ostra nella valle del Misa, Attidium e Tuficum nell’alta valle dell’Esino, dopo aver risentito in maniera inevitabile della crisi politica, economica e sociale dell’Impero Romano, subì l’urto delle invasioni barbariche con pesanti distruzioni e relativa dispersione degli abitanti. I Visigoti di Alarico che saccheggiarono Roma nel 410, gli Ostrogoti di Odoacre, i Goti di Teodorico, ma soprattutto la guerra di riconquista bizantina, la guerra greco-gotica (535-553), con le sue operazioni militari nella nostra regione e nelle nostre zone, diedero il colpo di grazia a questi agglomerati urbani. La distruzione subita fu talmente grande che nei decenni e nei secoli successivi di’ alcune di queste città e di molte altre in tutto il Piceno si persero la memoria e il nome stesso.
    La popolazione si ridusse oltremodo di numero, moltissimi furono i morti per fame, 50.000 in tutto il Piceno secondo Procopio di Cesarea, lo storico della guerra gotica, una vera desolazione, stando a queste cronache. Tutta la valle dell’Esino, ricca da secoli di coltivazioni agricole, ben presto divenne paludosa lungo il corso del fiume e coperta di fitte boscaglie che dalla valle arrivavano in cima alle colline. 1Urieli Costantino, Jesi e il suo Contado, torno I, vol. I, Jesi 1988, pp. 89-94.
    Dopo la definitiva sconfitta dei Goti nel 553, il ritorno dei Bizantini, eredi dell’Impero Romano, poteva segnare un periodo di pace e di ripresa, il tutto invece fu compromesso da una esorbitante pressione fiscale da parte dei vincitori ma soprattutto dall’invasione dei Longobardi iniziata nel 569. Essi già conoscevano l’Italia per essere stati presenti nell’esercito del generale bizantino Narsete nell’ultima campagna contro i Goti. In pochi anni conquistarono quasi tutta la penisola: rimasero a Bisanzio le isole, la Calabria, la Puglia, l’Esarcato di Ravenna e il Ducato di Roma.
    I nuovi invasori causarono un’ulteriore e pesante devastazione; solo in seguito, il loro stabile insediamento significò l’inizio di una lenta risalita da un baratro economico e sociale.
    Il nostro territorio era stato occupato dai Longobardi provenienti dalla dorsale appenninica umbro-marchigiana; organizzatisi poi nel Ducato di Spoleto e nella Marca di Camerino, si insediarono stabilmente sulle colline della valle: Cupramontana, Staffolo e con tutta probabilità anche Rosora erano gli avamposti della loro presenza. Amministrativamente il caposaldo longobardo era il Gastaldato di Castel Petroso, cioè l’attuale Pierosara di Genga. Da queste zone tuttavia non mancavano di fare incursioni in direzione della costa adriatica insediandosi dalla seconda metà del secolo anche a Jesi, il torrente Cesola (zona Staffolo-San Paolo) e la dorsale tra Cupramontana e Pianello Vallesina costituirono per un certo tempo, in questo tratto, il confine tra il territorio degli stessi Longobardi e quello bizantino della Pentapoli cui apparteneva Jesi.
    Attestano la loro presenza e la particolare zona di confine specifici toponimi di origine longobarda: “staffal”, “palo di confine”, da cui Staffolo; “sculca” (da skulk=vedetta), “pattuglia di esplorazione, posto di vedetta”, da cui il fundus Sculcule (attuali contrade Alvareto, Forcone nel comune di Cupramontana e contrada Rango e Rovegliano in comune di Monte Roberto). Questa presenza è confermata anche da una “curtis” ducale di sicura origine longobarda, situata in contrada Rovegliano, e donata nel 907 dall’ex imperatrice Ageltrude al monastero di S. Eutizio in Campli presso Norcia. 2Ivi, pp. 95-108. Ceccarelli Riccardo, Le strade raccontano, cit., P. 193. Cherubini Alvise, Presenza longobarda nel territorio jesino in Istituzioni e società nell’Alto Medioevo marchigiano (Atti e Memorie della Deputazione di storia patria per le Marche, 86-1981), Ancona 1983, vol. II, pp. 515-550. La “curtis” è un’unita territoriale costituita da un possedimento fondiario e dall’insieme di edifici e di persone che vi erano legati; quella donata da Ageltrude in contrada Rovegliano aveva un oratorio dedicato a S.Pietro, era ricco di case, terre e vigneti; cfr. Cherubini A., Ivi, p. 534 e AA.VV., L’Abbazia di S. Eutizio nella Valle Castoriana presso Norcia, Perugia 1993, p.27.
    Analoga “curtis” era ubicata tra Monte Roberto e Cupramontana e testimoniata dai toponimi “fundus S. Silvestri de Curtis”, “ecclesia S. Silvestris de Curtis” e “fundus de Curtis”. 3Cherubini A., op. cit., p. 535.
    Un elemento ancora vivo di questa antica presenza è il dialetto che si parla a destra del fiume Esino, a Cupramontana e Apiro in particolare, senza tralasciare altri paesi come Monte Roberto, e che “richiama il linguaggio meridionale della regione marchigiana”. 4Urieli C., op. cit., p. 105. Belardinelli Pierina, I dialetti di Cupra Montana e Apiro, tesi di laurea, Università degli Studi di Macerata, anno accademico 1972-73. Perticaroli Mauro, Vocabolario del dialetto di Cupra Montana, Cupra Montana 2003. Anche i Bizantini, attraverso il dominio esarcale di Ravenna, hanno lasciato un’eco della loro presenza: la dedicazione dell’abbazia, anteriore al Mille, sorta nei pressi delle rovine di Planina, al santo vescovo di Ravenna, Apollinare, ne è un segno. 5Cherubini A., Arte medievale nella Vallesina, Jesi 1977, p. 166. Nuova edizione, Jesi 2001, pp. 191-195. Urieli C., op. cit, pp. 273-275.
    Il titolo di due altre chiese, seppure più tardive, dedicate a S. Andrea, santo particolarmente venerato dalla città di Ravenna fin dal tempo di Teodorico, 6Encicopledia Cattolica, Città del Vaticano 1948, vol. I, 1185. una ulteriore conferma di questa eco. Una era situata nella valle del Massaccio, tra Cupramontana e Staffolo, in contrada Brecciole nella zona dove ha origine il torrente Cesola; il primo documento che ne parla è del 1219, il titolo “Sancti Andree vecli” (S. Andrea Vecchio) fa riferimento ad una costruzione ben più antica. 7Ceccarelli R., op. cit., pp. 225-226.
    L’altra era nella valle del Fossato, tra Cupramontana, Maiolati e Monte Roberto; ricordata nel 1290, sorgeva in territorio di Maiolati dove ancora rimangono un’edicola ed una via dedicata al santo. 8Cherubini A., Le antiche pievi della Diocesi difesi, p. 67. Questa chiesa non era lontana da quella di S. Martino, tra il territorio di Maiolati e di Monte Roberto, anch’essa ricordata nel 1290 9Ibidem. e dedicata ad un santo grandemente venerato dai Longobardi.
    Bizantini e Longobardi hanno lasciato orme che si intrecciano e si sovrappongono, come nel caso del già ricordato “fundus sculcule” (“posto di vedetta”), l’ampia dorsale tra Cupramontana e Pianello nella quale, in contrada Morella, troviamo il toponimo Filetto o Filello che viene spiegato dal verbo greco “filàzo”, “faccio la guardia”, “tengo un presidio”, oppure da “filé”,”tribù, sezione dell’esercito bizantino”, ambedue i toponimi concordano nell’indicare il luogo quale zona cuscinetto o di confine tra il territorio bizantino e longobardo. 10Ceccarelli R. op.cit., pp. 206-207.
    Anche il culto di S. Giorgio, cui erano dedicati il monastero e la chiesa situati nell’omonima via lungo il torrente Fossato tra il territorio di Castelbellino e Monte Roberto, rimanda ad una certa compresenza “culturale” bizantino-longobarda: S. Giorgio infatti è santo protettore dei Longobardi convertiti al cattolicesimo e venerato particolarmente anche dai Bizantini. 11Baldetti Ettore, Per una nuova ipotesi sulla confermazione spaziate della Pentapoli, in Istituzioni e…società, cit., vol. II, p. 800.
    Furono i Longobardi comunque ad integrarsi progressivamente con la popolazione locale e nonostante la sconfitta subita dai Franchi nel 773 che instaurarono il loro potere politico militare, mentre giuridicamente prendeva corpo lo Stato della Chiesa, le consuetudini e la legislazione longobarda continuarono per tre/quattro secoli. 12Vaccari Pietro, Il particolarismo nell’Alto Medioevo, in Questioni di storia medievale, a cura Ettore Rota, Marzorati, Milano s.d., p. 33.
    La donazione di Tebaldo all’Eremo di Camaldoli e al Monastero di S. Giacomo delle Mandriole, in territorio di Cupramontana venne fatta, nel 1137, “secundum nostra lege Langobardorum”. 13Menicucci Francesco, Memorie… Massaccio…, pp. 15-35.

  • 70 3.2 I MONACI

    70 3.2 I MONACI

    rpDopo i barbari arrivano i monaci.

    Ormai è generalmente riconosciuto che “il padre, il fondatore, il restauratore dell’Esio moderno fu S. Benedetto col suo provvidenziale istituto”. 14Annibaldi Giovanni, San Benedetto e l’Esio, Jesi 1880, p. 18. La tesi, enunciata oltre un secolo fa e ampiamente motivata, è la chiave di lettura per una rinnovata comprensione della nostra storia locale, ulteriori approfondimenti ne hanno confermato la piena validità e l’hanno resa maggiormente veritiera se si aggiungono alla determinante presenza dei benedettini altri fattori d’ordine economico e sociale. 15Urieli C., La Chiesa difesi, Jesi 1993, p. 39.
    Se per approfondire e documentare questa presenza ed il relativo ruolo dei monaci non ci mancano numerosi elementi probanti dopo il Mille, non è altrettanto vero per i secoli precedenti. “Sostanzialmente ci è ignoto il periodo della prima diffusione dei benedettini nella Vallesina”. 16Urieli C., Presenza benedettina nella diocesi di Jesi, in Aspetti e problemi del monachesimo nelle Marche, Fabriano 1982, p. 32 pp. 91-106. Urieli C., Jesi e il suo Contado, cit., vol. I, tomo I, p. 126.
    Essa avvenne certamente prima del Mille se subito dopo troviamo una presenza già ben consolidata e strutturata. Ci mancano però finora documenti diretti, ma esaminando indicazioni sufficientemente fondate, non ci è difficile avvicinarsi alla verità storica.
    Che la vita religiosa della Vallesina fosse in questi secoli ben sviluppata lo testimoniano la presenza di vescovi in Jesi, Onesto nel 680, Pietro nel 745, Giovanni nel 826, Anastasio nel 877, Eberardo nel 967. Per i monaci “non è improbabile che, dopo la conversione dei Longobardi [primo decennio del 600] e quando vari monasteri incominciarono a sorgere nella nostra Regione, qualche monastero sia sorto, nella Vallesina, come ad es. quello di San Savino [a Jesi], il cui agionimo richiama appunto la religiosità longobarda”. 17Cherubini A., Vallesina cristiana nei secoli, Jesi 1983, p. 11. Urieli C., La Chiesa di Jesi, cit., p. 40. Ed anche le chiese o i monasteri, documentati nel sec. XII/XIII, e dedicati a santi cari alla devozione dei Longobardi come San Giorgio, San Martino, San Michele, San Giovanni ecc., potrebbero avere origine in questo periodo.
    Da tener presente anche l’eventualità che alcuni monaci provenienti da Farfa, in provincia di Rieti, siano giunti nelle nostre zone verso la fine dell’ 800 quando il grande monastero fu abbandonato sotto l’incalzare dei saraceni ed i monaci sciamarono nelle loro proprietà anche nelle Marche. 18Delio Pacini, Possessi e chiese farfensi nelle valli picene del Tenna e dellAso (sec. VIII-XII), in Istituzioni e Società, cit., vol. I, pp. 333-425. Angelo A. Bittarelli, Longobardi e benedettini nelle valli di Pieve Torina e Monte Cavallo, in Ivi, vol. I, pp. 569-586.
    Il Grazzi ipotizza che “soltanto con la Donatio Pipini del 756 la Santa Sede instaura in questa sede jesina di confine e in tutta la ricca vallata del fiume omonimo una politica di educazione romana: vi immette i monaci benedettini che, bonificandola per intero, la radicano alla Santa Sede con stazioni di onomastica papale, sia che fossero abazie sia che fossero pievi o cappelle”. 19Grazzi Luigi„Di alcune antichità difesi e della sua valle con la discussione sui primi vescovi difesi, Rom, Italstampa 1955 p. V. A questa onomastica si riconducono in territorio di Monte Roberto la chiesa di S.Silvestro de curtis, il monastero di S. Giovanni di Antignano e la chiesa di S.Pietro di Rovegliano; non lontana poi, presso le rovine di Cupra Montana, c’era la chiesa di S. Eleuterio anch’essa di onomastica papale.
    La chiesa di S. Antonio di Antignano che sorgeva nelle vicinanze di quella di S. Apollinare e probabilmente succursale del monastero di S. Giovanni di Antignano, era dedicata al “padre e modello degli anacoreti” (251-356) e della vita eremitica che aveva formato in S. Benedetto il suo primitivo e ardente desiderio. Per questa vita S. Benedetto conservò sempre un’alta stima ed un profondo amore additandola nella sua Regola, anche se scritta per monaci che vivevano in comune, come la vetta dell’ascesi monastica. 20Leccisotti Tommaso in Enciclopedia Cattolica, vol. II, 1252. Tenendo presenti queste premesse non siamo lontani dalla verità se ipotizziamo anche per la chiesa di S. Antonio un’origine benedettina volendo ricordare in un’area ricca di boschi e di selve un modello di vita ascetica e solitaria.
    L’abbazia di S. Apollinare infine può suggerire l’ipotesi della presenza di monaci, probabilmente sin dal sec. VIII-IX, inviati dalla chiesa di Ravenna che aveva larghi possedimenti nella Vallesina ereditati dal dominio bizantino. 21Urieli C., La Chiesa difesi, cit., pp. 34-35, 40. Urieli C., Jesi e il suo Contado, cit., vol. I, tomo I, p. 127. Urieli C., Presenza benedettina nella diocesi di Jest, cit., p. 101.
    Nei primi decenni successivi al Mille, “i Benedettini cedettero gran parte delle loro posizioni in mano ai Camaldolesi che fondarono altre case ancor più numerose nella Vallesina specialmente in territorio cuprense. Altre ancora ne seguirono successivamente di derivazione da Fonte Avellana dalla quale rimasero, dipendenti”. 22Urieli C., La Chiesa difesi, cit., p. 40.

  • 71 3.3 LE PIEVI

    71 3.3 LE PIEVI

    Il termine “plebs” (pieve) dal sec. V-VI incomincia ad indicare una “comunità di fedeli” (plebe), più tardi, verso la metà del sec. VII, significa anche “il territorio ecclesiastico” e poi lo stesso edificio di culto.
    Le pievi si configurano come una struttura di circoscrizioni territoriali rurali ecclesiastiche che avevano nella chiesa plebana, quella più importante, il luogo del battesimo, presso la quale abitavano i sacerdoti per la cura d’anime e dalla quale dipendevano chiese minori. Esse hanno costituito l’anello di congiunzione tra la vita del mondo tardoantico (tramonto dell’età romana) e quella del mondo altomedioevale ed hanno rappresentato un punto di riferimento per la vita non solo religiosa delle popolazioni rurali durante tutto il Medioevo.
    Nella diocesi di Jesi c’erano alla fine del sec. XII sette pievi maggiori ed una minore. Le pievi maggiori: Pieve di Monsano, Pieve di S. Marcello, Pieve di Montecarotto, Pieve di Massaccio (Cupramontana), Pieve di Versiano (S.Paolo di Jesi), Pieve di Morro Panicale (Castelbellino), Pieve di S. Maria in Serra di Villa delle Ripe (Santa Maria Nuova); pieve minore era quella di S.Maria di Alvareto in territorio di Massaccio.
    Il territorio di Monte Roberto faceva parte della Pieve di Morro Panicale (Castelbellino) chiamata Pieve di S. Biagio e S. Lucia di Morro Panicale (Plebs sancti Blasii et sancte Lucie de Murro Panicalie) che comprendeva all’incirca, oltre al territorio di Monte Roberto, anche quello degli attuali comuni di Castelbellino e di Maiolati, la pieve era quindi per ampiezza la seconda della diocesi.
    La chiesa plebale di S. Lucia sorgeva nella contrada, in territorio di Castelbellino, anche oggi chiamata S. Lucia, nel pendio che digrada verso l’Esino, alla convergenza degli attuali territorio comunali di Castelbellino, Monte Roberto e Maiolati Spontini.
    L’attuale territotio di Castelbellino contava, oltre alla plebale, cinque chiese, undici quello di Maiolati e quattro quello di Monte Roberto. 23Per una approfondita conoscenza del problema delle pievi nel territorio della Vallesina cfr. Cherubini A., Il sistema plebano nella Vallesina, in Nelle Marche Centrali, cit., vol. I, pp. 389-391; Cherubini A., Le antiche pievi della Diocesi di Jesi, Fano 1982, pp. 55-67; Urieli C., La Chiesa di Jesi, cit., pp. 42-45. I testi suddetti sono stati citati pressoché alla lettera. Di queste ultime, singolarmente ci occuperemo più avanti.

  • 75 4.1 DALLA PIEVE AL CASTELLO

    75 4.1 DALLA PIEVE AL CASTELLO

    Uno dei fatti che segnerà per diversi secoli l’assetto ambientale e paesaggistico dell’intero nostro territorio, e di quello di tutta la nazione, si verificò tra il sec. X ed il sec. XII: è l’ incastellamento, cioè il progressivo concentrarsi della popolazione in villaggi fortificati (“castra”).
    I vari nuclei famigliari “sparsi per la campagna si unirono in agglomerati di nuova costruzione, generalmente situati in un’altura, o attorno ad un nucleo preesistente. Insediamenti nuovi e raggruppamenti favoriti anche dai proprietari fondiari che così. “potevano dominare più strettamente il popolo” 1Georges Duby, Il Medioevo, Milano 1993, p. 68 : Controllo, maggiore sicurezza, aumento demografico, ripresa economica e commerciale e contemporanea rivitalizzazione delle città, sono alcuni dei fattori che determinarono l’incastellamento. Con esso prende corpo anche una nuova figura del dominus loci (il signore del luogo): da “protettore” e generalmente proprietario di vaste estensioni fondiarie diventa anche detentore di un potere progressivamente più ampio e specifico.
    La circoscrizione territoriale ecclesiastica, la pieve, continua a rimanere nella sua integrità: la chiesa plebana comunque non sempre coincideva con i nuovi agglomerati, anzi alcuni casi i diritti e la giurisdizione della stessa chiesa plebana vennero trasferiti nella ecclesia castri, cioè nella chiesa all’interno del castello.
    Cominciò così ad entrare in crisi il sistema plebano che verrà sostituito da quello parrocchiale una volta che i castelli diventarono, nei secc. XIII-XIV, i centri propulsori della vita civile ed economica.
    Nella Vallesina i castelli hanno tutti una certa contemporaneità: sorgono tra il sec. XI e XII sec., se alcuni di essi hanno avuto origine ad opera dei monaci, il loro costituirsi si deve ad un processo storico più complesso.
    La ripresa economica con contratti di lavoro sui terreni a più lunga scadenza (contratti enfiteutici) e la costituzione di nuove classi sociali (i famuli o servi legati al fondo che coltivavano considerati minores; i livellari coltivatori che potevano disporre di sé e dei propri beni erano i mediocres; mentre i beneficiari dei contratti enfiteutici appartenevano ai maiores, ed è tra costoro che emerge il dominus loci), favoriscono la nuova configurazione anche istituzionale del territorio.
    Quasi tutti i castelli fondati in Vallesina in questo periodo sono rimasti nei secoli successivi, ampliati e più volte ristrutturati, formando quello che fu tra il Duecento e l’Ottocento il Contado di Jesi. Lo costituivano i castelli di: Monsano, San Marcello, Morro d’Alba, Belvedere Ostrense, Montecarotto, Poggio San Marcello,-Castelplanio, Rosora, Scisciano, Poggio Cupro, Massaccio/Cupramontana, Maiolati, Monte Roberto, Castelbellino, San Paolo di Jesi e Santa Maria Nuova.

    Villa Ghislieri


    Altri castelli furono distrutti dopo non molto tempo dalla costituzione; come il castello di Moie e Santa Maria delle Ripe distrutti nel 1203, quello di Colmontano nel 1284; altri invece lo furono nel Quattro/Cinquecento come quelli di Accola, Follonica e Rovegliano (quest’ultimo ristrutturato poi come Villa Ghislieri) in territorio di Cupramontana. di altri infine labili e incerte sono le notizie anche della loro esistenza e della loro relativa ubicazione (castrum Actunij, Monte delle Torri e Montereturri, Maccarata, Mazzangrugno).2Per una più ampia e diffusa trattazione, cfr. Urieli C., Jesi e il suo Contado, cit., vol. I, torno I, pp. 193-250.

  • 76 4.2 LE ORIGINI DI MONTE ROBERTO

    76 4.2 LE ORIGINI DI MONTE ROBERTO

    Il primo e piu antico documento che menziona Monte Roberto risale al 1079 è un atto di onazione che Ugo, conte di Jesi, fa all’Eremo di Camaldoli di un appezzamento di terreno, situato nel territorio di Morro Panicale (Castelbellino), per costruirvi l’abbazia di S. Giorgio. Per indicare i confini del terreno donato, nel documento, tra l’altro, si dice: “a tertio latere Monte Riberti perveniente a Sancto P(a)olu“.


    Tali termini – scrive Cherubini – fanno pensare che a quella data Monten Roberto fosse già un piccolo agglomerato, cosa frequente dopo il Mille, tanto più che tutta l’area circostante era stata sede di precoce insediamento di feudatari laici e di case monastiche. E il nome fa appunto pensare ad un feudatario di tal nome, ovviamente di origine longobarda, tanto più che la località era ai confini del Ducato longobardo di Spoleto”.

    Il nome, Roberto, possibile “signore del luogo” (dominus loci), “certamente straniero e non italico o romano”, dal germanico Hrodbert, ha fatto sorgere la leggenda che fa risalire l’origine del castello a Roberto il Guiscardo, duca di Puglia (1015ca-1085) che a sua volta l’avrebbe ricostruito sulle rovine di uno precedente eretto da un certo Ariberto del IV-V d.C.

    Roberto il Guiscardo - Wikipedia
    Roberto il Guiscardo

    In mancanza di documenti sicuri e criticamente vagliati dobbiamo arguire trattarsi di leggenda senza fondamento storico”, come del resto è racconto leggendario voler legare la fondazione del castello alla gente superstite di Planina, quando nel momento della migrazione dalla città distrutta, si divise in due gruppi, l’uno dirigendosi verso Castelplanio, l’altro verso i colli sovrastanti l’antica città, fondando Monte Roberto e Castelbellino. Difficile affermare con certezza se in questo periodo, seconda metà del sec. XI, Monte Roberto fosse un piccolo agglomerato, una semplice contrada o un castello; maggiori lumi non ci arrivano da un documento del 1105 di papa Pasquale II che conferma all’Eremo di Camaldoli

    Eremo di Camldoli

    i propri beni e dove viene menzionato Monte Roberto. Con molta probabilità si trattava di una contrada con un piccolo agglomerato edilizio di proprietà di un certo Roberto e facente parte del territorio di Castelbellino.
    La conferma ci viene dall’assegna data al Comune di Jesi dei beni stabili spettanti alla Curia del Castello di Morro Panicale” (Castelbellino) redatto in data 27 aprile 1219: si parla di un “campo de terra in fundo Monte Ruberti” e di “una pectia de terra in fundo Monte Ruberti”. L’espressione “Fundus” e non “castrum” (villaggio fortificato, castello) ci fa protendere per una contrada o unità fondiaria.
    Quest’atto di consegna dei beni immobili appartenenti al castello di Castelbellino completa la sottomissione al Comune di Jesi fatta dal conte Trasmondo nel mese di maggio del 1194: egli donava “castro murro et eius curia et cum omnibus suis pertinentiis tam intus quam de foris et cum hominibus et cum suis possessionibus”, e cioe il castello di Morro e il suo territorio annesso con tutte le sue pertinenze sia interne che esterne, con gli uomini e con tutti i suoi possedimenti. Il territorio di Monte Roberto ed il suo agglomerato edilizio agli inizi del Duecento fanno parte cosi del Contado di Jesi.

    I castelli del contado di Jesi

    Per il secolo precedente lo storico Ottavio Turchi, sulla base di una lettera di papa Eugenio III del 1147 in cui viene ricordato il monastero di S. Giorgio, afferma che Monte Roberto, come altri castelli della zona, faceva parte allora della Marca di Camerino, circoscrizione orientale del Ducato di Spoleto.” La cosa è possibile, piu certa è invece per la zona della parte superiore delle contrade Accoli e Badia Colli di Cupramontana. E comunque una conferma come tutta la zona fosse di contine e come non sia facile identificare l’esatto decorso del confine stesso del Ducato di Spoleto.
    Tra il Duecento e il Trecento l’agglomerato edilizio acquista una certa consistenza come “castellare”, cioé come fortilizio sprovvisto di mura ma munito di terrapieni e di recintazioni.
    Il primo catasto jesino, probabilmente del 1294, parla di questo castellare ubicato proprio nel “fondo di Monte Roberto”: “in fundo Montis Roberti… castellare Montis Roberti”.
    Altro indizio (o conferma?) che Monte Roberto verso la metà del Duecento non fosse ancora un “castrum”, ci viene da un registro dei censi del 1283, dove si elencano le località che fanno parte del Contado di Jesi: sono presenti i castelli di Montecarotto, Castelplanio, Rosora, Morro Panicale, Maiolati, Scisciano, Poggio Cupro, Massaccio, San Paolo, manca però Monte Roberto, evidentemente compreso nel territorio del castello di Morro Panicale-Castelbellino.


    Comunque la trasformazione del castellare in castello, vero e proprio fortilizio con cinta muraria in posizione collinare, fu un fatto naturale come lo era stata qualche decennio prima la formazione degli altri castelli sulle colline della valle dell’Esino.
    Il castello di Monte Roberto non divenne tuttavia un centro molto grande se entro le sue mura non ebbe mai una chiesa, almeno fino al primo decennio del Seicento, e questa neppure parrocchiale.
    Territorio e castello di Monte Roberto facevano parte, come accennato, del plebanato di Morro Panicale; le chiese, come vedremo, erano sparse nella campagna, solo la chiesa di San Silvestro de Curtis, chiamata anche di San Silvestro dicta Curtis, che sorgeva nel fondo di Silvestro: andata distrutta nella prima metà del Quattrocento, fu sostituita quasi contemporaneamente da una nuova con lo stesso titolo costruita a ridosso delle mura.

    Nascita di Federico II a Jesi


    Ai primordi del castello di Monte Roberto si è voluto con una certa fantasia scomodare anche la storia della prima infanzia dell’imperatore Federico II. Nato a Jesi il 26 dicembre 1194, l’imperatore avrebbe trascorso nel castello di Monte Roberto i suoi primi tre anni: questa permanenza, l’episodio del battesimo, avvenuto più tardi con il nome di Costantino e non di Federico assunto successivamente, ed altro ancora, non sono altro che leggende senza alcun fondamento e che non reggono minimamente alle prove della storia. La leggenda non è antica, sembra essere nata intorno agli anni Cinquanta del Novecento; entrata in circolazione in qualche pubblicazione non certo di grande attendibilità scientifica viene riproposta di volta in volta sulla stampa. Quando la leggenda ha qualche verosimiglianza con la storia può essere anche un onore, in questo caso invece i documenti e la storia sui rapporti tra Federico II e Monte Roberto, oltre a tacere, dicono tutt’altro.
    Precedettero invece la nascita del castello di Monte Roberto due altri piccoli castelli ubicati nella fascia di confine tra il territorio di Cupramontana e Monte Roberto: erano i castelli di Rovegliano e di Berempadria

    Il castello di Berempadria

    sorti nel corso del X e dell’XI secolo. Il primo ha avuto una continuità, dalla seconda metà del XV sec., nell’attuale villa Ghislieri-Marazzi. Il secondo, non lontano da quello di Rovegliano, dovrebbe essere andato in rovina definitivamente nel corso del Trecento.

  • 80 4.3 LE MURA CASTELLANE

    80 4.3 LE MURA CASTELLANE

    Il Cherubini descrive così la cinta muraria di Monte Roberto: “Il castello ha una forma approssimativamente rettangolare alquanto allungata, da ovest a est. Nel breve lato orientale si apre la porta d’ingresso al castello, coperta da una volta a botte piuttosto lunga, nella quale si può distinguere una parte anteriore e una posteriore: quella anteriore corrisponde all’ampliamento del recinto murario avutosi nel [Quattro]-Cinquecento; la parte posteriore corrisponde alla cinta muraria più antica e più ristretta.
    Il lungo lato del castello rivolto a meridione ha un alto torrione scarpato di pianta quadrangolare, valido strumento di difesa del lato stesso. Un altro torrione, meno evidente in quanto trasformato per uso abitativo, si eleva nell’angolo orientale dello stesso lato: si tratta di un notevole baluardo a cinque lati, scarpato, in quale si congiunge con l’anzidetta posta del castello, a difesa della quale era stato eretto.
    La cortina muraria che si estendeva tra questo torrione e l’altro sopra ricordato è stata quasi completamente sostituita dalle abitazioni sorte successivamente; la cortina muraria è invece alquanto conservata nel breve tratto ad ovest del torrione quadrangolare suddetto, dove la base scarpata assume un andamento
    quasi semicircolare.
    Il lato settentrionale, meno gravato da abitazioni, è difeso da un possente torrione di pianta ottagonale, sei lati del quale emergono dal muro di cinta. Ad ovest di tale torrione la cortina muraria, ampiamente scarpata, è corredata da inverosimile’ sequenza di merli alla ghibellina (a coda di rondine) [ricostruiti prima anni Cinquanta del Novecento] che conferisce a quel settore un aspetto prevalentemente scenografico”. 22Cherubini A., Arte Medioevale nella Vallesina.Una nuova lettura, cit., p. 386.Mauro Maurizio, Castelli, Rocche, Torri, Cinte fortificate delle Marche, vol. II, seconda edizione, Adriapress, Ravenna 1997, p. 368.
    Non conosciamo la data o le date precise della costruzione della primitiva dita muraria che tuttavia deve risalire ai primi decenni del Trecento, sappiamo che essa dovette subire una sostanziale ristrutturazione, se non un rifacimento ex novo, alla metà del Quattrocento, 23Urieli C., Jesi e il Contado, vol. II, p. 331. con maggiore precisione conosciamo invece le vicende della struttura della cinta muraria dal Seicento in poi. Essa infatti costituì uno dei problemi più onerosi e di più difficile soluzione per la pubblica amministrazione.
    Periodici erano infatti i crolli di parte delle mura, ed anche i rifacimenti o gli iniurventi che di volta in volta venivano eseguiti non erano quasi mai definitivi o risolutori. La ragione era sostanzialmente, come rileverà l’architetto cuprense Paolo Isidoro Capponi nella perizia che fece l’8 agosto 1787, 24ASCMR, Registro delle lettere dei Signori Superiori e d’altri interessi pubblici … (1703-1795), e. 234r cc. 234-235, cfr. Appendice n. 2, C, pp. 287-288. che le mura castellane servono “di pura incornisciatura al Masso di Tufo sul quale è piantato tutto il castello”.
    Piogge insistenti per giorni e giorni ed eventi straordinari come terremoti causavano crolli non facilmente e subito rimediabili.

  • 81 4.3A IL MURAGLIONE DELLA PIAZZA

    81 4.3A IL MURAGLIONE DELLA PIAZZA

    Uno dei punti di maggiore debolezza e che, a dire il vero, non faceva parte della cinta muraria ma ne era un contrafforte di notevole importanza, era il muro che sosteneva la vecchia chiesa di S. Silvestro e la piazza antistante, a pochi metri dalle mura vere e proprie.
    Nel 1609 si risarcisce “il muro sotto la chiesa della nostra comunità”, 25ASCMR, Consigli (1608-1616), c. 49v. passa poco più di un secolo e tre giorni di pioggia, dal 25 al 28 settembre 1717, procurano danni alle mura che sostengono la piazza e la chiesa parrocchiale causando lesioni e rendendo pericolose le cappelle laterali della chiesa stessa.
    Per il restauro da farsi il Consiglio della Comunità intende impegnare anche il ricavato della vendita della legna della “selva della Comunità”. 26ASCMR, Consigli (171171735), c. 116v e 117v, 29 settembre 1717. ASCMR, Registro delle lettere…, cit., c. 28v. Nel progetto che si appronta, si propone di fare sotto il muro alcune cantine, una fontana “se si avesse la commodità dell’acqua” e “sopra terra alzarci le loggie per comodo et abbellimento del nostro Castello”. 27ASCMR, Consigli (1711-1735), c. 123v, 1 maggio 1718.
    La fontana veniva proposta in considerazione dell’acqua che proveniva dalle falde del terreno su cui poggiava il muro e che costituirà una grossa difficoltà per una nuova ricostruzione che si dovrà fare poco oltre la metà del Settecento.
    Il progetto invece delle logge non era nuovo, era stato formulato oltre sessant’anni prima, nel 1647: avrebbero dovuto essere fatte “nella muraglia della Piazza e appoggiarle alla chiesa di S. Silvestro”, facendo ad essa anche da fortezza e sostegno. 28ASCMR, Consigli (1639-1651), cc. 136r e 137r, 11 agosto 1647. I lavori programmati vennero ultimati nel 1725, complessivamente durarono nove mesi in tre anni e furono seguiti a nome del
    Consiglio da Amanzio Mancia e Lorenzo Paziani. 29ASCMR, Consigli (1 711 -1735), c. 193v, 8 luglio 1725.
    In antecedenza ci si era dovuti preoccupare di una parte della vera e propria scarpa della cinta muraria andata in rovina provvedendo ad un tempestivo restauro. 30Ivi, cc. 55v e 56v, 18 marzo 1714.

  • 82 4.3B UNA PORTA ABUSIVA

    82 4.3B UNA PORTA ABUSIVA


    UNA PORTA ABUSIVA

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    Il castello, allora come oggi, aveva un’unica porta di accesso che veniva regolarmente chiusa alla sera ed aperta al mattino da un incaricato della pubblica amministrazione, in tempo di epidemia o di contagio poi, oltre ad una prolungata chiusura, si mettevano delle guardie per una vigilanza più stretta su chi entrava e su chi usciva. Nessun’altra porta poteva essere aperta in maniera abusiva: una porta privata che immettesse nel castello avrebbe potuto far nascere “scandoli e pregiuditij”.

    Orazio Guglielmi tuttavia negli ultimi anni del Seicento l’aveva fatta aprire, senz’alcun permesso, sulle mura nella zona di Fosso Curto (attuale via G.Spontini): il Consiglio della Comunità ne discute il 17 gennaio 1691 e ricorre al Governatore di Jesi che rispondendo il 29 aprile ordina che la porta venga murata “a muro pieno conforme son le muraglie castellane” a spese dello stesso Guglielmi. Passano pochissimi anni e nell’aprile 1695 il Guglielmi apre di nuovo la porta senza permesso ed il Consiglio questa volta ricorre alla Sacra Consulta.

  • 82 4.3C CADONO LE LOGGE

    82 4.3C CADONO LE LOGGE

    Le logge costruite per “ornamento et abbellimento” del castello furono tali per poco tempo: le piogge prolungate verificatesi nel mese di aprile del 1729 ancora una volta sembrano essere all’origine della loro rovina. 32ASCMR, Consigli (1711-1735), c. 226r, 1 maggio 1729.
    Una decina d’anni dopo, la perizia del “perito muratore” Giovanni Lacchè di Jesi individua la ragione del cedimento strutturale delle logge in “una paccatura di Terra, o sia Liscia sotterranea, che camina sotto la loggia suddetta, a casa del Sig. Mazzini e si estende anche detta apertura verso la Chiesa parrochiale”. 33ASCMR, Consigli (1735-1755), c. 67r, 30 marzo 1740, cfr. Appendice n. 2, A, pp. 284-285. Proprio le acque senza sufficiente drenaggio e idonea canalizzazione avevano provocato quel movimento franoso nell’attuale piazza S. Silvestro: le logge stavano qui, continuavano lo spazio coperto tra una parte dell’attuale arco d’ingresso alla piazza (casa del Sig. Mazzini) e la chiesa.
    Il Consiglio della Comunità dopo le prime avvisaglie di cedimento nel 1729, sentito il parere di esperti, decide il loro restauro ne ottiene anche il permesso dalle autorità superiori, 34Ivi, c. 42r, 21 ottobre 1738. i lavori però non riescono a fare: qualcuno cui le logge non piacevano affatto (“persone indiscrete per loro secondari fini”) fa ricorso a Roma 35Ivi, c. 64v. e blocca i lavori, il Consiglio così il 29 marzo 1740 decide di smantellare il tetto delle logge diventato un pericolo pubblico. 36Ivi c. 65v.
    Dieci giorni dopo il Governatore di Jesi Mons. Giovanni Vitellio Vitelleschi manda il perito muratore Lacchè a Monte Roberto per una diligente ricognizione; nella relazione il Lacchè consiglia di “fare il luogo di detta loggia un grosso muraglione a scarpa liscio senza loggie di sopra bensì col suo parapetto avanti la piazza alto da terra piedi 3 romani”, avvertendo, “attesa la terra molle, di dove scaturisce l’acqua” di “farci le palizate a castello in fine del fondamento per poter con tutta sicurezza fondarci detto muraglione, trattandosi di luogo montuoso ed in costa”. 37Ivi, c. 67r.

  • 83 4.3D IL TERREMOTO DI S. MARCO

    83 4.3D IL TERREMOTO DI S. MARCO

    “Nel dì 24 aprile 1741, circa le 15h 1/2 ital[iane], si sentì nella Marca una triplice scossa di terremoto per la quale Fabriano soffrì più di ogni altro paese, avendo i danni sorpassata la somma di scudi 100000: in quella tremenda congiuntura si ebbero 7 vittime, tre delle quali sotto le rovine della chiesa dei Cappuccini. Al replicar delle scosse nella chiesa di S. Venanzio diroccò la facciata, in quella di S. Nicolò il campanile che, cadendo, fracassò la chiesa […]. In Serra S. Quirino […] i guasti furono immensi […] In Urbino tutte le case furono danneggiate […] In Camerino rovinò la maggior parte delle case, le altre furono rese inabitabili […] A Iesi i danni furono notevoli […] A Pesaro furono abbattuti vari camini [In Fano non vi fu chiesa o casa che non abbia sofferto […] nella campagna parecchie case furono demolite. S. Severino e Matelica risentirono molti danni, e così pure qualche località dell’Umbria. A Recanati […] la scossa fu terribile: essa poi fu forte a Trevi, a Forlì e Cesena; a Mantova causò una considerevole fenditura […]; fu sentita a Roma, a Firenze, a Parma, a Lodi, a Udine e in tutto il Friuli; fu abbastanza sensibile a Vicenza”.

    Allora come oggi, i lavori pubblici non avevano quella sollecitudine che i cittadini hanno sempre desiderato; per il rifacimento del muraglione però sembrava essere arrivati finalmente in dirittura di arrivo quando accadde, ‘l’imprevisto: la vigilia della festa di S. Marco, il 24 aprile 1741, la terra tremò la rovina fu grande.

    Effetti del terremoto del 24 aprile 1741. L’area di danneggiamento si estende dalla costa adriatica alla valle del Tevere, comprendendo quasi tutte le Marche e parte dell’Umbria .


    Notevoli furono i danni al palazzo comunale, alle case e alle persone; 38lvi, c. 84r, 1 giugno 1741. le case più danneggiate furono quelle verso Fosso Lungo, cioè quelle che si affacciavano sull’attuale viale Matteotti e su piazza Serafino Salvati. I crolli non dovettero essere di poco conto se si poteva entrare nel paese attraverso le case in rovina e non solo dalla porta; 39ASCMR, Registro delle lettere signori superiori, 6 maggio 1754. molte famiglie inoltre, dopo il terremoto se ne dovettero andare. 40ASCMR, Consigli (1794-1800), 2 novembre 1800.
    La situazione rimase così per diverso tempo: molti ne approfittavano per recuperare dalle case crollate pietre, mattoni e legname; la Comunità tuttavia quasi quindici anni dopo cerca di recuperare qualche proprietà e di restaurarla. 41ASCMR, Consigli (1735-1755), 6 maggio 1754.
    Non si riuscì a far molto, se verso la fine del secolo nel Consiglio della Comunità del 18 marzo 1798 si parlava di “togliere quelle mostruosità cagionate dal terremoto che diroccò buona parte del nostro luogo”, preoccupandosi, nella ricostruzione di qualche edificio “di dare ancora una qualche simetria al castello”. 42ASCMR, Consigli (1794-1808), c. 48v.
    Rovina ma anche tanta paura e ricorso alla religione: nella seduta del 1 giugno 1741 il Consiglio decide all’unanimità di “far celebrare un offitio Generale, nella nostra Chiesa della Madonna della Pietà, con quanta celerità possibile, in suffragio delle Anime purganti, acciò mediante esse et il patrocinio della SS.ma Vergine, questo luogo resti libero dalle scosse di terremoto e da qualunque altro castigo”. 43ASCMR, Consigli (1735-1755), c. 84v. L’anno dopo in prossimità del primo anniversario si decide per un triduo a San Giuseppe “acciò ci liberi dal flagello del terremoto”. 44Ivi, c. 107r, 8 aprile 1742.
    L’intercessione di San Giuseppe era ritenuta di grande efficacia se il terremoto dell’aprile 1741 che interessò tutti i paesi della Vallesina 45 Menicucci F., Memorie.. .Massaccio, p. 296.risparmiò Castelplanio che si era rivolto proprio alla intercessione di questo santo. 46ASCCPL, Consigli, 22 aprile 1742.


    Il Consiglio Generale della Comunità di Massaccio-Cupramontana così registra l’avvenimento il giorno dopo, 25 aprile: “La grandissima scossa del terremoto, che ieri all’ore quindici in circa la Divina Misericordia ci fece intendere con nostro gran spavento, mentre scossa simile non si è più intesa à memoria de viventi in queste nostre Parti, ci move di proporre à questo Consiglio se paia ben e di fare qualche publica Devozione massime in onore del Glorioso Patrocinio di S. Gioseppe, la di cui festa in punto ieri si solennizzava in ringraziamento d’essere stati preservati dal gran male, che doveva cagionare una sì tremenda scossa, e per ottenere dal suo potentissimo Patrocinio d’essere in avenire liberati da sì orribil flagello”, e all’unanimità si decise “che per lo spazio di diec’anni continui si facesse dire una Messa cantata con l’esposizione del SS. [Santissimo Sacramento] in ultimo, nel giorno che ricorrerà la Festa suddetta del Patrocinio di S. Gioseppe”. 47ASCC, Consigli XVI (L736-1751), 25 aprile 1741, cc. 98v e 99r.

  • 84 4.3E IL NUOVO INGRESSO ALLA PIAZZA S. SILVESTRO

    84 4.3E IL NUOVO INGRESSO ALLA PIAZZA S. SILVESTRO

    Le rovine del terremoto, le logge cadenti, piazza S. Silvestro e la chiesa parrocchiale con gravi lesioni, non davano certamente a Monte Roberto un aspetto molto gradevole: si conviveva con questa situazione precaria aspettando che i tempi non veloci della burocrazia maturassero in decisioni concrete. Mentre si leggono le antiche carte che registrano questi fatti sembra che la gente fosse abituata ad una tale situazione anche se di tanto in tanto nel Consiglio della Comunità si levano voci che chiedono interventi tempestivi.
    Qualcosa comunque negli anni immediatamente successivi si realizza. Per entrare su piazza S. Silvestro dalla strada di Fosso Lungo (viale Matteotti e piazza Serafino Salvati) c’era un antico arco e, staccata, la casa del capitano Filippo Mazzini cui erano unite le logge.
    Il capitano chiede al Consiglio di poter unire la sua casa all’arco e sopraelevare tutta la costruzione in maniera armonica e simmetrica; il Consiglio non si oppone, anzi l’8 agosto 1745 si esprime all’unanimità (“viva voce”): “L’arco che brama il Sig. Filippo Capitano Mazzini non apporta danno ne alcun pregiudizio a questo pubblico, ne tampoco ad alcuna famiglia, anzi renderebbe ornamento al paese e servirebbe di maggior comodo per stare al coperto ne’ tempi piovosi [le logge erano da anni cadute] a guisa dell’altro che di presente si ritrova, et a cui si deve unire il nuovo”. 48ASCMR, Consigli (1735-1755), c. 142v, 8 agosto 1745. ASCMR, Registro delle lettere…, c. 69r.
    Il sottopassaggio venutosi a creare non era molto alto, anzi decisamente basso, tuttavia fu lasciato così per quasi due secoli: immaginiamo che attraverso di esso potessero passare solo persone e bestie da soma senza carri troppo ingombranti.
    Solo il 24 settembre 1938 il podestà Avv. Arrigo Cinti decise di ampliare l’arco-sottopassaggio, era talmente angusto che non ci poteva passare neanche il carro per i funerali che si celebravano nella vicina chiesa parrocchiale. 49ASCMR, Deliberazioni (1936-1940), n, 57 del 24 settembre 1936 e n. 32 delrll luglio 1939.

  • 85 4.3F IL MURAGLIONE NUOVO

    85 4.3F IL MURAGLIONE NUOVO

    I lavori per il nuovo muraglione non riuscivano ad incominciare. Erano stati appaltati nell’aprile del 1742, dopo la perizia Lacchè di due anni prima, a Mastro Luciano Terigi dal Massaccio; 50ASCMR, Consigli (1735-1755), c. 198r, 6 maggio 1742. il Luogotenente Generale del Governatore di Jesi era venuto nello stesso mese a Monte Roberto per visitare il posto del muraglione e delle logge diroccate, 51ASCMR, Registro dei Bollettini (1711-1775), c. 76v. nulla però si mosse ancora per altri dodici anni.
    Ci volle la visita di Mons. Giovanni Potenziani che giunse a Monte Roberto nell’estate 1754 poco dopo la sua nomina a Governatore di Jesi e che sollecitò, anzi ordinò, l’inizio dei lavori.

    Tutto era pronto dal 1742, perizia, appalto e relativi capitolati, anche il denaro era depositato presso il Monte di Pietà di Jesi, nel prosieguo degli anni però invece di usarlo era stato dato in prestito a diversi.
    L’ordine del Governatore fu abbastanza deciso se si provvide subito, nel mese di ottobre, ad un nuovo appalto dei lavori affidati a Francesco Petrini, capomastro originario di Milano 52ASCMR, Consigli (1735-1755), c. 243r/v, 10 agosto 1754 e cc. 252-257,28 ottobre 1754. che forni nuova ed approfondita perizia contestualmente all’accettazione dei lavori. 53ASCMR, Trasatti (1688-1766), cc.139r 140r, 28 ottobre 1754 [cc. 132v-146v]; cfr. Appendice n. 2, B, pp. 285-286.
    Si cominciò subito: collocate il 16 novembre 1754 le due pietre benedette sul pilastro verso la chiesa (in luogo delle palizzate suggerite dal Lacchè si optò per pilastri o pozzi ritenuti più sicuri), si redige un atto solenne della cerimonia alla presenza di dieci testimoni, si trovò “saldo e sodo terreno” per le fondamenta, 12 piedi romani (metri 4,80) fu la profondità del pilastro verso la Casa dell’erede del Capitano Filippo Mazzini.


    I lavori continuarono alacremente durante tutto l’inverno, verso la metà del mese di marzo, nel rispetto degli impegni assunti, i lavori erano quasi conclusi: 54ASCMR, Consigli (1735-1755), cc. 258v e 259r, 16 novembre 1754 e c. 286r, 19 marzo 1755. ASCMR, Registro delle lettere…. , cc. 90v-95r.
    l’11 aprile Ludovico Alessandri, architetto di Staffolo che aveva visionato il progetto ed assistito ai lavori, fece il verbale di collaudo del nuovo muraglione. 55ASCMR, Trasatti (1688-1766), cc. 148r/v, 11 aprile 1755.

  • 86 4.3G SI CONSOLIDANO LE MURA

    86 4.3G SI CONSOLIDANO LE MURA

    La sistemazione di piazza S. Silvestro, del muraglione di sostegno e dell’arco-ingresso alla piazza, segna, possiamo dire, l’inizio di un periodo, durato sessanta/settant’anni, ricco di realizzazioni edilizie che diedero al centro storico di Monte Roberto l’assetto che ancora conserva.
    Nel 1762 fu ristrttturata la chiesa di S. Maria della Pietà; si iniziarono nel 1769 i lavori per la nuova chiesa parrocchiale su disegno e progetto attribuiti a Mattia Capponi, architetto di Massaccio che nello stesso anno aveva fatto la perizia sulla situazione delle mura; del 1816 sono i primi lavori per il teatro comunale situato all’interno del pubblico palazzo, mentre nel 1825 si incomincia a rifare la chiesa di S. Carlo.
    Nel frattempo non mancarono interventi per il consolidamento delle mura castellane.
    Al problema viene dedicata un’intera seduta del Consiglio della Comunità il 21 maggio 1769. La situazione non era certamente molto confortante e viene così descritta: “Per le liscie di terreno, che si suppongono derivanti dall’acque sotterranee, da quali si è cagionata la caduta dalli muri di scarpa castellana di questo Paese nella parte verso il Fosso Curto, con aversi straginata via la strada publica e parimenti nella parte verso il Fosso Lungo, stuccatasi la, strada con calata di terreno, e cadute le case e paccatesi le muraglie di scarpa Castellana, ed essendo altre fesse, e pericolanti la maggior parte dell’abitazioni de particolari, la Chiesa Parrocchiale, ed ancora questo Palazzo Publico, stà pericolante, mentre distaccatoglisi il terreno presso li fondamenti, e stando il Paese tutto pericolante e gl’Abitatori con gran timore, si è pensato espediente chiamare l’Architetto Sig.re Mattia Capponi per potersi fare l’ispezzione e riconoscersi l’origine di dette liscie, che cagionano la rovina del paese tutto”. 56ASCMR, Consigli (1766-1780), cc. 74v e 75r. ASCMR, Registro dei Bollettini (1711-1775), c. 259r.
    Il Capponi dopo aver fatto “pianta ed elevazione della Figura del paese colla descrizione de siti lamati e delli pericolanti”, per una più approfondita conoscenza della situazione, propose di fare dei sondaggi in profondità (“visitarsi la profondità con farsi qualche pozzo”): per queste nuove ricerche c’erano da spendere “circa una ventina di scudi”, una spesa per la quale si, rendeva necessario il permesso della Sagra Congregazione del Buon Governo.
    Di questo programma di esplorazioni sotterranee forse si fa ben poco o nulla. Nel 1786 si ripara qualche tratto di mura completamente rovinato, 57ASCMR, Registro delle lettere..” e. 227r, 29 marzo 1786, 11. soprattutto però si fanno nuove perizie: le presentano, su richiesta, Giacomo Pollo di Jesi, 58Ivi, c. 233v, 9 dicembre 1786. Domenico Spadoni di Ancona 59Ivi, c. 233r, 17 giugno 1787. e Paolo Isidoro Capponi di Massaccio, nipote di Mattia, con una relazione peritale più articolata e motivata. 60Ivi, cc. 234r/v e 235r, 8 agosto 1787; cfr. Appendice n. 2, C., pp. 287-288.
    Nel 1790 la situazione non era ancora risolta o mutata 61ASCMR, Consigli (1780-1793), c. 117r, 7 marzo 1790. e neppure dieci anni dopo: non erano risolti i problemi del terremoto di San Marco (24 aprile 1741), che il terremoto del 1799 ha “sconquassato maggiormente il paese… le case sono malsicure…; questa Comunità non avendo debiti ne fruttiferi ne infruttiferi, anzi dei censi attivi, potrebbe ricostruire” e si osserva che “ciò fu proposto sia al tempo del Governo Pontificio che al tempo del Governo Repubblicano”, naturalmente il progetto era sempre quello dell’architetto Paolo Isidoro Capponi fatto tredici anni prima. 62ASCMR, Consigli (1794-1808), cc. 68-70.
    I privati si facevano carico, per quanto potevano ma non sempre, di recuperare o riassettare le case che nei secoli precedenti erano sorte sulle cortine delle mura; quelle irrecuperabili venivano demolite come nella zona di Fosso Lungo dove poi fu rifabbricata la chiesa di S. Carlo.
    La Comunità a sue spese rifece il muraglione sotto il Palazzo Comunale (Fosso Curto, attuale via Spontini): vi si lavorò nei mesi di marzo-maggio 1817, per renderlo stabile si realizzarono ben 20 piloni, secondo la perizia di Luigi Bellonci di Massaccio e di Serafino Salvati. 63ASCMR, Sindacati (1790-1844). Lo stesso muraglione però, a causa delle piogge abbondanti dell’inizio del 1848 subì crolli in diverse parti, e poco più di un anno dopo si fanno lavori di ripristino. 64ASCMR, Consigli (1843-1849), 6 febbraio 1849 e 4 marzo 1849.
    La parte integra delle mura, quella occidentale, tra Fosso Curto e Fosso Lungo insistente sull’attuale via Francesco Giuliani, fu per decine d’anni proprietà della famiglia Salvati, come risulta dal catasto gregoriano (n. 14 di mappa, “Salvati Serafino e Fratelli quondam Benedetto”) e con tutta probabilità risale a questi anni (prima decade dell’Ottocento) la sistemazione, o almeno la decorazione pittorica dell’ampio salone, detta “Sala del Trono”, lo stile delle decorazioni è analogo a quello delle decorazioni di Villa Salvati sorta nel primo e secondo decennio dell’Ottocento; è in questa sala che si è favoleggiato della presenza di Federico II e di “Re e imperatori che hanno seduto e dettato leggi”. 65Riportato da Urieli C., Jesi e il Contado, v ol.l, torno II, p. 55.
    A Serafino Salvati nel 1786 era stato concesso il permesso di poter ingrandire una porta situata nelle mura castellane, 66ASCMR, Registro delle lettere , c. 228r, 9 aprile 1786.non era l’unica, qualche altra ce n’era: i privati con le case sulle cortine invece di fare un percorso più lungo attraverso la porta del castello preferivano aprire un passaggio sulla scarpa delle mura. I tempi ormai erano diversi da quando una nuova porta sulle mura poteva far nascere “scandoli e pregiuditij”, la popolazione del resto non viveva più solo all’interno del castello, “il borgo” (via G Leopardi) che si era costituito lungo l’unica e ripida strada che arrivava alla porta del castello, era diventato il nuovo centro della vita quotidiana.
    Il borgo infatti si era incrementato nei decenni del Settecento proprio per la sostanziale inagibilità di molte abitazioni sulle cortine delle mura dovute ai crolli del terremoto ma anche alle lesioni nelle mura stesse, alcune famiglie (ad es. Amatori e Capitelli) che avevano casa nel castello costruirono qui nuove abitazioni, ad esse si aggiunsero altre famiglie che trovavano il luogo più sicuro

  • 88 4.4 IL PALAZZO COMUNALE

    88 4.4 IL PALAZZO COMUNALE

    Nei secoli passati un’importanza del tutto particolare hanno avuto il palazzo pubblico e la torre civica con la sua campana ed il suo orologio.
    Il palazzo era la sede della pubblica amministrazione, cioè dei Priori o del Gonfaloniere o del Sindaco poi, della segreteria e dell’archivio, vi potevano trovar luogo anche la scuola, i magazzini pubblici e quelli dell’Abbondanza, le carceri o anche le stanze per i “birri”.
    La torre civica, oltre ad essere un segno visibile del luogo della pubblica autorità, era munita dell’orologio che scandiva il tempo per tutta la comunità, rilevante per tutti era l’ora della chiusura e dell’apertura della porta del castello; la campana poi, con tutta probabilità la stessa dell’orologio, convocava le pubbliche riunioni del Consiglio o veniva suonata in altre importanti circostanze.
    Tenere efficienti queste strutture è stata in ogni tempo una delle maggiori preoccupazioni delle autorità, perché da questa efficienza e dai relativi servizi prestati si poteva verificare la capacità di intervento delle autorità stesse.
    Non sappiamo dove fosse il palazzo delle pubbliche autorità nei secoli XIV-XV; conosciamo sufficientemente bene invece le vicende di questo palazzo, dal Cinquecento al Novecento, ubicato sopra le mura sulla sinistra della porta del castello: qui rimase la pubblica amministrazione fino al 1933 quando si trasferì nel Palazzo Casati in piazza Ruggeri.
    La torre civica, non grande, fu probabilmente sempre ubicata sopra la porta del castello; periodici i lavori per tenere in efficiente funzionalità l’orologio e la campana: il primo intervento registrato nei libri rimasti dell’archivio comunale è dei mesi di novembre-dicembre 1560 quando si sistemano torre ed orologio e la campana viene fusa da Gallerano da Apiro. 67ASCMR, Entrate e Uscite (1558-1586), cc. 26r e 29v.
    Lo stesso palazzo era in condizioni precarie se nel maggio-giugno 1578 si fanno lavori per “buttare a terra il palazzo” e si ricomincia subito a lavorare per ricostruire 68Ivi, cc. 226r e 227r. e, con diverse interruzioni, i lavori si prolungano per una decina d’anni: dal gennaio all’ottobre 1589 furono eseguiti da Andrea di Tullio e da mastro Nicolò muratore. 69ASCMR, Entrate e Uscite (1585-1597), cc. 38v, 39r, 40r, 45r.Non appena sessant’anni dopo il palazzo minaccia di nuovo rovina, il Consiglio della Comunità incarica “i Quattro” di porvi rimedio, 70ASCMR, Consigli (1639-1 651), cc. 10v e 11r, 26 febbraio 1640.si rifanno le finestre 71Ivi, c. 33, 10 dicembre 1641.e si interviene sul campanile che sovrasta la campana e sull’orologio. 72Ivi, c. 66r, 1643.
    Violenti temporali, vento e piogge torrenziali 73ASCMR, Consigli (1711-1735), c. 189r, 10 dicembre 1724. o qualche fulmine 74ASCMR, Registro delli Bollettini (1711-1775), e. 166f, luglio 1759. impongono restauri urgenti ogni volta che si verificano questi fenomeni, sia alla torre civica che al tetto del palazzo, “mezzo scoperto” nel dicembre 1672. 75ASCMR, Consigli (1665-1676), c. 109v, 11 dicembre 1672.
    II pubblico palazzo con alcune case annesse, nella terza decade del Settecento, pur subendo gravi lesioni a causa del terremoto, è ancora agibile, ma in Consiglio si parla della inutilità dei lavori di riattamento e si pensa ad un rifacimento totale del palazzo stesso. 76ASCMR, Consigli (1711-1735), c. 214r, 7 gennaio 1728 e cc. 217-218, 30 maggio 1728. ASCMR, Registro delle lettere…. , cc. 34v, 36v, 5 maggio 1728.
    La perizia di Giuseppe Fammilume per il rifacimento del palazzo viene disattesa “perchè non essere suo mistiere lavorar di pietra rustica della quale è necessario servirsi per compiere la fabbrica”. 77ASCMR, Consigli (1711-1735), c. 253v, 5 ottobre 1732. Il rifacimento totale del palazzo non si realizzò; solo nell’ottobre 1778 vennero appaltati i lavori per il “rimodernarsi della sala del palazzo Publico e per la Fabrica di stanza per la Segreteria Publica”: 78ASCMR, Consigli (1766-1780), cc. 269v-272v, 25 ottobre 1778. nel dicembre 1779 erano già terminati ed approvati il mese successivo dalla Congregazione del Buon Governo. 79ASCMR, Registro delle lettere…. , c. 2 13, 21 dicembre 1779.
    Nonostante i problemi statici cui i pubblici amministratori dovevano far fronte, essi si adoperano anche per un certo decoro degli ambienti interni del palazzo: il 5 ottobre 1614 si approva la spesa di quattro scudi fatta nell’acquisto di un “quadro dipinto dell’Immagine della Madonna S.S. per il nostro Palazzo”. 80ASCMR, Consigli (1608-1616), c. 136v.
    Analoga decisione viene presa nella seduta dell’8 marzo 1739 dal Consiglio nel comperare un quadro raffigurante la Madonna da tenere nella Sala Consigliare. 81ASCMR, Consigli (1735-1755), c. 46r.
    Nel 1750 a Francesco Luisati, pubblico orologiere di Jesi, per accomodare l’orologio della torre civica, viene preferito quello di Monte S. Vito: la ragione non è accennata. 82Ivi, c. 200v, 18 maggio 1750.
    Anche la campana ha bisogno di manutenzione: nel 1779 viene rifatta la “cicogna o sia ceppo della campana del palazzo publico”. 83ASCMR, Consigli (1766-1780), e. 284v, 8 agosto 1779. Agli inizi dell’Ottocento la torre civica ha gravissime lesioni: 84ASCMR, Consigli (1794-1808), c. 98r, 21 dicembre 1801.è Carlo Gagliardini che nei primi mesi del 1803 ne porta a termine i lavori di restauro. 85ASCMR, Bollettini (1791-1808), 5 marzo 1803. ASCMR, Sindacati (1790-1817), e. 83v. Poco più di cinquant’anni ancora e la campana dell’orologio dopo secoli di onorato servizio, nel 1855, si rompe: tre anni dopo viene rifusa da Giuseppe De Giorgi di Ancona. 86ASCMR, Consigli (1850-1859), 28 settembre 1858.
    L’obiettivo degli amministratori era pur sempre quello di un nuovo palazzo; si riuscivano a concretizzare solo interventi parziali, progetti generali però non mancavano. Nel 1798 è la volta dell’architetto di Massaccio Paolo Isidoro Capponi che fornisce disegni, perizie e misure, per il suo lavoro gli vengono corrisposti 15 scudi. 87ASCMR, Sindacati (1790-1817), e. 39v, 21 marzo 1798.
    Il progetto rimane tale e non se ne fa niente; quasi vent’anni dopo si osserva che “il Palazzo Publico è angusto, indecente e malsicuro, la scala esterna permette a chiunque di entrare anche di notte, a vagabondi e maleintenzionati”, Luigi Bellonci (1765-1839) di Massaccio, allievo del Capponi, è incaricato di redigere un progetto di ristrutturazione che viene approvato dal Consigli-o, il 15 febbraio 88ASCMR, Consigli (1809-1827), p. 63. Contemporaneamente, al Bellonci era stato commissionato il rifacimento del muraglione sotto il palazzo comunale devastato da frane verificatesi nel 1815 e nel gennaio 1816: la sua perizia fu preferita a quella dell’Ing. Donegani ed i lavori, come abbiamo visto, eseguiti nel 1817.
    Risale anche al 1816 la richiesta di realizzare all’interno del palazzo comunale una Sala Teatrale. 89Ivi, pp. 68-69.
    Con l’entrata su Fosso Curto (via Spontini-via Ponte) ma sull’immobile del palazzo comunale, era ubicato il macello pubblico, rifatto nel 1769 accanto alla casa della Compagnia della Morte, e vicino al quale c’erano le carceri 90Ivi, p.81, 3-0 novembre 1816. ASCMR,Trasatti della Comunit+á di Monte Roberto (1758-1777),cc. 85r/v e 86.ASCMR,Consigli (1766-1770),cc. 68r/v e 69r, 12 aggio1769. costituite probabilmente da una grotta di proprietà di Giuseppe Amatori che nel 1838 veniva utilizzata per conservare la carne nella stagione estiva.
    Non lontano dal macello, lungo le stesse mura, c’era anche il forno ormai da tanti decenni; se nel 1758, già pericolante, era chiamato “il Fornaccio o forno vecchio” 91ASCMR, Consigli (1756-1766), c. 83r. 91., esso costituiva un pericolo continuo per la possibilità di incendi.
    Il “sottoposto forno comunale […] trovasi nel centro di questo publico edificio, ed ogni giorno in attività, ogni giorno può esser causa della totale roina di questo publico Stabilimento non solo ma ancora dei fabbricati adiacenti”. Ebbene nonostante questo pericolo e pur avendo trovato il denaro per rifare altrove il forno, la proposta viene respinta dal Consiglio Comunale il 29 agosto 1824 con 15 voti contrari e solo 4 favorevoli. 92ASCMR, Consigli (1809-1827), p.255.
    Parere negativo che meraviglia ancor più in considerazione dell’incendio che poco prima, sviluppatosi nella casa dirimpetto al palazzo comunale di proprietà Menicucci e successivamente di Bernardino Amatori, aveva seriamente danneggiato il tetto del palazzo comunale ed i locali dell’archivio, e più gravi sarebbero stati i danni senza il pronto e sollecito intervento di tanti volontari
    che “estinto il fuoco dopo un travaglio di circa tre ore” riportano suppellettili e documenti nella sede comunale. 93Ibidem.
    Per arrivare ad una nuova sede comunale bisogna attendere ancora più di un secolo. Non la ristrutturazione di quella ormai necessaria da secoli, ma una nuova sede da farsi nel Palazzo Casati il cui acquisto fu deliberato dal Consiglio Comunale il 1 marzo 1908. 94ASCMR, Deliberazioni del Consiglio Comunale (1896-1908).
    Il palazzo era denominato anche “filanda”, per avervi ospitato una “filanda da seta” che viene ricordata nel 1830. 95ASCMR, Consigli (1829-1839), P. 86, 28 agosto 1830.L’acquisto era finalizzato ad utilizzare l’ex-Palazzo Casati per scuole, uffici comunali e alloggi. 96ASCMR, Deliberazioni Consigliari (1909-1912) p. 105, 26 novembre 1911. ASCMR, Deliberazioni Consigliari (1912-1915), p. 156,25 aprile 1915.Come in passato, non fu facile realizzare il tutto in breve tempo, ci vollero alcuni decenni, alla fine degli anni Venti i lavori presero un avvio più deciso: il palazzo fu inaugurato il 28 ottobre 1931, nel 1935 fu effettuato il collaudo definitivo. 97ASCMR, Deliberazioni (1930-1932), p. 19, 10 aprile 1930 e pp. 72-73, 20 aprile 1931. ASCMR, Deliberazioni (1935-1936), n. 170 del 12 ottobre 1935, p. 31.
    Reso inagibile per il terremoto del 26 settembre 1997, l’intero complesso edilizio è stato ristrutturato e restaurato secondo il progetto dell’ing. Emilio Zannotti di Serra de’ Conti ed inaugurato il 19 ottobre 2002. 98Cfr., Inaugurazione della restaurata sede municipale,Monte Roberto 19 ottobre 2002,cartella con 4 tavole,presentazione del Sindaco O.Togni e R.Ceccarelli.

  • 93 4.5 IL TEATRO COMUNALE

    93 4.5 IL TEATRO COMUNALE


    I balli erano certamente più godibili ad una fascia più grande della popolazione: un gradimento che la pubblica amministrazione cercava di esaudire. Nel 1797, non sappiamo se nella sala consiliare o in chiesa, fu rappresentata “La sposa de cantici”.
    Una sala teatrale stabile fu richiesta solo il 29 agosto 1816. La petizione di cittadini di Monte Roberto e di Castelbellino fu portata in Consiglio Comunale: “I signori possidenti di Monteroberto e di Castelbellino con la loro istanza supplicano questa Municipalità, e Consiglio di voler loro accordare la facoltà di formare una ringhiera mobile nell’interno della sala pubblica di questo Comune dividendola in circa tredici palchi scoperti di loro ragione, a riserva di quello di mezzo, che rimarrà a disposizione della publica rappresentanza del Comune, e di permettere ad essi, che nel vano di fronte alla sala accennata non peranche rifinito, possano adattarvi un piccolo teatrino affinché in tempo di carnevale, ed in altre ricorrenze fra l’anno possa eseguirvisi una qualche rappresentazione per sollievo di questa popolazione”.102Consigli (1809-1827), pp. 68-69.
    L’incarico di allestire la sala venne dato al Sig. Serafino Salviati che accettò nella seduta del 29 agosto.

    Il paese non si poteva permettere “la costruzione di un vero e proprio edificio teatrale, di conseguenza non si fa altro che rendere definitiva la precedente consuetudine: al posto degli scenari improvvisati si costruisce il palco e le panche vengono sostituite da un duplice ordine di posti”.103D’Incecco, P. Diotallevi, M. Scoccianti, Il Teatro di Monte Roberto, in L’architettura teatrale delle Marche, Cassa di Risparmio di Jesi, Jesi 1983, p. 381

    I lavori furono eseguiti contestualmente al riassetto del palazzo comunale secondo il progetto di Luigi Bellonci e furono fatti con una certa sollecitudine se già nel 1821 si ha notizia che “in quel teatro agiscono i comici dilettanti del luogo in unione a quelli Castelbellino”.104 Ibidem
    La sala teatrale ospitava anche tombole e balli spesso organizzati dall’impresario in occasione degli spettacoli, per lo più in tempo di carnevale per finanziarsi e finanziare le compagnie.


    “Il primo progetto, modificato durante il restauro avvenuto intorno al 1920 […] presentava al piano terra un sistema di palchetti in legno incastrati fra le colonnine porgenti verso la sala, usata anche per riunioni comunali. Le colonne erano in mattoni sagomati rivestiti da listelli di legno dipinto ed in seguito sostituite da colonnine in legno di evidente produzione artigianale. Il ballatoio sovrastante era ed è tuttora suddiviso in palchetti scoperti seconda la richiesta formulata ed approvata nell’agosto del 1816”.105ivi, p. 383.

    Proprietari dei palchi e del palcoscenico erano i condomini che avevano affrontato la spesa iniziale, i loro eredi o quanti successivamente ne erano entrati in possesso, il fabbricato invece rimaneva di proprietà comunale.106ASCMR, Deliberazioni Consigliari (1909-1912), p. 25. 17 aprile 1910.
    Le compagnie che si succedevano ogni anno nel teatro non erano certo quelle che calcavano teatri più grandi di città più ricche come Jesi, Ancona, Senigallia ecc., erano compatibili comunque agli spazi di un piccolo teatro come quello di Monte Roberto o di Massaccio, e di in volta in volta chiedevano anche la collaborazione di attori comici dilettanti” del luogo.

    La presenza di un teatro aveva stimolato già dall’inizio la formazione di una filodrammatica tra Monte Roberto e Castelbellino che offriva spettacoli in proprio e coadiuvava con singoli attori le compagnie di passaggio.
    Così Francesco Amatori, Zibina Zepparoni, Odoardo Nicodemi, Vincenzo Barocci, Giovanni ed Eugenia Moretti, Carmela Franconi e altri recitarono con la “coppia drammatica” Giuseppe e Regina Paronzini nel mese di novembre 1877 nel mandare in scena “Santa Genevieffa Duchessa di Treveri ovvero La caduta del feroce e terribile Golo” domenica 4, “La statua di carne” domenica 11 e “Maria Giovanna o La famiglia del beone” domenica 25, “prezzo d’ingresso Cent. 10 più la generosità”. 107D’Incecco, P. Diotallevi, M. Scoccianti, Il Teatro di Monte Roberto, cit., pp. 385-386.
    Il teatro con le rappresentazioni, i balli o le tombole, fino in tempi recenti,
    ha avuto un ruolo centrale nella vita della non grande comunità di Monte Roberto, costituiva infatti una delle poche occasioni di divertimento e di svago per una popolazione prevalentemente impegnata nei lavori artigianali e dei campi.

    Presso il teatro fino alla metà degli anni Cinquanta del Novecento ha operato una filodrammatica che ha portato in scena lavori di un certo impegno e che venivano dati oltre che a Monte Roberto anche a Staffoto. Apiro ecc. Ad es. negli anni che precedettero la seconda guerra ondiale, la filodrammatica di Monte Roberto rappresentò a Staffolo “Luce che torna” di Riccardo Melani con Enrico Gabbianelli, Augusto Lucarini, Fernando Bastucci, Cristina Crudi, Iris Crudi, Pietro Crudi, Valentina Mancini ed Icilio Priori, regista ed animatore del gruppo era Enrico Gabbianelli. In quel periodo fu rappresentato anche “Le bocche inutili”, dramma in tre atti di Annie Vivanti.
    La “Società carnevalesca” per la sera di S. Silvestro, patrono del paese, fino agli anni Cinquanta organizzava nel teatro la recita di una commedia cui seguiva il ballo di fine anno.

    File:Teatro Comunale di Monte Roberto.jpg


    Successivamente la sala teatrale conobbe un notevole degrado specie nelle decorazioni, fino a diventare, negli anni Settanta, una laboratorio di confezioni della Ditta “Faber 76” di Terzo Garbuglia di Filottrano.

  • 99 5.1. NELLE VICENDE DEL CONTADO

    99 5.1. NELLE VICENDE DEL CONTADO

    Dagli inizi del Duecento il territorio di Monte Roberto, unito ancora a quello di Morro Panicale (Castelbellino), comincia a far parte del Contado di Jesi. L’atto di sottomissione del conte Trasmondo di Morro Panicale del 1194 segna, possiamo dire, la data ufficiale della nascita di una aggregazione politica e amministrativa, poi ampliatasi, continuata per oltre sei secoli.
    Monte Roberto, divenuto castello autonomo da Castelbellino a cavallo tra il Duecento e il Trecento, ebbe un ruolo “marginale nello svolgimento delle vicende del Contado, ne ha seguito la storia, venture e sventure”.1Urieli C., Jesi e il suo Contado, vol. I, tomo I, p. 234.  
    Le lotte tra guelfi e ghibellini che a Jesi si susseguivano non interessarono politicamente se non in maniera subordinata questi piccoli castelli, si debbono però proprio a questi contrasti sia il consolidarsi come strutture fortificate di Castelbellino e di Monte Roberto, sia l’acquisto nel loro territorio di ampie proprietà da parte di esponenti dei partiti egemoni in Jesi.
    Esuli ghibellini da Jesi restaurarono il castello di Morro Panicale che si chiamò poi “castrum Ghibellini” (Castelbellino), 2Menicucci F., Memorie… Massaccio, p. 51. analoga sorte ebbe con tutta probabilità anche il vicino castello di Monte Roberto nel cui territorio, nei decenni successivi, la famiglia Simonetti di osservanza guelfa, venne in possesso di numerose proprietà fondiarie.
    Con lo stabilirsi del papa in Avignone nel 1309 (dove resterà fino al 1376 per ritornare a Roma nel gennaio 1377) la situazione dell’Italia diventò ancor più instabile e caotica; in Jesi e Contado si succedettero le signorie di Tano Baligani, Lomo Simonetti, Nicolò Boscareto e dei Malatesti, un alternarsi di guelfi e ghibellini che in poco si distinguevano ed in molto si uguagliavano in violenze, distruzioni, soprusi, assassini, crudeltà: una situazione veramente tragica.
    L’intero Contado fu poi tra il 1353 e il 1354 in balia delle truppe raccogliticce della “compagnia maledicta” di un avventuriero di origine provenzale Montreal di Albarno, soprannominato fra Moriale.
    Nel 1355 il card. Egidio Albornoz, inviato dal papa, incomincia la riconquista della Marca e la iorganizzazione dell’intero Stato della Chiesa. Nella “Descriptio marchiae”, in cui si fissano le competenze giurisdizionali e territoriali delle varie città e relativi contadi, l’Albornoz, nel territorio di Jesi tra gli altri castelli e ville, enumera “Castrum Gebellini” e “Castrum Montis Giberti”, evidentemente Castelbellino e Monte Roberto.
    Dal 1375 circa i Simonetti ritornarono ad essere i signori assoluti di Jesi, nel 1397 ricevono l’investitura ufficiale di Vicari del Papa, si comportano comunque da tiranni crudeli e rapaci; contro di essi una ribellione iniziata da Massaccio nel febbraio  1408 ed estesasi a tutto il Contado riesce a cacciarli definitivamente. I beni della famiglia confiscati nel 1417 vengono    messi in vendita nel 1453: la comunità   di Monte Roberto viene così in possesso delle proprietà dei Simonetti poste nel proprio territorio, esse hanno costituito la parte più importante delle proprietà fondiarie del Comune    protrattasi per secoli, alcune delle quali imaste fino al secolo scorso. 3 Per una più ampia e dettagliata trattazione di questo periodo, cfr. Urieli C., Jesi e il suo Contado, vol. II.  


  • 100 5.2. IL PALLIO SI SAN FLORIANO

    100 5.2. IL PALLIO SI SAN FLORIANO

    Antichissimi sono a Jesi il culto e la festa di S. Floriano che si celebrava, come oggi, il 4 maggio.  Patrono del Comune   e del Contado, l’omaggio al santo divenne un segno della “devozione” al Comune stesso: già nel 1194 nell’atto di sottomissione    al Comune    di Jesi, Trasmondo   conte di Morro    Panicale (Castelbellino), tra gli altri obblighi, assunse quello di pagare ogni anno tre libbre di cera nella festa di S. Floriano.    Comunque    l’atto che significava e qualificava maggiormente    la volontà di dominio di Jesi sui castelli del contado era la presentazione dei pallini, nel giorno della festa del santo, simbolo della “soggezione fedeltà et obbedienza” dei castelli alla città. 4Ivi, p. 367.   L’atto indubbiamente rappresentava “la sanzione più inconcussa dei diritti e delle prerogative del Comune”. 5Gianandrea A., Festa di San Floriano Martire, G Aurelj, Ancona 1878, p. 13.  
    “Il pallio era di seta e di vari colori, rosso, nero, verde, giallo, d’oro […] a tinta unita o decorato di rose, fiori ecc. Sospeso ad un’asta o lancia veniva portato […] da   uomo a cavallo. Nel periodo più antico vi si accompagnava anche un’offerta di cera. E l’obbligo della presentazione era così categorico che, se non vi si fosse ottemperato   dagli aventi obbligo, nello stesso giorno o nel seguente l’esercito jesino sarebbe andato contro i “non portantes”. 6Annibaldi G, Esame testimoniale nella causa circa i rapporti tra Jesi e Staffolo dalla morte di   Federico II e quella di Manfredi, in Atti del Convegno di Studi su Federico II (Jesi 28-29 maggio1968), Jesi 1976, p. 167. Il testo che riguarda il Pallio di S. Floriano (pp. 167-170) è   stato ripresentato su Voce della Vallesina n. 16 del I maggio 1994, p. 3.
    Potevano esserci anche sanzioni economiche, proibendo cioè a tutto il Contado di commerciare derrate alimentari con i castelli che si erano rifiutati di portare il pallio: chi contravveniva all’ordine era processato e condannato.
    Il processo e condanna che subirono due donne di Rosora il 20 luglio 1357 per aver venduto formaggio   a Serra San Quirico che non   aveva presentato il pallio il 4 maggio dell’anno prima, contravvenendo così alle disposizioni del Consiglio Generale del Comune   di Jesi prese il 10 luglio 1356, sono emblematici. 7Urieli C., Jesi e il Contado, vol. I, tomo II, p. 307.
    Ogni anno il Consiglio della Comunità di ogni castello, in una seduta precedente la festa di S. Floriano, provvedeva a nominare un deputato o delegato che prendesse parte alla cerimonia della presentazione dei pallii a Jesi. Il Comune e sua volta provvedeva    a determinare il valore del pallio da    presentare proporzionato all’importanza del castello e al numero delle famiglie. Per Monte Roberto il valore del pallio, stabilito il 5 maggio 1453, era di 20 bolognini insieme a Maiolati, San Marcello    e Monsano; 25 bolognini   doveva valere il pallio di   Massaccio, Montecarotto, Poggio S. Marcello e Belvedere mentre 15 bolognini   il pallio di Castelplanio, Rosora, San Paolo, Castelbellino, Poggio   Cupro e Scisciano. 8Gianandrea A., op.cit., p.14.  
    La presentazione dei pallii avveniva   dopo un corteo allietato da numerosi suonatori che si concludeva con una solenne cerimonia in piazza San Floriano (oggi Federico II). Seguivano la corsa all’anello e, dal 1453 la gara di tiro a segno con la balestra. La decisione per quest’ultima fu presa dal Consiglio di Credenza di Jesi il 28 aprile 1453 e tra i priori che ebbero la responsabilità di dare esecuzione alla delibera, troviamo Giovanni Brenchi da   Monte Roberto, estratto il 22 aprile per il bimestre maggio-giugno   insieme a Galvano di Antonio   Galvani e Francesco di Massimo   da Poggio S. Marcello e al Gonfaloniere Corrado di Giovanni Manuzio. 9ivi, pp. 20-21.
    La festa di S. Floriano con il relativo pallio da presentare fu per secoli “una dimostrazione della superiorità politico-amministrativa della Città sul Contado”, a questo si deve aggiungere che, quale “segno di recognition di dominio e di sogezione”, il Consiglio Generale di Città e Contado l’11 giugno 1504 deliberava di far scolpire sulle porte dei castelli lo stemma del   Comune di Jesi. 10Urieli C. Jesi e il suo Contado, vol. II, p. 367.   Ecco perché anche oggi lo stemma di Monte Roberto e degli altri comuni della Vallesina, ha come   immagine fondamentale il leone rampante   dello stemma di Jesi.  Se nella presentazione dei pallii fu preminente il carattere di sudditanza dei castelli di Jesi con odiose quanto ridicole discriminazioni e sopraffazioni fiscali, in essa era anche insito, come è stato giustamente sottolineato, un atto di devozione al patrono con una festa   comune che   serviva per cementare   sempre più negli animi la concordia e la vera fratellanza dei cittadini di tutto lo Stato jesino 11Annibaldi G., op. cit., p. 171 e Feltrini Giovanni Maria, Belvedere Ostrense. Ricerche storiche, Tip. Fiori, Jesi 1932; ristampa, Chiaravalle 1983, p. 33.   Urieli C., San Marcello, Jesi 1984, pp. 163-164.   Sospesa   durante il “triennio giacobino” (1797-1799), la cerimonia della presentazione del Pallio viene   successivamente ripresa, anche se la contestazione dei castelli nei confronti della città si fa sempre più evidente. Diversi di essi infatti non si presentano il 4 maggio o lo fanno con qualche   giorno di ritardo evidenziando lo stato di insofferenza nei rapporti tra città e contado. Per quanto riguarda Monte Roberto, tra il 1801 e il 1807, il registro dei Consigli della Comunità, a differenza di una prassi amministrativa secolare, riporta il nome del “deputato’ alla presentazione del pallio solo per il 1801: fu Giuseppe Bimbo, nominato il 26 aprile per la cerimonia del 4 maggio, il suo è l’ultimo nominativo conosciuto. 12ASCMR, Consigli (1794-1808), c. 88v. Negli anni successivi Monte   Roberto si presenta, ma non   sempre con puntualità: nel 1805 lo fece il 5 maggio insieme a Scisciano e Massaccio, nel 1806 di nuovo il 5 maggio insieme a San Paolo, Belvedere, Poggio Cupro, Monsano, Rosora e Rotorscio. Il 4 maggio 1807 si tenne l’ultima cerimonia della presentazione del pallio, presenti Monte Roberto e quasi tutti gli altri castelli: Rosora si presentò il 13 successivo, mentre Massaccio si rifiutò decisamente di andare. 13Urieli C., Jesi e il suo Contado, vol. IV, pp. 724-725.  
    Il 2 aprile 1808, con decreto imperiale, Napoleone, annetteva le provincie di Urbino, Macerata e Camerino al Regno d’Italia, veniva così definitivamente sciolto il Contado di Jesi sanzionando la fine dell’organizzazione politico-amministrativa della Vallesina operante dal sec. XIII. Il possesso formale delle nuove provincie avvenne l’11 maggio; il 25 aprile, Jesi aveva diramato l’invito ai castelli per il Consiglio di Città e Contado e per “prestare il solito giuramento” previsti per il 4 maggio: non si ha la relazione ufficiale della riunione e della cerimonia, comunque quel giorno “venne   definitivamente ammainato   il Pallio […] simbolo della pagina  più gloriosa della storia della Vallesina”. 14Ivi, p. 729.

  • 103 5.3. LO STATUTO

    103 5.3. LO STATUTO

    Monte Roberto, al pari degli altri castelli del contado, non ebbe mai uno statuto oroprio: le procedure per la pubblica amministrazione, diritti e doveri dei cittadini, sanzioni, leggi e norme giuridiche erano contenuti negli Statuti della Città di Jesi.
    A Jesi già nel 1248 era stata riconosciuta la capacità di emanare norme specifiche e particolari (“statuta”) nel contesto della legislazione dello Stato della Chiesa, valevoli per la città e per i castelli ad essa soggetti impedendo inoltre a questi ultimi di prendere analoga iniziativa.15Urieli Jesi e il suo Contado, vol. II, pp. 2707271.
    Notizie su un ipotetico Statuto di Monte Roberto, senza alcun fondamento, sono state più volte pubblicate, come ad esempio in Atlante Marchigiano, a cura di Mauro Tedeschini, Ed. Il Resto del Carlino, Bologna 1992, p. 98.

    Non conosciamo il testo dei primi statuti jesini del Duecento, né quello delle successive revisioni operate nel Trecento per renderli conformi alle riforme legislative fatte dal card. Albornoz; il testo a noi giunto è quello messo a punto, tra il 1449 e il 1450, su delibera del Consiglio Generale della Città e Contado del 26 febbraio 1448, da Ser Angelo Colocci e Antonio di Angelo di Jesi, da Stefanodi Onofrio di Massaccio e da Ser Domenico di Bartolo di Castel del Piano.
    Per la prima volta gli statuti vennero dati alle stampe nel 1516 ad opera di Girolamo Soncini tipografo di Fano. Una seconda edizione uscì nel gennaio 1561 dalla tipografia di Luca Bini di Macerata: la Comunità di Monte Roberto ne prenota una copia già nel mese di maggio-giugno 1560: “Havemo speso per lo statuto f[iorini]”, la cifra non è specificata, evidentemente non se ne conosceva ancora l’esatto importo.16ASCMR, Entrate e Uscite (1558-1586), c. 29v.
    Alle norme contenute negli statuti che regolamentavano dettagliatamente la vita amministrativa della comunità e quella dei cittadini, si debbono aggiungere gli editti e i bandi che emanavano per tutto lo Stato della Chiesa i Pontefici o i responsabili delle vare congregazioni romane, i Governatori di Jesi per la città e contado o per i singoli castelli, o i Priori oil Gonfaloniere per la singola comunità.
    Gli editti e i bandi del Governatore o del Gonfaloniere calavano in concreto le norme più generali, ricordavano quelle degli statuti o rispondevano a problemi contingenti e specifici: nonostante le pene o le ammende previste, la riproposizione periodica degli stessi editti e bandi fa intravvedere una loro osservanza quanto meno poco puntuale e generalizzata.

  • 104 5.4. I FRATICELLI IN VALLESINA

    104 5.4. I FRATICELLI IN VALLESINA

    Nel 1466 durante l’ultimo processo tenuto a Roma contro i Fraticelli, Francesco da Maiolati racconta che i ragazzi sia di Monte Roberto che di Castelplanio erano soliti insultarsi dicendo: “Tu sei nato dal barilotto” e a vicenda tirarsi delle pietre.
    Non era affatto un complimento quello che si rivolgevano, facevano infatti riferimento ad un rito attribuito ai Fraticelli (unione sessuale promiscua e sacrificio rituale dei bambini concepiti in quelle occasioni) da diversi decenni presenti in Vallesina, specialmente nei castelli di Massaccio (Cupramontana) Maiolati, Mergo, Poggio Cupro, Belvedere, Castelbellino.
    Il rito, “barilotto”, “barilozza” o “barlozza”, richiamava “il barlozzo”, il rudere del serbatoio dell’acquedotto romano che riforniva l’antica Cupra Montana e al cui interno la tradizione collocava la celebrazione del rito stesso o quanto meno da quel luogo traeva nome.
    I Fraticelli, chiamati anche “Frati della povera vita”, “Bizzocchi” o `Beghini”, o anche “Fraticelli dell’opinione”, erano francescani spirituali che ritenevano la povertà sull’esempio di San Francesco d’Assisi, condizione assoluta per essere cristiani e per essere nella vera Chiesa: erano quindi “dell’opinione” che il papa Giovanni XXII (1316-1334) ed i successori avessero insegnato eresia in merito alla povertà di Cristo e degli Apostoli.
    Si ritenevano, essi soli, di formare la vera Chiesa e rifiutavano di esser chiamati eretici. Non accettando la giurisdizione dei pontefici, furono da questi perseguitati. Il loro movimento si diffuse in Italia, in Sicilia, in Provenza, in Grecia e perfino in Persia e tracce se ne trovano in Boemia e in Catalogna.
    In Italia la loro presenza fu particolarmente attiva dal 1317 al 1466, favorita dall’assenza del papa dall’Italia (era in Avignone), dalle controversie dei comuni con la Chiesa e dallo scisma d’Occidente (1378-1417). Tutta l’Italia Centrale, Lazio, Toscana e Umbria, e le Marche, in special modo la Vallesina, furono interessate alla loro attività. Proprio nelle Marche la setta dei fraticelli aveva avuto la sua origine ed il suo centro d’irradiazione, nata com’era dalla dissidenza di fra Angelo Clareno (Angelo da Chiarino, Recanati o Fossombrone), morto nel 1337.
    Nelle Marche si fanno notare nel secondo decennio del Quattrocento dopo il silenzio del periodo dello scisma, durante il quale, negatori dell’autorità della Chiesa qual’erano, si trovarono indirettamente protetti: solo di due processi, dal 1367 al 1420, ci è giunta memoria. Vengono di nuovo presi di mira nel contesto deIla riaffermazione dell’autorità del papa sulle città della regione: arresti, confisca dei beni, condanne pecuniarie, esecuzioni per traditori e ribelli.
    La lotta contro i Fraticelli è condotta dall’inquisitore, il francescano Giovanni da Capestrano, affiancato dal confratello Giacomo della Marca, l’autore, qualche decennio più tardi, del “Diaologus contra Fraticellos”, un documento che ne metterà in forse, agli inizi del Settecento, la proclamazione a santo.
    Nel giugno 1428 papa Martino V ordinava al Rettore della Marca, Astorgio degli Agnesi vescovo di Ancona, la distruzione del castello di Maiolati: un’azione punitiva che doveva servire come esempio e deterrente per gli eretici degli altri castelli. Maiolati fu così rasa al suolo ed i superstiti si rifugiarono nei paesi vicini, solo dopo due anni fu permesso di ricostruire, e dopo precise garanzie, il piccolo centro, senza però le mura, realizzate più tardi. Perché proprio Maiolati? Quasi certamente perché a Maiolati la setta dei Fraticelli aveva un più largo numero di aderenti con una loro chiesa ed una loro organizzazione gerarchica.
    Ai Fraticelli, che lo fecero forse per vendetta, è imputato l’anno dopo, nel 1429, l’uccisione del Beato Angelo da Massaccio, monaco nel vicino monastero camaldolese di S. Maria in Serra.
    Nonostante la dura persecuzione subita, i Fraticelli, negli anni Quaranta, tornarono a farsi vivi a Massaccio, Maiolati, Poggio Cupro, Mergo, Jesi e Belvedere: nel 1449 a Fabriano nel mese di novembre-dicembre vengono condannati al rogo e giustiziati una decina di Fraticelli.
    Nei centocinquant’anni che durò la repressione contro di loro, vi furono nell’Italia centrale, a carico di Fraticelli da essa provenienti 32 processi; la documentazione rimastaci è frammentaria e scarsa, la quasi totalità degli atti processuali è andata perduta. Rimangono una cinquantina di “bolle” papali e quanto mio scritto su di loro, i “vincitori” o coloro che hanno raccolto dicerie e voci.
    Nel processo del 1466 che vide imputati tra gli altri Francesco Tommaso di Angelo da Maiolati, Gaspare da Mergo e Nicola da Massaccio, non sembra siano seguite esecuzioni capitali.
    A Monte Roberto, vicinissimo a Maiolati, non erano sconosciute queste vicende tanto che si può ipotizzare una presenza dei Fraticelli in paese o nel suo territorio, considerato che anche Castelbellino non ne fu immune: ad aderenti alla setta dimoranti in Castelbellino furono confiscati dei beni nel 1425.
    Quella del processo del 1466 fu l’ultima apparizione dei Fraticelli che la storia ricordi.
    Il capitolo del fraticellismo e della sua repressione non fu proprio esaltante: alle originarie e nobili istanze, quali quella della povertà si frammischiarono momenti di miseria: non tutti gli storici però sono disposti ad accettare le testimonianze relative alle degenerazioni morali dei Fraticelli.
    Discutibile la loro eresia, anche se agli occhi dei contemporanei era tale: erano questioni più di disciplina che di ortodossia. La loro persecuzione fu determinata più da una situazione politica che religiosa: le deviazioni religiose servivano a combattere con più successo gli avversari, il discredito morale era poi il sigillo di tutta l’operazione.17Per tutta la questione relativa ai Fraticelli: Urieli C., Jesi e suo Contado, vol. II, pp. 21-225. Mariano d’Alatri, Fraticellismo e inquisizione nell’Italia Centrale, in Picenum Seraphicum, anno XI, 1974, pp. 289-314. Annibaldi G., L’azione repressiva di Martino V contro i ribelli difesi ed i Fraticelli di Maiolati, Massaccio e Mergo, in Picenum Seraphicum, anno XI, 1974, pp. 405-430. Villani V., La vicenda dei “Fraticelli”, in V. Villani, C. Vernelli, R. Giacomini, Maiolati Spontini Vicende storiche di un castello della Vallesina, Maiolati Spontini 1990, pp. 205-258.
    Basili Orietta, La religiosità popolare nell’Italia Centrale durante il Medioevo: il movimento dei Fraticelli nelle Marche dei secc. XIII-XV Tesi di Laurea, Università di Bologna, anno accademico 1991-1992.
    Accrocca Felice, Angelo Clareno. Seguire Cristo povero e crocifisso, Ed. Messaggero, Padova Ceccarelli Riccardo, a cura di, I “Fraticelli” santi o eretici?, Atti del Convegno, Cupra Montana 3 ottobre 1997, Cupra Montana 1998.
    Grégoire Réginald, a cura di, I “Fraticelli” di Maiolati: società ed eresia nel tardo medioevo, Prima giornata di studio, Maiolati Spontini 5 novembre 2005, Comune di Maiolati Spontini

  • 106 5.5. 1517:IL SACCHEGGIO DI FRANCESCO MARIA DELLA ROVERERE

    106 5.5. 1517:IL SACCHEGGIO DI FRANCESCO MARIA DELLA ROVERERE

    Jesi ed il Contado nei primi anni del Cinquecento    dovettero subire il   dominio di Cesare Borgia, il Duca Valentino.  Con la morte di papa Alessandro    VI (1503) e la rovina del Duca, si ristabilì in maniera diretta l’autorità del governo   papale: l’occupazione militare fu sopportata   specialmente dalle popolazioni   dei castelli. Poco   più tardi di un decennio, Jesi e tutti i castelli della Vallesina pagarono   un prezzo più alto nel corso della campagna   di riconquista delle terre della Marca da parte di Francesco Maria della Rovere, Duca    di Urbino.
    Il saccheggio   avvenne nel mese di giugno   1517, Jesi fu la più danneggiata, incendiati un quartiere di Massaccio e il castello di Castelbellino (si salvarono solo 11 case), 18Menicucci F., Memorie…Massaccio…. p. 131. danni notevoli   subirono i castelli di Maiolati, Monte   Roberto Castelbellino, Poggio Cupro, Scisciano, Rosora Castelplanio, Montecarotto, Belvedere, Morro    e Monsano.   
    In particolare oltre alla distruzione e agli incendi, agli abitanti di Castelbellino furono sottratte 115 some di grano e 846 porci vivi; agli abitanti di Monte Roberto 393   some di grano, 119 some d’orzo e 23 porci vivi. 19Urieli C., Jesi e il suo Contado, vol. III, p. 77 e per tutto il periodo pp. 31-79.
    Il Sacco di Jesi e del Contado può dirsi l’ultima vera azione bellica subita dalterritorio di Jesi; occorre giungere all’invasione delle truppe francesi del 1797 e anni seguenti, e più ancora, al passaggio del fronte nel 1944 per riscontrare ancora una guerra guerreggiata nella Vallesina.
    Ciò non significa affatto che Jesi ed il suo territorio siano rimasti indenni da vicende di guerra, e soprattutto da passaggi e stanziamenti di soldati di vari eserciti, da quello papale ad altri delle più svariate nazioni che dell’Italia, per secoli, hanno fatto il loro preferito campo di battaglia. Eserciti, alleati o avversari, tutti passavano su queste terre con le stesse modalità di violenza e di rapina”. 20Ivi, p .61.

  • 107 5.6. ORGANIZZAZIONE AMMINISTRATIVA

    107 5.6. ORGANIZZAZIONE AMMINISTRATIVA

    Monte Roberto, al pari degli altri castelli del contado, nell’ambito degli statuti, era governato da un Consiglio che era il “supremo organo deliberante della comunità”.
    A livello comunitario, per il Contado cioè, c’erano due organi collegiali: il Consiglio Generale di Città e Contado e il Consiglio di Credenza di Città e Contado, composto il primo da rappresentanti della città, e dei castelli in numero quest’ultimi a seconda dell’importanza della comunità rappresentata, mentre il secondo era paritetico, 15 membri della città e 15 del contado.
    Il “Maestrato” o “Priorato”, l’organo esecutivo, era composto da sei priori estratti ogni bimestre, tre della città facenti parte del grado nobiliare, tra i quali ogni venti giorni a turno ci si scambiava la carica suprema di “gonfaloniere”, e tre priori del contado con poteri molto ridotti .
    Due analoghi consigli, Consiglio generale di Città e Consiglio di Credenza di Città, amministravano gli affari di Jesi. Anche Massaccio, come Jesi, aveva un Consiglio Generale e un Consiglio di Credenza.21Menicucci F., Massaccio nel 1789, in appendice a Dottori D., Cupra Montana e i suoi figli
    più noti, Cupra Montana 1983, p. 130.

  • 108 5.6A. IL CONSIGLIO DI MONTE ROBERTO

    108 5.6A. IL CONSIGLIO DI MONTE ROBERTO

    Il Consiglio della Comunità di Monte Roberto era formato da 24 membri; il numero dei componenti il consiglio variava da castello a castello, senza avere un rapporto diretto con l’entità demografica del castello stesso. Nel Settecento, ad esempio, Castelplanio ne aveva 44, 36 S. Marcello, 30 Belvedere e Montecarotto, 24 Massaccio, Rosora, San Paolo, Maiolati, Morro, Castelbellino e, come abbiamo visto, Monte Roberto.
    Si entrava a far parte del consiglio per diritto ereditario o per cooptazione: 22Molinelli R., Città e Contado nella marca Pontificia in età moderna, Urbino 1984, pp. 99-109. quando un consigliere moriva e non aveva eredi, il consiglio era chiamato a scegliere tra i nominativi delle famiglie maggiorenti della comunità per titoli e proprietà che ne avevano fatto richiesta.
    Una prassi secolare: il consiglio così strutturato aveva sostituito l’assemblea dei capi famiglia e del popolo che nel Medioevo veniva ascoltata per gestire le cose della comunità e del castello.
    Solo nel corso dell’Ottocento, l’ereditarietà, come diritto, venne a mancare; essa comunque era stata ribadita, concluso il “triennio giacobino”(1797-1799) con il ritorno del Governo Pontificio garantito dagli Austriaci, nella seduta del Consiglio della Comunità di Monte Roberto del 17 gennaio 1800: “Le cariche di magistrato – si disse – non possono né vendersi né rinunciarsi avendovi diritto tutti gli eredi”. 23ASCMR, Consigli (1794-1808), cc. 53v-54r.
    Fu questa ereditarietà della carica di consigliere che permise per secoli ad alcune famiglie di avere sempre un rappresentante nella gestione del potere amministrativo. Cambiarono regimi (da pontificio a francese, di nuovo pontificio, napoleonico, pontificio ancora, repubblicano e poi monarchico), si fecero elezioni ma alcune di queste famiglie rimasero sempre: Amatori, Olivieri, Capitelli, Annibaldi, Tesei, Baldelli, Nicodemi, Moretti, Salvati, Guglielmi ecc.
    Numericamente dai 24 consiglieri dei Sei/Settecento si passò al Consiglio della Municipalità del 1797-1799 formato da 5 “municipalisti” compreso il presidente. Dopo il 1808 con l’unificazione di Monte Roberto, Castelbellino e San Paolo, il Consiglio è così composto, il sindaco, due anziani di Monte Roberto e 5 consiglieri rispettivamente per Monte Roberto, per Castelbellino e per S. Paolo.
    Sedici consiglieri formavano il Consiglio del 1829 compresi il priore e due aggiunti; venti erano del 1839 più il priore e 4 anziani. Nel periodo della Repubblica Romana (1849) gli eletti del popolo alla Pubblica Rappresentanza furono 13 compresi il priore e 2 anziani.
    La successiva Commissione Comunale provvisoria era composta da 4 membri; sedici invece erano i componenti del nuovo Consiglio della Comunità dal 1851 al 1859. Con l’unificazione dell’Italia, il primo Consiglio Comunale di 15 membri fu eletto il 3 gennaio 1861, numero rimasto fino al presente. 24cfr. Appendice, n. 14.
    Annunciato sul far della sera del giorno precedente (“Congregato […] Consilio […] bandito hen vesperi pro hodie”) dal balivo e al suono della campana civica (“et pulsata campana more solito”), 25 ASCMR, Consigli (1608-1616), c. 73v, 23 marzo 1612.il Consiglio si riuniva con un preciso ordine del giorno (“propositiones”) illustrato in ogni singolo punto da un relatore non senza aver pubblicamente premesso uno specifico giuramento. Seguivano la discussione e la votazione a “viva voce” o segreta con le palle del “si” e le palle del “no” messe in un apposito “bossolo”, e la eventuale nomina di specifici “deputati” che seguissero la realizzazione di quanto deliberato.
    Tra gli impegni più importanti cui era chiamato a discutere il Consiglio c’erano la “Tabella”, cioè il bilancio annuale delle entrate e delle uscite, e la nomina o la riconferma, da farsi prima del 13 dicembre, di ogni anno, del segretario, del medico, del maestro di scuola, del chirurgo, del postiglione, del moderatore dell’orologio, del balivo o cursore comunale.
    Preoccupavano spesso e molto i problemi relativi alla pubblica viabilità e quelli relativi al quotidiano dei cittadini (il forno, il macello, il grano, specie per le famiglie più povere). Faceva parte dei problemi affrontati in Consiglio anche la gestione-affitto delle proprietà fondiarie della comunità. 26Le proprietà erano in contrada Catalano, Forsaneto, Avolante, S. Silvestro e contrada Spina sulla sinistra del fiume Esino; di tutte, oltre la metà del Settecento, venne fatta una pianta esposta nella sala del Consiglio (cfr. ASCMR, Consigli (1780-1793) c. 59r, 7 novembre 1784).
    Per ogni singolo problema, quando c’era da seguirlo con particolare attenzione, sì nominavano uno o più “deputati” che ne riferivano al Consiglio. Non mancavano i problemi, quelli di ordine fiscale nei confronti di Jesi ed anche quelli con le comunità limitrofe che i rispettivi rappresentanti discutevano periodicamente.
    Conosciamo ad es. di due incontri avvenuti ad Osteria di Castel del Piano (attuale Borgo Loreto di Castelplanio) il 23 gennaio e il 3 aprile 1571 tra i delegati di Massaccio, Maiolati, Monte Roberto, Castelbellino e San Paolo. A programmarli era stato Massaccio; nella lettera d’invito si diceva: “Se mai havemo havuto da conferire con voi cose importantissime hora più che mai habbiamo da ragionare assieme cose di grandissima importanza”. 27ASCC, Lettere diverse (1516-1599), lettere del 18 gennaio e del 1° aprile 1571.
    Per far rimanere il Consiglio sempre di 24 membri, anche quando un componente fosse venuto a morte o fosse stato impedito stabilmente di partecipare e non avesse avuto un erede o un figlio maggiorenne, si faceva ricorso al “bossolo degli spicciolati”, ad un’estrazione cioè di nomi di riserva messi in un apposito elenco per sopperire gli eventuali vuoti.
    A decidere comunque era il Consiglio. 11 21 dicembre 1609 si dovette affrontare il problema non perché ci fossero scranni vuoti tra i consiglieri ma unicamente perché c’erano state quattro domande per entrare nel bossolo degli spicciolati.
    “Atteso che ci siano state presentate quattro lettere da diversi che pretendono essere ammessi nel bossolo delli 24 overo nel bossolo deli spicciolati per i primi lochi vacanti”; il relatore propose di non estrarre alcun nominativo: “in modo nessuno si innovi più altro sopra agli spicciolati […] sin tanto che non saranno finiti di cavare quelli che stanno dentro il registro e che quando succederà la morte di persone che non haveranno legittimo successore, che a quel tempo della refetione del Bossolo quelli che haveranno volontà di essere aggregati nel numero delli 24 se faranno sentire, e allora il Consiglio cercarà di dare sodisfatione a
    quelli che non haveranno hauto Padre o Avo et facendo a questo modo che ho detto la Comunità resterà Padrona di gratificare a tutti Homini atti e meritevoli i quali che ci hanno hauto padre e Avo”. La proposta fu accettata con “16 palle del Si e 2 palle del No”. 28ASCMR, Consigli (1608-1616) cc. 52r/v.
    In genere era proprio nell’ultima seduta che il Consiglio teneva ogni anno che Si nominavano i “deputati” per procedere alla “refetione del Bussolo” da farsi nella prima seduta del nuovo anno, durante la quale, oltre ad esaminare ogni proposta di ammissione e votarla singolarmente, si rinnovavano gli incarichi per i “salariati” del comune: la data però del 13 dicembre prevista per queste scadenze era scivolata ai primi di gennaio.
    Il rifacimento annuale del “Bussolo di Regimento della Comunità” 29ASCMR, Consigli (1756-1766), c.60v. era anche l’occasione per la “solita ricreazione”, tutti i consiglieri cioè si ritrovavano a tavola per un pranzo. La spesa relativa era prevista in bilancio, “siccome [però] non è sufficiente secondo il solito”, è necessario “supplirvi colli regali dell’Affitti ed Enfiteusi ecc., conforme si è costumato nell’anni passati”. 30Ivi, c.144r, 21 dicembre 1760. Gli affittuari del forno, del macello e dei terreni della comunità, per questa riunione conviviale, non mancavano di consegnare delle regalie, previste del resto nei rispettivi capitolati di affitto.
    Ci si era dotati anche delle necessarie stoviglie e all’occorrenza il Consiglio era chiamato a decidere. Il 10 dicembre 1758, il relatore Nicodemo Nicodemi così espone il problema ai colleghi: “Stimo cosa necessaria il rifarsi la Tovaglia nuova da tavola per questa Comunità, per valersene nella solita ricreazione del Bussolo, ed altresì provvedersi li vasi necessari, piatti, ed altro, e perciò li Signori Quattro fare la spesa, che potrà occorrere. Ad effetto poi di ben conservarsi, e custodirsi detti utensili son di parere darsene la consegna al Deputato della ricreazione con inventano, e quello poi per suo scarico, dovrà riportarne ricevuto dal deputato successore per un altro anno; e per conservarsi detti utensili darsi al medesimo Deputato la chiave della credenza solita, ove si conservano gl’altri vasi di questa Comunità, che servono per la medesima ricreazione”. La proposta ebbe 9 voti favorevoli e solo uno contrario. “Deputati eletti per il Bussolo dalli Sig.ri Quattro, sono i sigg. Tenente Ridolfo Leoni, e Mattia Amatori”. 31Ivi, c. 86v.

  • 111 5.6B. I QUATTRO O QUADRERIA

    111 5.6B. I QUATTRO O QUADRERIA

    L’organo esecutivo era costituito dalli “Providi Homini dei Quattro di Regimento” (“Quatuor de Regimine o Regiminis”). Erano chiamati anche “Massari”; inizialmente il loro numero fu effettivamente di quattro32ASCMR, Trasatti (1529-1558), c. 151 v, 20 novembre 1536; c. 156v, 20 febbraio 1538. Statuta sive Sanctiones et Ordinamenta Aesinae Civitatis, Luca Bini, Macerata 1561, liber primus,rub. LI, c. 16r. e continuò fino alle prime decadi del Seicento;33ASCMR, Consigli (1608-1616), cc. 34v, 35r; nel primo bimestre ne troviamo tre (c. 53v, 10 gennaio 1610) per poi ritrovare quattro nei bimestri successivi (c. 59v ecc.) e a volte anche nel Settecento ne troviamo quattro (cfr. Consigli (1756-1766), c. 1r; c. 29r, 28 novembre 1756). nella seconda metà del secolo diventeranno tre 34 ASCMR, Consigli (1665-1676), c. 61r, 16 marzo 1610.mantenendo il nome de “I Quattro” o “Quatreria” giustificato non solo dalla tradizione e dagli statuti ma anche dalla presenza, non nuova peraltro, alle sedute consiliari e al governo del paese, del Capitano del Castello.35Urieli C., Jesi e it suo Contado, vol. III, p. 310.
    “I Quattro” erano estratti a sorte tra i consiglieri e duravano in carica un bimestre. Convocavano il Consiglio insieme al Capitano e li presiedevano. Avevano le competenze che oggi potrebbero essere attribuite al Sindaco e alla Giunta.
    Eseguivano quanto deliberato dal Consiglio. Nella chiesa parrocchiale di’ S.Silvestro avevano una panca riservata vicino all’altare maggiore chiamata “Arcibanca” 36ASCMR, Consigli (1608-1616), c. 61r, 16 marzo 1610. o anche “Banca del Magistrato”; quando si recavano in chiesa in forma ufficiale dovevano essere accompagnati dagli altri ufficiali del Comune: il segretario, il maestro di scuola, il medico, il chirurgo, il camerlengo/esattore delle imposte. La panca era così chiamata anche “Banca del Magistrato e dei salariati”; l’ultima fu ricostruita ex-novo con 5 seggi su disegno di Angelo Campana nel 1787. 37ASCMR, Trasatti (1775-1788), cc. 112v e 113v, 25 agosto 1787.
    Nelle processioni avevano il primo posto dopo i sacerdoti; non risiedeva, come i Priori di Città, durante l’incarico, notte e giorno nel palazzo pubblico; non percepivano alcun compenso, se anticipavano qualche piccola somma venivano rimborsati. 38Urieli C., Jesi e il suo Contado, vol. IV, p. 145. Al termine del loro mandato bimestrale, nel fare le consegne ai nuovi “Quattro”, si procedeva ad uno scrupoloso controllo delle entrate e delle uscite del bimestre redigendo un apposito processo verbale nei rispettivi registri, firmato dal Capitano del Castello. 39Urieli C., San Marcello, pp. 212-214.

  • 112 5.6C. I CAPITANI DEI CASTELLI

    112 5.6C. I CAPITANI DEI CASTELLI

    Previsti dagli statuti della città e contado (Liber Primus, Rub.LI), i Capitani dei Castelli erano nominati dal Consiglio di Credenza di Città in un’apposita estrazione. Le “litterae patentes” erano inviate ai soggetti scelti e alle rispettive comunità dai “Confalonierius, et Priores Inclitae Civitatis Aesij”. Duravano in carica sei mesi ed erano i rappresentanti ufficiali del Comune di Jesi nei castelli del contado.
    Governavano insieme ai “I Quattro”, convocavano e presiedevano il consiglio, fumavano il bilancio (“Tabella”), controllavano in genere gli atti della quotidiana amministrazione e vigilavano che venissero osservati gli statuti. Potevano essere anche giudici in cause di piccola entità. “Col trascorrere del tempo i Capitani dei Castelli verranno ad esercitare nei rispettivi castelli, nei quali devono risiedere durante il periodo di espletamento del loro ufficio, il compito che a Jesi esercitava il Governatore quale rappresentante e garante dell’autorità centrale dello Stato”.40Urieli C., San Marcello, p. 95. Urieli C., Jesi e il suo Contado, vol. III, pp. 305 e 329. Urieli C., Jesi e il suo Contado, vol. IV, pp. 125-129.
    Per lungo tempo a quest’ufficio verranno scelti solo i nobili della città, poi nel corso del Cinquecento anche gli abitanti del Contado che tuttavia non potevano esercitare il loro mandato nel proprio paese. Solo nel Settecento, quando la carica divenne più onorifica (si chiamò “Capitano d’Onore”), a capitano venne nominato una persona del castello stesso.
    Monte Roberto non ebbe per secoli un capitano esclusivamente per sé, ma al pari di Scisciano e Poggio Cupro, il capitano era nominato per Monte Roberto e Castelbellino. Nel 1587 fu capitano per ambedue i castelli Don Stefano Fasoli, mentre Giovanni Pecciani di Monte Roberto lo era per i castelli di Scisciano e Poggio Cupro.41Molinelli R., Un’oligarchia locale nell’età moderna, Urbino 1976, p. 158. Capitano nel 1590 fu Vitale Vitali di Morro e nel 1602 il conte Annibale Scala da Rotorscio.42ASCMR, Sindacati (1602-1608), c. 58 r. Nel 1687 Monte Roberto e Castelbellino ebbero
    Giovanni Battista Colini mentre Giovanni Angeli di Monte Roberto fu capitano in Massaccio.43Molinelli R., op. cit., p. 159.
    Alla vigilia dell’invasione francese nel 1792 Monte Roberto e Castelbellino hanno un capitano per ogni paese, rispettivamente Domenico Mei di Belvedere a Monte Roberto e Antonio Campagnoli a Castelbellino, Agostino Antonelli invece di Monte Roberto era capitano a Poggio S. Marcello.44Ivi, p. 166.
    La consuetudine di avere un singolo capitano per ogni paese, cioè a Monte Roberto e a Castelbellino per quanto ci riguarda, si affermò nel sec. XVIII, quando l’incarico fu quasi unicamente onorifico: a Monte Roberto nella carica di “capitano d’onore”(“Capitaneus Honoris”) si alternano così gli esponenti, presenti in Consiglio, delle famiglie più ragguardevoli del paese. Nel decennio 1756-1766 sono “capitani d’onore” Dionisio Capitelli, Giacomo Capitelli, Mattia Amatori, Alessandro Guglielmi, Serafino Guglielmi, Nicodemo Nicodemi, Pietro Anibaldi, Antonio Anibaldi, Paolo Ignazio Baldelli, Gherardo Anibaldi, Quirino Senesi, Carlo Senesi, Pietro Paolo Tesei, Bartolomeo Olivieri; nominato “capitano d’onore” anche il segretario della comunità Pier Simone Dominici 45ASCMR, Consigli (1756-1766).
    Era il Consiglio della Comunità a far la nomina, si parla infatti di “capitaneus extractus”;46Ivi, c.12.7v, 7 aprile 1760 e c. 329r, 8 settembre 1765. a volte si dava il caso di dover cambiare nel corso della stessa seduta consigliare il Capitano d’Onore che presiedeva lo stesso consiglio insieme a “I Quattro”, quando una questione o un problema riguardava la sua persona o suoi parenti.
    Il 6 gennaio 1761, essendoci un “luogo vacante”, il Consiglio doveva procedere alla nomina di consigliere di Giovanni Amatori, “e siccome il Sig.re Mattia Amatori è nel presente consiglio Capitano d’Onore, e per il fratello Sig. Giovanni Domenico non puoi rendere il voto”, si propose che “i Sigg. Quattro” eleggessero “un altro consigliere per quest’atto da fare l’officio di Capitano; li Sigg. Quattro dichiararono per Capitano d’Onore per quest’atto il Sig. Giacomo Capitelli”. Procedendo alla votazione si assentarono i due fratelli del candidato, Mattia e Giovanni Antonio Amatori ed il loro cognato Francesco Tesei.47Ivi, c.150v.
    Nei verbali dei consigli tra il 1756 e il 1766 troviamo solo due nominativi, presenti alla riunione, con il titolo di “capitano”, Francesco Antonio Prucicchiani e Costantino Cimarelli, il 27 marzo 1763 e il 28 giugno 1764, in queste sedute non si nomina il “Capitano d’Onore”. Il Prucicchiani e il Cimarelli erano due invitati del Luogotenente Generale di Jesi che faceva le veci del Governatore e che aveva convocato il Consiglio della Comunità per esaminare alcune questioni di particolare urgenza: essi presiedettero, per questo sono detti “capitano”, insieme a “I Quattro”, la seduta.48Ivi, c. 208v, 27 marzo 1763, e G. 274v, 28 giugno 1764.
    Tra i salariati della comunità c’erano anche il “Capitano di giustizia” che veniva confermato ogni anno dal Consiglio: non aveva alcun ruolo dirigenziale, ma come scrive il Menicucci, “quale uffiziale e salariato ha obbligo di riferire i malefizi e gli aggravi a Monsignor Governatore di Jesi e suo Tribunale”.49Menicucci F., Massaccio nel 1789, in appendice a Dottori D., Cupra Montana e i suoi figli noti, Cupra Montana 1983, p. 126.
    Recapitava le citazioni e le notificazioni del Tribunale e con il balivo o messo comunale controllava lo stato delle strade.
    Giuseppe Antonio Bianchi, capitano di giustizia di Monte Roberto riconfermato nel 1757 era un tipo intraprendente: oltre a fare quanto di sua competenza, ebbe in affitto nel 1760 il forno pubblico (per il quale però molti si lamentavano) e alla fine del 1759 chiese di voler fare anche il moderatore dell’orologio ed il postiglione per una tariffa più bassa “di pochi paoli” di quella prevista in bilancio per il moderatore e il postiglione in carica Romualdo Nassi. Il 6 gennaio 1761 il suo incarico di capitano di giustizia gli fu riconfermato “per un altro anno, ma alle solite condizioni, che in caso di demerito ecc. sia lecito alli Sigg. Quattro pro tempore rimuoverlo, senza alcuna risoluzione di Consiglio, stando in di essi arbitrio”.50Urieli C., Jesi e irsuo Contado, vol. IV, p. 558.

  • 114 5.6D. LA “CAUSA MAGNA”

    114 5.6D. LA “CAUSA MAGNA”

    La supremazia della Città sul Contado fu sempre netta e non lasciò quasi mai spazio a spiragli di autonomia ai singoli castelli, si trovarono anzi in continuazione motivi giuridici e pratici per un attento e serrato controllo. La stessa formazione del Contado, avvenuta per conquista, solo raramente per assoggettamento volontario, portava ad una leadership di Jesi che non accettava né partner né concessioni di sorta, Eppure secondo gli statuti, Città e Contado erano “paritarie per dignità e diritto, ma nella realtà il Contado [fu] confinato in condizione di inferiorità giuridica, sociale ed economica nei confronti della Città”51Urieli C., Jesi e il suo Contado, vol. IV, p. 558
    Diverse furono le espressioni concrete di questa supremazia: l’esclusione dei Priori del Contado dalla carica di Gonfaloniere, supremo grado della magistratura jesina, lo stemma di Jesi fatto scolpire sulle porte dei castelli quasi fossero proprietà della città e specialmente, la presentazione del Pallio di S. Floriano. Il peso più rilevante comunque sopportato per secoli dal Contado fu l’iniqua ripartizione delle imposte tra Città e Contado stesso.
    Il decreto del Governatore della Marca del 22 novembre 1510, Mons. Antonio De Flores, che avrebbe dovuto trovare una soluzione equa, sanzionando magari la situazione ormai consueta facendo pagare tre parti delle imposte erariali su quattro al Contado, stabili invece che le collette dovevano essere divise in modo che il Contado ne pagasse due terzi più un ottavo e la Città il terzo rimanente meno un ottavo. Se la situazione precedente aveva fatto sorgere già a tempo controversie tra Città e contado (“cum diu fuerit, et sit versa differentia, et controversia inter civitatem Aesij, et eius cives ex una, et comitatum dictae civitatis, et eius homines partibus ex altera”), e per questo era stato chiesto l’intervento del Governatore Flores, il decreto di quest’ultimo non accontentava affatto i castelli che tuttavia dovettero subirlo incrementando un progressivo malcontento. Tra i Priori di Città e Contado che presenziarono ed “accettarono” il decreto c’erano Conte di Ser Gabriele da Massaccio e Sante di Antonio di Monte Roberto.
    Lo scontro tra città e contado crebbe nei decenni seguenti interessando anche il governo centrale di Roma con una vertenza giudiziaria durata quasi due secoli: la “Causa Aesina Collectarum” o più brevemente la “Causa Magna” (la “Grande Causa”). La vertenza produsse una mole enorme di documenti e di memoriali, avvocati e patrocinatori della Città e del Contado ed apposite commissioni pontificie a livello anche cardinalizio, discussero e si scontrarono con argomentazioni storiche e giuridiche: il Contado di fronte all’oligarchia cittadina non vide mai riconosciute le sue ragioni di fatto e di diritto. Pagare le tasse all’erario pontificio “per aes et libram” e cioè secondo il reale valore catastale degli immobili, riconosciuto anche da una Bolla di Pio V del 3 ottobre 1567 ma letto con interpretazioni a dir poco interessate, non fu mai possibile: prevaleva sempre il sistema del “decreto Flores”.
    Pagandosi meno tasse in città, non pochi erano i benestanti dei castelli che avevano preso residenza a Jesi aggravando così la pressione fiscale sui castelli stessi. Il 15 dicembre 1587 Sisto V, accettando una richiesta della Città concede un Governatore per tutto il Contado: un successo per Jesi che confermò ancora una volta la sua supremazia sui castelli ed un successo per l’oligarchia cittadina che sempre vide il Governatore schierato dalla propria parte.
    Nonostante le resistenze messe in atto, i castelli dovettero sempre pagare secondo l’ingiusta ripartizione e cominciano, da questo scorcio del Cinquecento a fino a metà Settecento, sul libro-registro delle “Entrate e delle Uscite”, le ripetute registrazioni: “A[…] per a bon conto della lite tra la Città et Castelli […] fiorini […] 52 Ad esempio, ASC1V1R, Entrate e Uscite (1585-1597),c. 25r (1587).sono le spese per avvocati e patrocinatori che ogni castello si accollava per la “causa magna”.
    Un “deputato” a nome di tutti i castelli del contado provvedeva a ritirare le somme dovute da ciascuna comunità e le inviava all’agente (rappresentante) del contado a Roma che a sua volta saldava le spese che si andavano sostenendo per la causa.53In appendice n. 3: Spese per la “Causa Magna”, pp. 288-290.
    Il Contado “era ben meno facoltoso di quello si fosse la Città di Jesi”.54Menicucci F., Memorie… Massaccio…, p. 125.
    La conferma era stata ufficializzata dal Catasto fatto eseguire da Mons. Gianfrancesco Negroni, già Governatore di Jesi nel 1663, e portato a termine nel 1669. L’estimo del territorio della Città di Jesi era superiore a quello del contado di scudi 295.351.
    L’estimo di Monte Roberto, di scudi 56.076,44, era all’ottavo posto tra i castelli; lo precedevano Monsano (123.104 scudi), San Marcello (118.120), Belvedere (109.298), Mono (93.051) Massaccio (70.234), Castelplanio (62.665) Maiolati (62.263) ed era seguito da Montecarotto (54.388), Poggio San Marcello (37.134), Castelbellino (30.938) San Paolo (25.759) Rosora (23.952), chiudevano i castelli più piccoli e più poveri Poggio Cupro (7.759) e Scisciano (4.121).
    Il reddito pro capite invece, in rapporto alla popolazione rilevata nel 1749, era per Monte Roberto di scudi 34,1 per una popolazione di 1.634 abitanti, al decimo posto in tutto il Contado compresa Jesi; il reddito più alto era di San Marcello (83,4 scudi), seguivano Jesi e S. Maria Nuova (81,5), Monsano (67,2), Castelbellino (64,7) Mono (54,0), Maiolati (53,7), Belvedere (48,4), Castelplanio (38,9) San Paolo (36,0). Dopo Monte Roberto c’erano Poggio San Marcello (33,3), Scisciano (32,7), Massaccio (25,8) Montecarotto (24,06), Poggio Cupro (20,0) e Rosora (14,8).
    Il reddito pro capite della città era di scudi 81,5, quello medio dell’intero contado di scudi 56,5: evidenti la sproporzione e di conseguenza la non equa ripartizione delle collette.
    Nel 1714 e nel 1717, nel prosieguo della “causa magna”, ci furono altri pareri favorevoli alla Città; nel 1719 si decideva invece l’annullamento delle precedenti sentaze con l’obbligo di rifare tutto il processo dinanzi alla Congregazione del Buon Governo.
    Per oltre un ventennio la causa covò sotto la cenere.
    La città, o meglio la nobiltà jesina ne approfittò per chiedere al papa per i Priori di Città i “rubboni rossi”, lasciando quelli neri ai Priori del Contado, presenti nella magistratura jesina; la concessione, ottenuta nel luglio 1738 suscitò ira e sdegno: era una nuova provocazione della città nei confronti del contado.
    In questo contesto di reciproca animosità, venne diffuso un manoscritto anonimo, ma negli ultimi decenni del Novecento attribuito a don Giovanni Angelo Tacchi (1666-1746) di Massaccio con la collaborazione di Carlo Ridolfi di Castelplanio e Curzio Bernabucci di Belvedere, “Il Pellegrino in pellegrinaggio per il Contado”.
    É la narrazione del “pellegrinaggio” fatto nel mese di ottobre 1738 per tutti i paesi del contado mettendo in evidenza gli aspetti culturali e religiosi e le magnificenze di ciascun castello ridicolizzando la nobiltà jesina e le pretese della città. Un libello satirico, aggressivo, velenoso contro l’oligarchia cittadina.
    Parlando di Monte Roberto, l’anonimo pellegrino scrive: “[…] questo Castello ha prodotto e produce oggetti qualificanti, e che ha prodotto altresì con Magistrati e Prelature Monastiche come tra l’altro è stata la Famiglia Amatori, […]. È nativo di questo luogo, il Priore Generale de Monaci Silvestrini,55Si tratta di Don Giovanni Amatori, vicario generale nel 1735-1736 ed abate generale nel quadriennio 1736-1740, cfr. Aspetti e Problemi del Monachesimo nelle Marche, Fabriano 1982, vol. II, p. 763. come anche uno de Capitani, che comanda le tre Compagnie de Soldati esistenti nel Contado”.
    Descrive poi la sontuosa abitazione di un “Ricco Sacerdote” con “argenteria Quadri, ed apparati Nobili”.56il libello è stato pubblicato in appendice a Molinelli R., Città e contado nella Marca pontificia in età moderna, Urbino 1984, pp. 243-304; quanto riguarda Monte Roberto è a pp. 270-273.
    Le consultazioni sul problema della “causa magna” tra i castelli del contado erano periodiche, erano diventate diremmo istituzionali: sede degli incontri era la Casa della Pieve delle Moglie (Moje di Maiolati) dove convenivano i rappresentanti dei singoli paesi. Per tutti questi “congressi” (come allora li chiamavano), vogliamo ricordare quello del 6 agosto 1738, la “causa magna” fu
    evidentemente l’argomento di maggiore importanza (in quest’occasione mancarono i “deputati” di Scisciano e Monsano): Massaccio che in tutta la vicenda ebbe sempre un “molo di punta”, mandò tre rappresentanti, tra essi don Giovanni Angelo Tacchi.57ASCMR, Consigli (1735-1755), cc. 35v e 36v.
    Anche Borgo Loreto di Castelplanio e Belvedere furono sede di analoghi incontri tra i castelli del contado.58ASCC, Lettere diverse (1516-1599), lettere del 18 gennaio e del 1 aprile 1571 per Borgo Loreto, e ASCC, Miscellanea (1741-1750), VIII-I, incontro del 17 novembre 1745. Di queste consultazioni se ne fecero per più di due secoli, segno che non mancavano argomenti da discutere sui rapporti con la città, specialmente quelli legati alle tasse da pagare.
    I castelli, seguendo l’esempio di Jesi che aveva già dal Cinquecento nominato un “cardinale protettore”, la figura più grande fu quella di S. Carlo Borromeo nominato nel 1562,59Urieli C., feste il suo Contado, vol. III, p. 108. elessero anch’essi un “cardinale protettore” che potesse aiutarli non solo presso il governo centrale nelle pratiche amministrative e nelle richieste che inviavano ma anche presso le autorità periferiche.
    Non tutti i castelli se lo potevano permettere perché naturalmente al cardinale era necessario inviare qualche “gratifica”. Il Consiglio della Comunità di Monte Roberto il 31 marzo 1737 nomina protettore del paese il Card. Marcello Passeri, “il patrocinio di un porporato – è scritto nel verbale della seduta – apporterebbe decoro e utile a questa nostra Comunità”.60ASCMR, Consigli (1735-1755), c. 21v. Per il Card. Passeri, cfr. Moroni Gaetano, Dizionario di Erudizione storico-ecclesiale, Venezial 851, vol. II, pp. 265-266.
    La “causa magna” negli anni Quaranta riprese il suo cammino con successivi atti del 1742, 1746, 1747, 1749 fino ad arrivare alla sentenza definitiva del 20 marzo 1752.1128 aprile 1752 Benedetto XIV emanava il Motu proprio “Laudabile” dove riassumeva tutte le fasi della vertenza, confermava la sentenza e il sistema del “Decreto Flores” del 1510: “la ripartizione degli oneri pertanto doveva farsi per due terzi più un ottavo a carico del Contado e un terzo meno un ottavo a carico della Città”.
    Il contado era definitivamente umiliato; la causa riguardò esclusivamente i proprietari della Città e quelli dei Castelli, sia questi che quelli difesero i propri interessi anche se i proprietari dei paesi chiedevano certamente un modo più equo e onesto nella ripartizione degli oneri fiscali.
    Il popolo rimase estraneo a tutta la vicenda, se a Jesi “viveva nella miseria e spesso sopravviveva nel clientelismo all’ombra dei grandi signori […] anche nei Castelli la classe popolare viveva in una povertà di esistenza tale che i soli suoi interessi erano quelli della sopravvivenza”.61Urieli C.. Jesi e il suo Contado. vol. IV, p. 628. Per tutta la vicenda cfr. Urieli C., op. cit., vol.
    IV, pp. 551-636 e Urieli C., San Marcello, cit., pp. 193-203 e 247-285.

    I proprietari non potevano non difendere i loro interessi: erano loro presenti di padre in figlio nella magistratura del castello al centro dell’economia c’erano sempre loro fornendo lavoro ai coloni ai braccianti agricoli e agli artigiani; solo loro si potevano permettere di far studiare i figli e di far loro intraprendere magari la carriera ecclesiastica o giuridica.
    A metà del Seicento a Monte Roberto i proprietari sono 166 con 487 some e 889 canne di terra, 62Una soma equivalente a 1.000 canne quadre, una canna 16 mq., 10 some a 16 ettari. gli enti sono 5 con 49 some e 853 canne. I 20 maggiori proprietari privati, locali e forestieri, possiedono 421 some e 60 canne, pari all’86,3% di tutta la proprietà privata.
    Un secolo e mezzo dopo, verso la fine del Settecento, l’estimo di Monte Roberto per le terre private risultò di scudi 76.252,14, era cresciuto di circa 20.000 dal 1749.
    Complessivamente le proprietà di tutto il territorio hanno un estimo di scudi 127.747,98; i proprietari locali sono 42 con scudi 11.549,31 e gli enti con scudi 2.014,53; i 20 maggiori proprietari locali possiedono per un estimo di scudi 10.170,97 pari all’ 88,06% della proprietà privata locale. I grandi proprietari del luogo sono Amatori, Salvati, Capitelli, Tesei, Chiatti, Antonelli. La proprietà privata forestiera incide con scudi 65.202,83 per 1’84,95% della proprietà privata totale, la monopolizzano in gran parte i nobili jesini, i Ghislieri, gli Honorati, i Guglielmi; quella degli enti, Capitolo della Cattedrale e ordini religiosi, ammonta a scudi 48.981,31.63Per tutti questi dati, dal Seicento alla fine del Settecento: Molinelli R., Città e contado nella Marca Pontificia in età moderna, cit., pp. 167-174.
    Le famiglie di possidenti erano diventate il ceto dirigente inamovibile ormai da generazioni ed avevano intrecciato tra loro rapporti di parentela rafforzando l’oligarchia paesana, mentre all’occasione non disdegnavano matrimoni con esponenti di famiglie di più consolidata nobiltà di Jesi o di altre città.

  • 119 5.6E LA LITE CON CASTELBELLINO

    119 5.6E LA LITE CON CASTELBELLINO

    Se per gli “oneri camerali”, per le imposte cioè a favore dell’erario pontificio tra città e contado ci fu una vertenza di quasi due secoli e mezzo, un’analoga lite giuridica si sviluppò per oltre 150 anni tra Monte Roberto e Castelbellino per gli “oneri comunitativi”, per le imposte cioè devolute alla casse delle rispettive comunità.
    La conflittualità con Castelbellino era sorta per l’abitudine di alcuni abitanti di quest’ultimo castello, che possedevano proprietà in territorio di Monte Roberto, di non pagare le imposte alla comunità di Monte Roberto;[64]ASCMR, Consigli (1711-1735), cc. 50-51, 1 settembre 1713. tra le ragioni addotte, oltre ad antichi documenti, c’erano che i confini erano stati variati, che il catasto non era in buon ordine, che i terreni in oggetto erano oltre i confini della comunità.[65]ASCMR, Registro delle lettere (1703-1795), c. 41v, 13 settembre 1732.La zona cui si riferivano queste proprietà era sicuramente quella della dorsale tra le attuali via S. Giorgio – il luogo dell’antica abbazia – e via Montali e sue adiacenze.
    La vera motivazione, certamente non peregrina, ma che ricordava una situazione antica quando il castello di Castelbellino (Morro Panicale) aveva giurisdizione sul territorio anche di Monte Roberto, c’era realmente: le due comunità, vicinissime, avevano tenuto per tanto tempo indivise giurisdizioni e pertinenze.
    Quando poi crebbero e rivendicarono pari autonomia e soprattutto quando le imposizioni fiscali sia erariali che per le rispettive comunità cominciarono ad essere più sostanziose, si iniziò una verifica capillare dei contribuenti nelle casse comunitarie secondo delimitazioni confinarie più precise. La vertenza nacque in questo contesto. La causa però andava avanti con difficoltà: l’11 luglio 1717 il Consiglio Comunale decide di cambiare il “procuratore” a Roma eleggendo Eustachio Negri al posto di Antonio Balestrieri.[68]ASCMR, Consigli (1711-1735) cc. 112v e 113r. Cinquant’anni dopo, nel 1766, Monte Roberto contestò addirittura l’autenticità della “concordia” del 1576, facendo ricercare da due notai di Jesi l’originale sui cinque volumi di protocolli rogati da Ottaviano d’Antonio (Ottaviano Antonini) notaio in Monte Roberto tra il 1563 e il 1616, esistenti negli archivi jesini, i due “fanno fede che in detti Protocolli non vi è alcun istrumento di Concordia o Transazione tra le due Comunità di Monte Roberto e Castel Bellino”.[69]ASCR, Registro delli Bollettini (1711-1775), c. 228v, pagamento straordinario del 18 agosto 1766. Monte Roberto insomma riteneva la “concordia”, “carta informe ed apocrifa inventata oggi dalli possidenti [diCastelbellino] per utile”. Castelbellino di contro affermava essere “troppo oltraggiosa e calunniosa l’asserzione” di Monte Roberto e replicava esserci copia “registrata” nell’archivio di Castelbellino e che la sua autenticità era stata recepita e ritenuta tale dalla sentenza del 1714 e che anzi, Monte Roberto l’aveva esibita in pubblica copia in una vertenza con la stessa comunità di Castelbellino discussa a Jesi il 15 gennaio 1650. Si aggiungeva poi “che è stato sempre ed è in verde osservanza fra i due castelli questa Transazione”.
    Di fronte alla sentenza definitiva passata in giudicato del 1714, Monte Roberto cercava ogni argomento per rescindere l’antica “concordia” ma certamente riuscirono vani tutti i tentativi messi in campo. L’estimo secondo il Catasto Negroni del 1669 dava Monte Roberto più ricco nei confronti di Castelbellino, Monte Roberto era però più povero per reddito pro capite, 34,1 scudi su 1.634 abitanti di fronte ai 64,7 pro capite della popolazione di Castelbellino che ammonta solo a 478 abitanti nel 1749 che erano sostanzialmente quelli dei decenni prima.
    In questa più diffusa povertà sta con tutta probabilità l’insistenza di Monte Roberto nella lunga lite con Castelbellino: se più proprietari ci fossero stati a pagare, meno avrebbero pagato tutti in proporzione per le necessità di una comunità più numerosa. Non conosciamo la conclusione della lite, i verbali del Consiglio della Comunità non ne parlano più, conosciamo solo una bozza di un “memoriale” che Castelbellino mandò probabilmente al suo procuratore a Roma verso il 1776, secondo cui “gl’uomini di C.Bellino non solo pagano il loro dovere, ma anche di più del loro dovere”, chiedendo che tutto rimanesse, come di fatto rimaneva, secondo la concordia del 1576.[70]Menicucci P., Notizie d’Apiro e di Castel Bellino ms. Archivio S. Leonardo, Cupramontana,Fondo Menicucci, cc. 36-40.

  • 121 5.7 IL TRIENNIO GIACOBINO (1797-1799)

    121 5.7 IL TRIENNIO GIACOBINO (1797-1799)

    Prima dell’arrivo di Napoleone e delle truppe francesi l’eco della rivoluzione d’oltralpe nei nostri castelli era stata piuttosto tenue. La gente umile ne avrà avuto notizia o sentore frequentando magari il Monastero camaldolese e l’annessa chiesa di S. Lorenzo o il Convento francescano della Romita a Massaccio dove erano ospitati dal 1792 cinque sacerdoti profughi dalla Francia, 71Manganelli F., Memorie della Terra di   Cupramontana. ms. Biblioteca   Comunale Cupramontana, p. 9.  ed avrà di certo confrontato e arricchito queste notizie con quelle che riportavano quanti frequentavano le grosse fiere come quella di Senigallia. Anche la lettura delle “Gazzette” che arrivano a famiglie benestanti e la corrispondenza che ci si scambiava tra città e paesi fra parenti ed estimatori favorivano questa circolazione di informazioni.
    A Monte Roberto il nome del Generale Bonaparte si fece sentire ufficialmente in Consiglio Comunale il 19 febbraio 1797, quando i consiglieri, invitati dalla Municipalità di Jesi e per ordine del Bonaparte, dovettero eleggere a loro volta la Municipalità composta di cinque membri (il presidente più quattro componenti). Gli eletti, oltre al presidente Filippo Salvati, furono Pietro Amatori, Nicola Capitelli, Agostino Antonelli e Pietro Moretti. Nella stessa seduta si decise di costituire una Guardia Civica di 40 individui che i cinque “municipalisti” avrebbero scelto e diretto. Acquartierate provvisoriamente nel Magazzino dell’Abbondanza le guardie, a turno e armate, avrebbero dovuto “girare di giorno e di notte continuamente […] e servire unicamente per i casi di bisogno”.72ASCMR, Consigli (1794-1808), cc .29-31  
    Napoleone lo stesso giorno, 19 febbraio, firmava il Trattato di Tolentino con imposizioni al Papa in denaro e cessione di territori “quali mai si erano fatte ai suoi predecessori”.73Ranke Leopold, Storia dei papi, Sansoni Firenze 1959, p. 964.  

    Il trattato di Tolentino

    Ad Ancona Napoleone era arrivato il giorno 10, I’11 a Jesi si era insediata la Municipalità esautorando quella legittima, Priori di Contado erano Giacomo Nicodemi di Monte Roberto e Andrea Meriggiani di Castelbellino. Seguirono a Jesi e nel Contado cinque giornate di insurrezione, dal 23 al 28, “l’agitazione cominciò nei Castelli a monte della Città, cioè verso Massaccio e Castelli attigui”74Urieli C., Jesi e il suo Contado vol. IV, p. 667. coinvolgendo anche Monte Roberto.
    Con il 1° aprile ritorna il Governo Pontificio, avendo quest’ultimo ottemperato ai pagamenti previsti dal Trattato di Tolentino. 75Cfr. gli artt. XII e XV del Trattato di Tolentino, in Nocchi A., Ceccarelli R., Editti e Bandi del sec. XVIII, Cupra Montana 1993, p. 68.  Tutto sembrava essere come prima, almeno a Monte Roberto: fermenti “giacobini” rimanevano a Jesi, Ancona poi era ancora in mano ai Francesi. Il 4 maggio tutti i castelli presentano il Pallio di S. Floriano, Giovanni Ragaglia è il rappresentante di Monte Roberto.
    Nelle sedute del Consiglio della Comunità si alternano come “capitani d’onore” Filippo Salvati, Carlo Senesi, Giacomo Nicodemi, Gregorio Tesei, Giuseppe Olivieri. Non troviamo nei verbali il nome del capitano Domenico Mei di Belvedere nominato da Jesi, 76Molinelli R., Un’oligarchia locale in età moderna, cit., p. 160.   probabilmente questo “capitano” era il rappresentante della Comunità di Jesi presso la Comunità di Monte Roberto, che, salvo casi eccezionali, faceva presiedere il Consiglio, come ormai da decenni, al Capitano d’Onore eletto dal consiglio stesso.
    Verso la fine dell’anno Napoleone stava lasciando ai giacobini la libertà di agire secondo i loro progetti, ad Ancona si costituisce la “Repubblica Anconitana” il 17 novembre cui aderiscono poi altre città tra cui Jesi: il Trattato firmato a Tolentino tra Napoleone e il Papa stava andando in frantumi. Il 31 dicembre si formava a Jesi la nuova Municipalità, contemporaneamente partiva dalla città il Governatore Mons. Alessandro Macedonio, in serata uscivano le truppe papali e giungevano quelle francesi.
    Il 2 gennaio 1798 si riunisce il Consiglio della Comunità di Monte Roberto, si legge una lettera della Municipalità di Jesi che invitava a fare quanto la città aveva già fatto “d’implorare [cioè] provvisoriamente la protezione dell’invitta nazione francese”. Il consigliere Giuseppe Olivieri, per l’occasione nominato “consultore” cioè relatore sull’argomento, è del parere “che ancor noi che forniamo la minima parte del Contado jesino ci uniformiamo a quanto ha risoluto il Comune della stessa città, cioè che provvisoriamente imploriamo la protezione francese, tanto più, che restiamo assicurati che sarà intatta la nostra Santa Religione cattolica e salve le proprietà particolari: intendendo con ciò di non essere ribelli al Nostro Sovrano, ma chiedere unicamente la protezione francese provvisoriamente”.
    Si elesse poi la Municipalità provvisoria, di cinque membri, “i più sani, e per coscienza e per morigeratezza che costumi, probità e capacità”. Furono eletti Filippo Salvati, Pietro Amatori, Francesco Olivieri, Nicola Moretti e Domenico Amatori, il più votato, Filippo Salvati, fu proclamato Presidente della Municipalità “con l’assoluto governo di questo luogo”.77ASCMR, Consigli (1794-1808), c. 47v e c. 48r.
    Il malcontento popolare contro nuovi arrivati non mancò di farsi sentire: a Maiolati nelle prime settimane vennero segnalati “sediziosi e malintenzionati che spargono voci contro alla pubblica quiete”,78Urieli C., op. cit., p. 683 e 705.   ma la sommossa più ampia e organizzata cominciò a Massaccio il 29 gennaio, gli “insorgenti” si spinsero fino a Scisciano, Maiolati, Monte Roberto e Castelbellino invitando la popolazione all’insurrezione. Ad essi si aggiunsero bande di insorti provenienti da Cingoli, Apiro e Staffolo: Jesi stessa temette di essere assalita. Le truppe francesi da Ancona mossero contro Massaccio ritenuto esso solo causa del disturbo e della sedizione”, dopo breve assedio il 2 febbraio lo espugnarono e sottoposero a saccheggio. 79Ivi, pp. 684-685 e Nocchi A., Ceccarelli R., op. cit., pp. 78-81.   
    Nel viaggio verso Massaccio, ai soldati francesi che passavano a Monte Roberto, andò incontro il curato Don Pergolini (che non era il parroco, né originario di Monte Roberto), invitato dal Presidente della Municipalità Filippo Salvati, impossibilitato per malattia, e da altri cittadini, al sacerdote dai soldati dell’avanguardia venne rubato l’orologio: la Municipalità il 21 aprile 1798 gli accorda un compenso di sette scudi “avendo fatto una parte da buon cittadino, ed ottimo cattolico, sebbene forastiere, ed ha posto a rischio la vita ancora, oltre la robba che portava”.80ASCMR,  Consigli (1794-1808), c. 50r. 
    Sul Palazzo Comunale fu issata la bandiera tricolore e alla truppa data assistenza in pane e vino, consegnate 35 paia di scarpe, mentre il fieno per i cavalli fu mandato a Jesi. Il chirurgo di Monte Roberto si recò poi. a Maiolati per curare alcuni soldati francesi feriti durante l’insurrezione di Massaccio. 81ASCMR, Sindacati (1790-1844), pp. 56-58.   
    Dopo la proclamazione della Repubblica Romana avvenuta il 12 febbraio 1798, le Marche furono divise in tre Dipartimenti: del Metauro, capoluogo Ancona; del Musone, capoluogo Macerata, e del Tronto, capoluogo Fermo.
    Monte Roberto così dal 1° aprile (“12 Germinale Anno Primo della Repubblica Romana, Una, ed Indivisibile”) fece parte del Dipartimento del Musone (diviso in 16 cantoni) e del Cantone di Apiro insieme ai castelli a destra del fiume Esino, Massaccio, San Paolo, Castelbellino, Poggio Cupro, Scisciano, Rotorscio, D’orno, Poggio San Vicino (Ficano) e Frontale. 82Nocchi-Ceccarelli, op. cit., pp. 82-84.   
    Se sul Palazzo Comunale sventolava la bandiera tricolore, ed era cosa gradita ed apprezzata, per i salariati invece del Comune fu obbligatorio avere sul cappello la coccarda nazionale: il postiglione Romualdo Nassi al servizio di Monte Roberto e di Castelbellino fu multato di uno scudo per non portarla, i rispettivi comuni a loro volta si fecero carico, a metà di pagare l’addebito. 83ASCMR, Sindacati (1790-1817), c. 41r.   
    Il 1798 fu drammatico per la mano pesante usata dai francesi nei confronti della religione e del clero; 84Urieli C., op. cit., p. 690.   a Monte Roberto però non si registrarono episodi particolarmente importanti: i municipalisti avevano fatto parte tutti del precedente Consiglio della Comunità ed anche i verbali delle sedute della Municipalità registrati nel 1798 (nessuno è registrato per il 1799) dicono che avevano termine, come sempre, con la preghiera di ringraziamento: “E rese le grazie fu dimessa la Congregazione”.85ASCMR,  Consigli (1794-1808), cc. 48v, 49r/v, 50r.   
    Il 26 giugno 1798 (“8 Messifero Anno VI”) viene reso obbligatorio l’uso del calendario dell’Era Repubblicana iniziata nel 1792: il primo giorno dell’Anno Repubblicano è il 10 vendemmiale cioè il 22 settembre, 86Nocchi-Ceccarelli, op. cit., pp. 88-91.   per celebrare questo capodanno Paolo Canonici, prefetto consolare del Cantone di Apiro, invia “agli abitanti tutti del cantone” un caloroso appello. 87Ivi, pp. 92-93.  
    Dopo aver ricordato a tutti l’ubbidienza alle leggi e di celebrare il capodanno in tranquillità e onesta allegria, conclude: “Voi siete miei Fratelli, altre volte il vostro zelo patriottico, la vostra subordinazione alla Legge ha dato prove non equivoche del vostro docile Spirito, sicché non avrò che d’approvare la vostra democratica condotta, il vostro scambievole Amore”.
    Il governo della Repubblica Romana tuttavia, nonostante gli appelli alla quiete e le pene gravi previste per gli insubordinati e l’aver reso responsabili di eventuali insurrezioni e i sacerdoti con minaccia di fucilazione immediata o di arresto, 88Ivi, cfr. i bandi del maggio 1798 e del 17 dicembre 1798, pp. 87 e 99.   non ha giorni tranquilli.
    Approfittando della campagna di Napoleone in Egitto e in Medio Oriente, moti rivoluzionari si verificarono nella Marche (luglio-dicembre 1798), una rivolta esplode poi in tutto il territorio della Repubblica (maggio 1799). 11 10 maggio 1799 (21 fiorile) un gruppo di “insorgenti” guidati dal Tenente Marsili di Camerino rompe e brucia la bandiera tricolore posta sul palazzo comunale di Monte Roberto, pretende del vino dalla popolazione e si avvia quindi verso Maiolati. 89ASCMR, Sindacati (1790-1817), c. 57v.   Jesi il 14 giugno è saccheggiata dai “liberatori insorgenti”, poi il giorno dopo è di nuovo saccheggiata dai Francesi. Nelle settimane seguenti si muovono le truppe austriache che si preparano all’assedio di Ancona.
    Nella prima decade di agosto queste si accampano intorno a Jesi: alla Municipalità si sostituisce la “Cesarea Regia Provvisoria Reggenza”, analogo cambio avviene il 16 agosto a Monte Roberto con l’insediamento della Reggenza Provvisoria formata da Filippo Salvati, Domenico Amatori, Nicola Moretti e Domenico Barcaglioni, 90Ivi, c. 58v.   eccetto quest’ultimo, tutti in precedenza facevano parte della Municipalità.
    Il 30 settembre 1799 ha fine la Repubblica Romana; l’assedio di Ancona da parte degli Austriaci si conclude con la resa il 15 novembre: l’avvenimento fu salutato a Monte Roberto con fuochi e feste e con la distribuzione ai poveri di fascine e pane. 91Ivi, c. 65r.   

  • 125 5.8 LA FINE DEL CONTADO E IL REGNO D’ITALIA (1808-1815)

    125 5.8 LA FINE DEL CONTADO E IL REGNO D’ITALIA (1808-1815)

    Gli Austriaci facilitarono il ritorno del Governo Pontificio, restaurato nella pienezza dei suoi diritti il 25 giugno 1800. Intanto città e castelli, come avevano sostenuto parte delle spese per l’assedio di Ancona, dovevano mandare vettovaglie per le truppe che continuavano a sostare nella città dorica, ed ancora una volta i più penalizzati erano i castelli.

    Regno d’Italia


    Un esempio per tutti: si dovevano mandare, nella prima decade di febbraio 1801 in Ancona “dieci bovi o manzi” da parte di città e contado, il Gonfaloniere ed i Priori di Jesi ne chiedono uno a Monte Roberto. L’imposizione appare gravosa; in Consiglio Comunale si osserva che dal momento che i castelli, esclusa la città, sono in quindici, “sarebbe cosa doverosa e proporzionata che tale contribuzione di un bove fosse pagata dai tre castelli Maiolati, Castelbellino e Monte Roberto”. 92ASCMR, Consigli (1794-1808), cc. 78r, 79r, 80v, 8 febbraio 1801.
    I rapporti tra Jesi ed il Contado frattanto andavano peggiorando: i motivi erano economici e politici, maggiore libertà nel gestire le proprie risorse e nel prendere decisioni, il disagio crescente si evidenziava anno dopo anno, quando non tutti i castelli si presentavano puntuali alla cerimonia della presentazione del Pallio di S. Floriano.
    In questi anni la Comunità di Monte Roberto non ha grosse possibilità economiche, non disdegnava così di far ricorso a raccomandazioni per avere qualche favore ed ogni spesa per sollecitarlo puntualmente era annotata.
    L’ultimo giorno di febbraio 1804 si pagano tre scudi e 50 baiocchi “per la spesa di due presciutti di libbre 35 mandati all’agente in Roma onde ottenere sovvenzione di qualche somma” 93ASCMR, Bollettini (1791-1808).   
    Regalie ed omaggi del resto erano una secolare abitudine: nel 1581, “se speso per un capretto bolognini 38 che fu donato al Sig. Podestà di Jesi”, per consegnarlo poi si spesero altri 20 bolognini. 94ASCMR, Entrate Uscite (1558-1586), e. 241r.    Pignoleria e precisione di ogni registrazione contabile, si trattava pur sempre di denaro pubblico, come quella di qualche anno prima “… e più si spese per doi libbre di casio per li macheroni”.95Ivi, c. 146v (1572).
       Napoleone, ritornato dal Medio Oriente, aveva riconquistato il nord della penisola stabilendovi la Repubblica Cisalpina mentre le sue truppe andavano sostituendo nello Stato Pontificio quelle austriache. Eletto imperatore con l’emanazione di una nuova costituzione il 18 maggio 1804, la Repubblica Cisalpina fu trasformata in Regno d’Italia ed Eugenio Beauharnais, figliastro di Napoleone, nominato viceré.

    Con decreto imperiale emanato il 2 aprile 1808 Napoleone riuniva al Regno d’Italia le province di Urbino, Macerata e Camerino: il possesso formale dei nuovi territori sarà effettuato l’11 maggio. Si concludeva in questo modo la secolare vicenda del Contado di Jesi, una realtà politico-amministrativa durata più di sei secoli e che ha lasciato segni e vincoli ancor oggi facilmente rintracciabili.
    Le Marche ebbero un nuovo assetto territoriale.
    Tre i Dipartimenti come nel 1797-1799: Dipartimento del Metauro, del Musone, del Tronto, con i capoluoghi Ancona, Macerata e Fermo; diverso invece l’assetto interno ad ogni Dipartimento. Monte Roberto e tutti i castelli dell’antico contado fecero parte del Dipartimento del Metauro e del Distretto quinto di Jesi, dirigeva il Distretto un Vice-Prefetto e la città, sede di distretto, un Podestà. Dal 1811 al 1814/15 la ripartizione amministrativa fu sempre Dipartimento del Metauro, ma Distretto Primo di Ancona e Osimo e Cantone secondo di Jesi. 96ASCMR, Consigli (1809-1824), c. 18v, 6 maggio 1811; e. 46v, 18 ottobre 1814.   Tutti i comuni della Vallesina mantennero l’autonomia ad eccezione di Poggio Cupro e di Scisciano aggregati a Maiolati. San Paolo e Castelbellino furono uniti a Monte Roberto.
    Nel maggio 1808 il podestà di Jesi Emilio Ripanti affida l’incarico di sindaco provvisorio di “Monte Roberto ed Aggregati” a Filippo Salvati97ASCMR, Registro di lettere (1808-1809), p.1, lettera del 16 maggio 1808. che su richiesta dello stesso podestà, propone una lista di 20 consiglieri per il Consiglio dei comuni riuniti. I consiglieri potevano aver fatto parte dei precedenti consigli, dovevano essere possidenti ed aver superato i 25 anni. Salvati, tenendo conto della popolazione dei rispettivi comuni, propose 6 consiglieri per San Paolo e 6 per Castelbellino ed 8 per Monte Roberto. Fece l’elenco nel miglior modo possibile, “giacché – scrive al Ripanti – il rinvenire soggetti tutti forniti di singolari qualità e segnatamente dotti in comuni così ristretti e scarsi di persone civili è stato impossibile”.98Ivi, p. 3, lettera del 30 maggio 1808.   
    Il prefetto del Dipartimento Casati, il 7 giugno 1808 scelse da questa lista 5 consiglieri per ogni singolo comune, due anziani di Monte Roberto (Amanzio Amatori e Giuseppe Olivieri) e il sindaco (Filippo Salvati); 18 erano così i membri del Consiglio Comunale, nei paesi uniti rimase solo il moderatore dell’orologio, mentre per l’anno successivo il governo pensava di togliere anche il maestro e il medico. 99Ivi, pp. 70-71, lettera del 28 settembre 1808, n. 187.  
    Monte Roberto è comune principale, unica la rappresentanza, unica la sede dell’amministrazione, soppresse le cariche di segretario a San Paolo e a Castelbellino, unico anche l’archivio dove dovevano essere riunite tutte le carte dopo specifico inventario. 100  p  94, lettera del 13 novembre 1808, n. 243.   Snellita la burocrazia amministrativa, i disagi più sensibili li subirono i cittadini di San Paolo: Castelbellino e Monte Roberto erano vicinissimi e molti servizi da tempo in comune, San Paolo era invece a più notevole distanza.
    Il nuovo governo conservò le tasse antiche quando non ne mise delle nuove: “Si versi in codesta cassa la somma ripartita per le spese tra città e contado giusta il metodo e regolamento dell’antico governo,” 101Ivi, p.7, lettera del 12 giugno 1808.  proibito far uso delle carte da giuoco delle antiche fabbriche”;102Ibidem.   proibito portar armi anche quelle da caccia. 103Ivi, p. 6, lettera dell’Il giugno 1808.  Se in passato si doveva chiedere l’autorizzazione al Governatore non solo per abbattere una quercia ma anche per togliere un albero secco nella selva della Comunità per sistemare una fonte, 104ASCMR, Consigli (1711-1735), c.11v, settembre 1711.  ora allo stesso modo era necessaria l’autorizzazione del Vice-Prefetto di Jesi per abbattere le querce. 105ASCMR, Registro delle lettere (1808-1809), p. 206, 26 giugno 1809.   
    Vi fu da parte del sindaco Salvati, in armonia con le circolari del governo, premura e sollecitudine per la vaccinazione antivaiolosa dei bambini di Monte Roberto, San Paolo, Castelbellino e Maiolati. 106Ivi, pp.192-193, 203, 213, 242. 
    Controllo del governo anche sulla moralità pubblica. Così con identica premura, su richiesta del Vice-Prefetto di Jesi del 6 aprile 1809, il sindaco Salvati gli risponde il giorno 21: “Per quanto è a mia notizia e sull’intesa anche dei rispettivi Parochi, non vi sono in questo Comune e uniti Zitelle incinte […]. Se in appresso accadessero tali inconvenienti non mancarò usare i mezzi possibili per l’opportuno discuoprimento servendomi dell’intelligenza dei Parochi medesimi, che sono più a portata per la corrispondente e sollecita relazione di tali fatti”. 107Ivi, p. 178.   Si provvede a cancellare l’onorario per il predicatore della Quaresima, cosa che la pubblica amministrazione faceva dal Cinquecento, e per il procuratore a Roma. 108Ivi, p. 13, 22 giugno 1808.   
    Per l’onomastico di Sua Maestà l’Imperatore viene fatta una pubblica illuminazione il 15 agosto 1808, 109ASCMR, Sindacati (1790-1817), c. 100v.   per l’anniversario dell’incoronazione l’11 maggio 1809 “al levar del sole si sono suonate tutte le campane, a mezzo giorno si è cantato il Te Deum nella Chiesa Parrocchiale, alla sera stato illuminato il paese. 110ASCMR, Registro delle lettere (1808-1809), p. 184, 12 maggio 1809.   
    Stemmi pontifici nei luoghi pubblici o nelle chiese non c’erano; se c’erano stati un tempo essi vennero distrutti durante il “triennio giacobino” come da ordine avuto nel maggio 1797, 111Nocchi A., Ceccarelli R., Editti e Bandi del sec. XVIII, cit., p. 97.   comunque nel marzo 1809 “mancava ancora lo stemma reale dell’augustissimo Sovrano”, il sindaco Salvati si impegna che esso “verrà fatto quanto prima e messo sulla porta principale di questo comune”.112ASCMR, Registro delle lettere (1808-1809), p. 152 del 7 marzo 1809.   
    La Marina Reale intanto per la riparazione o la costruzione di nuove navi aveva provveduto a far individuare e segnare le querce del territorio. 113Ivi, p. 138, lettera del 13 febbraio 1809, n. 45.   
    La politica di Napoleone chiedeva eserciti numerosi ed efficienti, era stata così istituita anche per il Regno d’Italia la coscrizione obbligatoria e non pochi erano quelli che rifiutavano di presentarsi alla chiamata alle armi e si davano alla clandestinità infoltendo gruppi di sbandati, chiamati gli uni e gli altri genericamente “briganti”. Un fenomeno di proporzioni notevoli che interessò anche la nostra zona e quelle limitrofe, accentuato anche dalla crescente povertà della popolazione rurale. Le autorità civili chiedevano collaborazione ai parroci per individuare i soggetti alla leva (solo le parrocchie avevano fino allora l’anagrafe desunta dai Registri di Battesimo e a tal fine proprio in questi anni viene istituita l’anagrafe civile), e poi per la lettura degli ordini di chiamata o delle sentenze di condanna dei “briganti”.
    “Briganti e traviati” vengono segnalati nell’agosto 1808 nelle vicinanze di Apiro, il sindaco Salvati preoccupato della pubblica quiete chiede che la truppa acquartierata allora in Massaccio venga mantenuta e lo difenda dal momento “che il Massaccio è fornito di ogni sorta di provvigione, per cui se mai i medesimi si impadronissero prenderebbero un vigore maggiore, ne verrebbe una conseguenza fatalissima, e molto dannosa tanto per la perdita delle sostanze, che della vita di molti individui di queste parti”.114Ivi, pp 51-52, lettera del 30 agosto 1808, n. 134.   
    Quasi un anno dopo, il 23 luglio 1809, il comandante della Guardia Nazionale di Monte Roberto e Uniti, Berarducci, parte con 17 soldati nazionali alla volta di San Paolo al fine di “dissipare quella Banda di Briganti, che si è affacciata in questo distretto e precisamente tra il confine del Comune di Jesi e quello del Cantone di Cingoli in Gangalia”.115Ivi, pp. 220, lettera de123 luglio 1809, n. 233.   
    Il Tribunale Militare di Ancona con sentenza del 29 dicembre 1808 aveva condannato a due anni di detenzione Giuseppe Ragno, originario di Staffolo, fornaro e barbiere domiciliato a San Paolo e balivo del comune, “accusato d’essere un partitante de Briganti”, mentre aveva assolto Giovanni Bondoni, calzolaio e canapino di Massaccio, dall’accusa di “aver tenuto discorsi il 22 agosto all’effetto di promuovere li Giovinotti di non obbedire alla legge riguardante alla Conscrizione, spingendoli di perdere l’armi di riunirsi ai Briganti”.116ASCC, Editti Bandi Decreti (1808-1809) vol. II, pag. 191.   
    Malacari, Vice-Prefetto del Distretto di Jesi, il 2 giugno 1809 segnalando che due briganti sono comparsi nelle campagne di Castélplanio e Montecarotto, ricordava a tutti gli abitanti del distretto il dovere di farli arrestare e continuava: “Resta pertanto diffidato ogni Cittadino specialmente delle campagne, che sarà punito con l’arresto e col rigor delle leggi, qualora emerga che potendo consegnarli, o farli consegnare alla forza pubblica, non l’avrà eseguito, o che avesse prestato loro volontario soccorso, o che forzato a trattenersi seco loro non n’abbia fatto subito avvertire l’autorità e il Capo della Pattuglia Nazionale più vicino”.117Ivi, p. 324.   
    Nonostante l’impegno della forza pubblica ed alcuni successi contro i “briganti”, il fenomeno continuò sia nel Dipartimento del Metauro che in quello del Musone: nel 1812 ancora si danno ordini, si organizzano “Colonne Mobili’, si mettono taglie, si promettono ricompense o segnalazioni presso il Viceré per chi avrà contribuito a “far cessare in brigantaggio”.118ASCC, Editti Bandi Decreti (1812), vol. IV, p.146(18 dicembre 1812); p. 148 (11 dicembre 1812); p. 150 (27 dicembre 1812).   
    In Monte Roberto episodi di non risposta alla chiamata alle armi e di conseguente brigantaggio non si verificarono, almeno nei primi tempi; il sindaco Salvati in una lettera al Prefetto del Dipartimento del Metauro Casati, così sottolineava la tranquillità del paese e la sua sottomissione alle leggi nell’ultimo decennio e con il succedersi dei vari governi:  “[…] In febbraio del 1797 la Repubblica invase una parte dello Stato Pontificio, e fra tutta la Marca, e nel tempo del suo Governo provvisorio, che si sollevarono molti popoli, questo Paese non si mosse, e restò sempre subordinato alle leggi fino alla Pace di Tolentino. Quindi rientrò il Pontificio Governo, e Monteroberto restò sempre tranquillo. […] rientrarono [poi] le Armi Francesi in tutto lo Stato Pontificio, ne formarono l’estinta Repubblica Romana, ed i Paesi e Popoli di quasi tutta la Repubblica in più epoche di tempo ed in più, e più circostanze fecero infinite rivoluzioni suonando per ogni dove Campane a Martello, e questo Paese, in cui io ero Edile, non prese le armi verun cittadino, e nessun cittadino suonò le Campane a Martello.
    Cessò qua il comando dell’indicata Repubblica Romana a Novembre del 1799 e subentrò l’Imperiale Reggenza Austriaca il di cui comando durò circa sette mesi, nel qual periodo di tempo io fui qui Presidente di un Reggenza Provvisoria, e -questo Paese fu sempre subordinato alle leggi e non si mosse veruno.
    Nel Giugno del 1800, se non prendo errore, tornò ad occupare le Stato il vivente Pontefice Pio VII e dal tal tempo fino alli 11 del perduto Maggio questo Paese fu sempre quietissimo, e subordinato a tutte le Leggi. Da tale epoca delli 11 che entrò a comandare in questi tre Dipartimenti Napoleone il Grande Imperatore de Francesi, e Re ‘d’Italia fino al giorno di oggi Monteroberto con i due Paesi riuniti di Castelbellino, e Sanpaolo, sono stati subordinatissimi, ed obbedienti alle Leggi vigenti del Governo. L’affare della presente coscrizione me ne dà una prova molto grande.
    Dal primo all’ultimo Conscritto tutti hanno obbedito all’Istruzione dei 21 Novembre 1807 e modificazione dei 6 Luglio perduto, ambi di Sua Eccellenza il Sig. Ministro di Guerra, e mio avviso al Publico dei 2 corrente, tantoche attesa l’indicata subordinazione dei Giovani Coscritti di questo Comune, e loro sperimentata osservanza a tutti gli ordini Sovrani, mi trovo con mia somma consolazione quasi al termine dell’ultimazione di tutte le liste delle tre classi della Coscrizione del 1808. 119ASCMR, Registro di lettere (1808-1809), pp. 35-36, lettera del 7 agosto 1808, n. 96

  • 130 5.9 UN GOVERNATORE A STAFFOLO

    130 5.9 UN GOVERNATORE A STAFFOLO

    Dopo la sconfitta di Napoleone e quella di Gioacchino Murat, il Congresso di Vienna (1815) decretava la ricostruzione dello Stato della Chiesa. Pio VII il 6 luglio 1816 riordinava lo Stato Pontificio; Jesi fa parte della Delegazione di Ancona e pur essendo sede in un governo distrettuale non risorge l’antico contado.


    La Segreteria di Stato con un editto del 26 novembre 1817 mette nuovo ordine nelle amministrazioni locali decidendo che con il 1° gennaio 1818 alcuni comuni aggregati ritornino nella piena autonomia.
    La decisione per l’autonomia di Castelbellino e San Paolo è comunicata con circolare della Delegazione di Ancona del 7 dicembre 1817, cinque giorni dopo si riunisce il Consiglio Comunale di Monte Roberto e Aggregati, i consiglieri di San Paolo protestano e vogliono rendere nulla la seduta stessa: si fa osservare comunque che l’autonomia sarebbe iniziata il 10 gennaio 1818, non il 13 dicembre. 120ASCMR, Consigli (1809-1827), pp.123 e 129.   Una nuova seduta del Consiglio del 19 dicembre provvede alla sostituzione dei consiglieri di San Paolo e di Castelbellino che con il nuovo anno “vengono a distaccarsi e formare ciascuno Comunità separate”.121Ivi, p. 129.   
    Con il ritorno del governo pontificio si era cominciato a studiare e a mettere in atto la riforma amministrativa con nuove circoscrizioni territoriali e relativi capoluoghi.
    Massaccio, Poggio Cupro, Scisciano, Maiolati, Monte Roberto, Castelbellino, San Paolo e Staffolo dovevano formare una nuova circoscrizione. Massaccio con i suoi 3.525 abitanti già “governo di seconda classe”, un palazzo comunale ampio e accogliente, capacità recettive in locande e osterie ubicazione centrale tra i comuni del piccolo distretto, rivendicava nei confronti di Staffolo la sede di capoluogo. Sottolineava in particolare la difficoltà dei cittadini di Maiolati, Monte Roberto e Castelbellino nel raggiungere Staffolo, “intersecato da due torrenti Fossato e Cesola, i quali nella maggior parte’ del Verno sono rovinosi ed intransitabili”.
    Le autorità di Massaccio nell’agosto 1815 scrivono al card. Consalvi Segretario di Stato, poi anche al card. Diego Innico Caracciolo già Governatore di Jesi (1790- 1795) ed in stretto rapporto epistolare con la comunità che lo aveva eletto suo “patrono” e “protettore”, fecero loro pervenire memoriali esplicativi: la questione era rimandata al Delegato di Ancona che avrebbe preso in considerazione le motivazioni addotte da Massaccio.
    Il paese chiedeva di essere capoluogo-sede di un Governatore “Giusdicente”, di un governatore cioè che esercitasse funzioni anche di giudice per vertenze minori che poi erano le più numerose. Si insistette su questa richiesta per tutto il 1816 e nei primi sei/sette mesi del 1817: la conclusione fu che Staffolo fu scelto definitivamente, con il 1818, come sede del “Governo Giurisdizionale” con un governatore residente, Carlo Fabrini fu il primo, mentre in ogni altro comune sarebbe stato eletto per un biennio un vice-governatore. 122ASCC, Petizione per Giusdicente (1815-1817). Riparto dei Governi e delle Comunità dello Stato Pontificio con i loro rispettivi Appodiati, Vincenzo Poggioli Stampatore, Roma 1817, p. 486.  A questa carica il Consiglio Comunale di Monte Roberto elesse il 19 dicembre 1817 Emidio Salvati con un onorario annuo di 60 scudi. 123ASCMR,  Consigli (1809-1827), pp. 131-132. 
    L’art. 168 del Motu Proprio di Pio VII del 6 luglio 1816 dava particolare importanza alla redazione del bilancio preventivo (Tabella Preventiva) che doveva essere compilato entro il mese di agosto dell’anno precedente. Il Consiglio Comunale di Monte Roberto e Aggregati il 25 agosto 1817 lo discuté e lo approva, è un bilancio per tutte e tre le comunità ancora unite, non si sapeva infatti che con il 1° gennaio 1818 Castelbellino e San Paolo avrebbero ottenuto l’autonomia.
    Complessivamente il bilancio è di 1754,74 scudi, l’entrata più importante è data dalla tassa sul bestiame, scudi 1218,70; tra le spese, oltre a quelle per i salariati (medici, 291,30 scudi; chirurghi, 100; postiglioni, 31,92; maestri, 106,20 ecc.) una voce considerevole è quella relativa alle somministrazioni caritative, 187 scudi. Da questo anno vengono ripristinati gli onorari per il procuratore a Roma e per il predicatore della quaresima. 124Ivi, pp. 112-113.   
    Nel bilancio per il 1819 che si riferisce evidentemente al solo comune di Monte Roberto, si prevedono in entrata e in uscita 952,05 scudi, dal bestiame, eccetto “i bovi aratori”, si ricava scudi 762,90; in uscita “alla città di Jesi per i spilli” scudi 124,52. 125Ivi, pp. 139.  
    Il preventivo per l’anno 1820 è all’incirca come quello dell’anno prima 935,32 scudi; in luogo della tassa su bestiame (“L’industria sul bestiame tanto utile al commercio, quanto necessaria per gli ingrassi, è affatto distrutta”), vi è la tassa sul seminato a grano (scudi 772,45), identica la tassa per gli spuri.126Ivi, pp. 162-163. 
    Nel 1821 ritorna la tassa sul bestiame mentre aumenta la spesa per gli esposti, 144,42 scudi. 127Ivi, pp. 184. 
    Un bilancio più ristretto quello del 1822, 894,80 scudi; è abolita la tassa sul bestiame ed introdotta quella sul focatico rustico (815 scudi) e urbano (15 scudi): “la Metà del focatico rustico sarà pagata dai Coloni e l’altra metà dai rispettivi padroni del fondo, come essi padroni hanno pagato la metà della colletta sul bestiame”. Quello urbano “verrà formato in sette gradi da pagarsi in proporzione delle facoltà [possibilità] degli artisti [artigiani] e giornatarij [braccianti]”. Diminuita per il 1822 la spesa per gli spuri, 112,89 scudi. 128Ivi, pp. 197-198.   
    Nel 1823 viene introdotta, per il 1824, una tassa sui “carri tirati a bovi”, pagabile metà dai padroni e metà dai coloni. 129Ivi, pp. 327.
    Fonti delle entrate erano sempre le imposte sui redditi agricoli, o sul bestiame o sulle famiglie impegnate nell’agricoltura in relazione al terreno coltivato e al suo estimo, o sul seminato a grano, quantitativamente potevano variare a seconda della situazione economica che si verificavano anno per anno. Per il 1824 è reintrodotta ad es. la tassa sul bestiame diminuendo in parte quella “sopra i fuochi”, “perché la scarsezza del raccolto de generi annorari percuotendo specialmente le famiglie miserabili, trovino esse un sollievo per questa parte”.130Ibidem  Entrate ogni anno erano previste poi dal dazio sul vino e sulle carni fresche, dagli affitti del forno e del macello, dalle tasse sulle strade provinciali (per la prima volta il bilancio per il 1824) così ripartite “per un terzo sopra i fuochi, per un terzo sopra i bestiami, per un terzo sopra il censo” e che in uscita erano destinate allo stesso uso. Per la manutenzione delle strade comunali e per le spese impreviste e straordinarie il bilancio prevedeva sempre, ma non grandi, disponibilità. 131Ivi, pp. 236 e 252.  
    A dieci anni di distanza dal documento di Pio VII, papa Leone XII stava predisponendo nel 1826 un nuovo documento sull’amministrazione pubblica rinnovando anche il “Riparto de Territori”: efficienza (“comodo e utilità delle popolazioni”) ed economia erano alla radice del provvedimento, specie per quanto riguardava il riordino delle amministrazioni locali, queste infatti avrebbero dovuto funzionare meglio e a costi possibilmente più contenuti.
    Venuti a conoscenza di questo progetto che la Delegazione di Ancona stava elaborando per il governo centrale, Massaccio provò di nuovo, come aveva fatto nel 1815-1817 a chiedere di essere fatto sede del Governo Giurisdizionale. di Staffolo. I motivi di efficienza e di economicità giocavano proprio in suo favore: la centralità delle sedi per tutto il circondario rendeva più efficiente il ruolo del governatore con una presenza più capillare nei paesi di sua competenza: “ogni cittadino potrebbe senza pena accedere al suo giudice. I Comuni sarebbero con più facilità diretti e sorvegliati. I buoni difesi, i rei atterriti […]”.
    La zona, oltre a quella del Governo di Staffolo, per raggiungere un congruo numero di abitanti come si richiedeva, avrebbe potuto essere addirittura allargata comprendendo anche Sasso, Rotorscio e Domo che erano sotto Sassoferrato, Precicchie, Porcarella (Poggio S. Romualdo) e Castelletta sotto Fabriano, Ficano (Poggio SanVicino) e Frontale sotto San Severino, Apiro e Colognola sotto Cingoli. Le ragioni addotte per Massaccio-capoluogo erano avvalorate dal fatto che da_ queste località e paesi la gente affluiva “continuamente e necessariamente in Massaccio per rapporti commerciali”: un’affluenza numerosa e secolare, soprattutto per il mercato e le fiere. 132Ceccarelli R., Il mercato dei lunedì di Cupramontana, in Quaderni Storici Esini, n. II-2011, pp. 133-149.   
    Il progetto di Massaccio fu presentato nelle opportune sedi romane, sembrava che non ci fossero opposizioni pregiudiziali e che anche “il voto della Delegazione di Ancona fosse in favore di Massaccio”. Contemporaneamente (agosto 1827) da Roma si scriveva a Maiolati sollecitando un’azione più convinta facendo sottoscrivere un ricorso da tutte le rispettive magistrature di Massaccio, Poggio Cupro, Scisciano Monte Roberto, Castelbellino e S. Paolo: i tempi erano molto ristretti, ma si poteva provare. L’agente in Roma che curava gli interessi di Massaccio, il Conte Alberto Alborghetti, il 28 agosto scriveva che tutti era ancora segreto e che “tutte quelle ragioni, che possono dirsi, tutte quelle riflessioni, che possono farsi, ed in voce, ed in scritto sono state da me fatte, e dette, a tutti quelli, che ho ritenuto potessero avere una qualche influenza. Di lusinghe ne ho avute moltissime […]”.
    Speranze purtroppo vane per Massaccio e paesi limitrofi: il 26 dicembre 1827 lo stesso Conte Alborghetti scriveva una lettera “riservata” al Gonfaloniere di Massaccio che il papa direttamente aveva deciso di sopprimere il Governo di Staffolo: “È stata mente decisa di N. [ostro] S. [ignore] che togliere qualunque fonte di competenza e di reclamo fra codesto Comune e quello di Staffolo sia in quella Comune soppresso il Governo, e tanto Massaccio, che Staffolo vengono ambedue portate sotto il Governo di Jesi”.133ASCC, Lettere varie (1826-1852).   
    Il Motu Proprio di Leone XII del 21 dicembre aveva dettato “norme communitative” nel titolo quinto (artt.161-227) e pur non accennando direttamente a questi “governi giurisdizionali”, parlava di un “Podestà” presente in ogni comune non sede di Governatore (art.19; l’art.32 ne fissava la competenze di giudice). A Staffolo Francesco Giorgi Alberti, governatore ormai in via di giubilazione, espletava ancora per tutto il 1828 alcune sue incombenze; 134ASCC, Atti 1828, tit. 3°. ASCC, Atti 1829, tit. 110.  a Monte Roberto, Podestà è nominato Emidio Salvati agli inizi del 1829, a Massaccio Paolo Pittori. Dopo l’Editto della Segreteria di Stato del 5 luglio 1831 le competenze del Podestà passarono al Governatore Distrettuale (per la nostra zona aveva sede in Jesi) che doveva essere invitato a ciascuna adunanza dei “Consigli Comunitativi”,135ASCC, Atti 1831, tit. 2°, circolare del 26 luglio 1831, Delegazione di Ancona, n. 4882.  in sua assenza ne avrebbe fatto le veci il Capo della Magistratura locale cioè il Priore. 136ASCC, Ivi, tit. 3°, circolare del 13 settembre 1831, Delegazione di Ancona, n. 7147.   
    Il Governatore di Staffolo per dieci anni aveva fatto da tramite tra le comunità di sua competenza e la Delegazione di Ancona ed aveva riassunto in sé, insieme ad altre, le competenze avute dalla figura del Governatore presente in ogni comunità dal 1816 al 1817, 137ASCC, Motu Proprio, Notificazioni (1816-1820), Notificazione del card. Consalvi del 18 settembre 1816.   Giambattista Leonardi lo era stato per Monte Roberto, Panfilo Franceschini per Massaccio.

  • 135 5.10 REPUBBLICA ROMANA (1849)

    135 5.10 REPUBBLICA ROMANA (1849)

    Gli avvenimenti che anticiparono i pochi mesi della Repubblica Romana (febbraio-giugno 1849), l’elezione di Pio IX (1846), le speranze che ne seguirono, i fatti convulsi verificatisi a Roma e in Italia nel corso del 1848, non produssero in paese grosse novità.
    Il fatto più importante fu quello della costituzione della Guardia Civica secondo il regolamento che era stato redatto e diffuso per tutto lo Stato Pontificio il 30 luglio 1847. Il corpo di Guardia Civica fu organizzato agli inizi del 1848 e posto sotto il comando del Capitano Alessandro Capitelli. Nel bilancio 1848-49 fu previsto l’acquisto di 30 fucili, furono programmate spese per la caserma, materiale di cancelleria, stampati, ecc.
    Tutto doveva funzionare nel migliore dei modi: furono previsti un tamburino, un inserviente, un armiere ed un istruttore. Al ruolo di Istruttore della Guardia Civica fu chiamato Giuseppe Merli di Castelbellino, già caporale e reduce dell’Armata napoleonica e quindi di provata esperienza.
    Il Consiglio Comunale il 12 giugno 1848 approvò la richiesta di quattordici componenti della Guardia Civica che, avendo scelto di vestirsi in uniforme a proprie spese, chiedevano però di essere forniti di daga e giberna a carico del Comune. Ed avevano scelto di farlo “per mostrare il loro leale attaccamento al Governo dell’immortale Pontefice e Sovrano Pio IX”. Questi i loro nomi: Sante. Amatori, Pacifico Barocci, Domenico Chiatti, Pacifico Amatori, Vincenzo Meloni, Pasquale Barcaglioni, Antonio Tesei, Francesco Ceccarelli, Pacifico Barcaglioni, Domenico Moretti, Francesco Zepparoni, Giuseppe Giuliani, Emidio Badiali.
    Come tamburino, non essendoci in paese, fu chiamato Ippolito Santinelli di Rosora, già tamburino della Truppa Militare di Riserva disciolta da quasi due armi. 138Palmolella Marco, “L’albero segato in Majolati”: Vicende della Repubblica Romana, Comune di Majolati Spontini 2004, pp. 105-106.   
    Poco meno di un mese prima, il 20 maggio, il Priore Giovanni Mecarelli e gli Anziani Ridolfo Capitelli e Angelo Scarabotti, attestavano che pur non avendo potuto fare il Comune alcuna offerta per le truppe che partecipavano con i Piemontesi a quella che sarebbe stata la prima guerra d’indipendenza (marzo – luglio 1848), avevano però fornito di vestiario, di daga e giberna e di soldo quindicinale al giovane volontario Cristofaro Camerini che era stato arruolato nella 3a Compagnia, 1° battaglione della la Legione Romana che nei primi giorni di aprile si era messa in marcia verso la Lombardia. 139Ivi, pp. 130-131.   
    Le notizie ufficiali delle fasi delle confuse vicende che Roma stava vivendo, arrivavano in Municipio attraverso i proclami, le notificazioni o gli appelli che venivano direttamente da Roma o da Ancona mentre le autorità comunali cercavano nel modo migliore di mettere in atto le disposizioni superiori.
    Il 21 gennaio 1849 gli elettori della città e della Provincia di Ancona elessero i rappresentanti del popolo per l’Assemblea Nazionale. Monte Roberto faceva parte del terzo collegio elettorale di Jesi che comprendeva i comuni di Jesi, S. Marcello, Monsano, Maiolati, Massaccio, Staffolo, Castelbellino e S. Paolo. 140ASCC, Editti Bandi Decreti 1849, Decreto del Delegato di Ancona del 15 gennaio 1849. L’Assemblea Nazionale, diventata Assemblea Costituente Romana, con il “Decreto fondamentale” del 9 febbraio 1849, “1 ora del mattino”, decideva all’art. 1 che “Il Papato è decaduto di fatto e di diritto dal governo temporale dello Stato Pontificio” e all’art. 3 che “la forma del governo dello stato romano sarà la democrazia pura e prenderà il glorioso nome di Repubblica Romana”.141Ivi, Decreto del 9 febbraio 1849. 
    Per 1’11 marzo era prevista l’elezione di tutte le Magistrature Municipali esistenti nel territorio della Repubblica secondo il “Decreto sugli ordinamenti dei Municipi” che aveva fatto il 31 gennaio la Commissione Provvisoria degli Stati Romani. 142Ivi, Decreto del Ministro dell’Interno del 10 febbraio 1849 e Decreto sugli ordinamenti dei Municipi del 31 gennaio 1849.  Monte Roberto, come tutti” i Comuni che hanno una popolazione minore di duemila abitanti” doveva eleggere 13 consiglieri che a loro volta avrebbero eletto il Priore e due Anziani.
    Lo stesso giorno che a Roma si insediava il Triumvirato (G. Mazzini, C. Armellini e G Saffi), il 19 marzo, gli eletti dell’11 marzo al Consiglio Municipale di Monte Roberto si riunirono per eleggere la Magistratura, nominando Benedetto Salvati Priore e Francesco Capitelli ed Arcangelo Scarabotti Anziani. 143ASMR,  Consigli (1843-1849), 19 marzo 1849, pagine non numerate. 
    La nuova situazione politica a Monte Roberto aveva cambiato ben poco; il fatto straordinario ed importante fu l’elezione “a suffragio universale”‘ per la prima volta del Consiglio Comunale, non però un “suffragio universale 144AS CC, Editti Bandi Decreti 1849, decreto del 10 febbraio 1849.  come lo intendiamo oggi (uomini e donne senza alcun riferimento ai beni posseduti): votarono infatti i cittadini possidenti maggiori di anni 21, i responsabili di enti morali o di aggregazioni ugualmente possidenti, “escluse le sole aggregazioni di donne”, non votarono “quelli che vivono di mercede giornaliera per opera manuale o meccanica, cioè di salario per opera servile [operai] e di elemosine”. e “tutti i lavoratori mezzadri, e che non possiedono beni immobili”.145Ivi, Decreto sugli ordinamenti dei Municipi del 31 gennaio 1849, artt. 11, 12, 13.   
    Un suffragio dunque universale solo per possidenti: in consiglio non mancarono quindi i Salvati, i Capitelli, gli Amatori, i Mecarelli, ecc. già presenti da decenni nella magistratura del paese.
    Ordinaria amministrazione in questi mesi per la nuova magistratura “democratica”, ma anche un progetto approvato che seppure imitava quanto si andava facendo in altri comuni, fu ugualmente importante per Monte Roberto, quello dell’illuminazione notturna dell’interno del paese, approvato all’unanimità il 29 aprile 1849.
    Le truppe francesi del Gen. Oudinot frattanto avevano attaccato il territorio della Repubblica anche se con alterne vicende; di fronte però al più impegnato intervento francese la sorte sembrava ormai segnata per la giovane Repubblica Romana, la cui Assemblea il 25 aprile aveva sollevato una energica protesta per l’intervento straniero e chiedeva ai municipi e ai circoli popolari una forte e convinta adesione non solo morale.
    Il Consiglio di Monte Roberto si riunisce il 3 maggio con un unico punto all’ordine del giorno: “Adesione alla protesta emessa dall’Assemblea Romana nella seduta del 25 scorso aprile contro l’intervento Francese”.
    Illustrate le circostanze che motivano l’atto di adesione, il segretario Barsimeo Bevilacqua aggiunge: “Cittadini! È questo il supremo momento, che si può decidere della salvezza della Patria. Ma si richiede energia, ordine, unione. Stringiamoci tutti intorno al vessillo Repubblicano, e giurando di difenderlo fin che ci rimanga un soffio di vita uniformiamoci agli altri Municipi, e convalidiamo anche del nostro appoggio la sublime decisione dell’Assemblea, cui il popolo affidò le nostre sorti”.
    Il Consiglio quindi all’unanimità approva l’atto di adesione: “Il Municipio di Monte Roberto, letta e considerata la protesta dell’Assemblea Generale Romana del 25 aprile 1849 vi fa solenne atto di adesione, dichiarandosi devoto al Governo della Repubblica”.146ASCMR, Consigli (1843-1849), 3 maggio 1849, pagine non numerate.   
    L’adesione del Municipio di Monte Roberto e di altri, non fu discussa invece né presa in considerazione dal Municipio di Massaccio, l’adesione del paese fu espressa dal locale Circolo Popolare Cuprense il 2 maggio che dichiarava “di volere concorrere per quanto è nelle sue forze, alla salvezza della Repubblica”.147Manganelli F., Memorie della Terra di Cupramontana, ms., p. 119, Biblioteca Comunale Cupramontana.
    Analogo Circolo Popolare era presente a Monte Roberto del quale facevano parte i fratelli Alessandro e Francesco Capitelli, segnalati nel mese di agosto in due lettere anonime affinché non venissero eletti nella Commissione Comunale Provvisoria che avrebbe sostituito in settembre il Consiglio di osservanza repubblicana. 148Palmolella Marco, op. cit., pp. 169-170, 238,   
    Tra la fine di maggio e gli inizi di giugno le truppe austriache restaurano lo Stato Pontificio nella Provincia di Ancona; Roma resiste ancora per qualche settimana: il 30 giugno si dimettono i Triumviri, il 3 luglio l’Assemblea Nazionale promulga la nuova costituzione, ormai inutile, mentre i francesi occupano la città di Roma.
     Una Commissione Comunale Provvisoria sostituisce a Monte Roberto il Consiglio eletto 1′ 11 marzo: è composto da quattro membri e tranne il pievano don Giuseppe Polidori deputato ecclesiastico, gli altri facevano parte del precedente consiglio, Guglielmo Guglielmi, ora Presidente, Giovanni Mecarelli e Benedetto Salvati già Priore.
    La Commissione Comunale Provvisoria rimarrà in carica fino alla promulgazione dell’Editto della Segreteria di Stato del 24 novembre 1850: il Consiglio è ora composto da 16 membri, un Priore, quattro Anziani e undici consiglieri.
    In una delle ultime sedute della Commissione Provvisoria, in esecuzione dell’ art. 186 del Motu Proprio di Leone XII del 21 dicembre 1817 che prevedeva deputati ai pubblici spettacoli, vengono eletti a quest’ufficio Alessandro Capitelli e Agapito Salvati, quest’ultimo giovane di appena 21 anni. 149ASCMR, Consigli (1850-1859), p. 3, 8 luglio 1850. 
    Si affaccia così alla vita pubblica, per la prima volta, Agapito Salvati (1829- 1897) che dopo aver partecipato, rimanendo ferito, alla battaglia di S. Martino (24 giugno 1859) nel corso della seconda guerra d’indipendenza, fu il primo sindaco di Monte Roberto dopo l’unità d’Italia, rimanendovi per ben 36 anni (1861-1897).

  • 141 6.1 DALLA PIEVE ALLA PARROCCHIA

    141 6.1 DALLA PIEVE ALLA PARROCCHIA

    L’intero territorio di Monte Roberto era compreso fino al sec. XIII nell’ambito della Pieve di Morro Panicale che si estendeva anche all’attuale territorio di Castelbellino e di Maiolati. Era una delle sette pievi della diocesi di Jesi, la seconda per ampiezza per un totale di kmq. 40,85. 1Urieli C., Jesi e il suo Contado, vol. II, p. 150.
    Molte erano le chiese sparse nel territorio di Monte Roberto, di queste, tranne l’abbazia di S. Apollinare, rimane soltanto il ricordo in qualche toponimo o il nome segnato negli antichi catasti.
    Chiesa di S. Silvestro de Curtis, sorgeva in un omonimo fondo; se ne ha memoria oggi nel nome di via S. Silvestro nei pressi del quale era ubicata la chiesa stessa. È ricordata per la prima volta nel 1290 quando già era parrocchiale, ma doveva essere più antica. Verso la prima metà del Quattrocento era distrutta e sostituta da una nuova chiesa con lo stesso titolo costruita a ridosso delle mura castellane. Negli ultimi decenni del Settecento fu demolita per far posto alla nuova chiesa parrocchiale. 2Cherubini A., Le antiche pievi della Diocesi di Jesi, cit., pp. 64-65.
    Chiesa di S. Apollinare, ricostruita nel sec. XIII, ancora esistente, di essa si parlerà più ampiamente nelle pagine seguenti.
    Chiesa di S. Giovanni di Antignano, era la chiesa dell’omonimo monastero che sorgeva non lontano dall’abbazia di S. Apollinare. Chiesa e monastero, duramente attaccati dai soldati del comune di Jesi nel 1284, sopravvissero per almeno altri due secoli, fino alla metà del XV secolo. 3  Urieli C., :lesi e il suo Contado,vol.I, tomo 2, p. 283.Urieli C., Jesi e il suo Contado, vol.11, p. 172 e pp. 197-198. Cherubini A., op. cit., pp. 65-66.
    Chiesa di S. Antonio di Antignano, nei pressi di quella di S. Giovanni di Antignano di cui era probabilmente una dipendenza: è ricordata dall’attuale via S. Antonio nei pressi di Passo Imperatore lungo la strada provinciale “Planina”. 4Cherubini A, op. cit., pp. 66-67.
    Chiesa di S. Elena della Serra, è ricordata in un catasto jesino (nel fascicolo “Monte Roberto”) della seconda metà del Quattrocento. Difficile una sua esatta ubicazione, il toponimo richiama zone sia a destra che a sinistra del torrente CesoIa sia un’area nei pressi della chiesa di S. Giorgio, con tutta probabilità era ubicata in quest’ultima zona. 5Ivi, p. 67.
    Chiesa di S. Giorgio, la chiesa è attribuita a volte al territorio di Castelbellino, altre a quello di Monte Roberto, nel luogo dove sorgeva infatti (Borghetto) corre tuttora il confine tra i due comuni; nelle visite pastorali fino al 1747 è compresa nella zona parrocchia di Monte Roberto, dal 1750 in poi – dopo la sua ricostruzione – in quella di Castelbellino. È ricordata per la prima volta nel 1105 e andò in rovina verso la metà del Settecento. Abbazia camaldolese, appartenne poi ai monaci di S. Biagio di Fabriano. 6Ivi, pp. 63-64. Priva del necessario per essere officiata, nel 1726, “niente ha della chiesa se non il nome, serve da granaio e da magazzino”, è quasi una stalla. La situazione non cambia di molto nel 1740: è officiata una sola volta all’anno, provvedono i fratelli Meriggiani, enfiteutici dei beni, che ricevono l’ordine di demolirla. Il 15 novembre 1741 si fa un contratto tra Francesco Meriggiani ed il Monastero di S. Biagio di Fabriano in cui il Meriggiani si obbliga a ricostruire la chiesa. 7ASCMR,  Registro  delli Bollettini (1711-1775), c. 230v. Viene ricostruita verso il 1747, poco distante, in contrada Montali, nei pressi della Villa Meriggiani; nel 1750 è abbastanza decente. 8Urieli C., Archivio Diocesano Jesi – Visite Pastorali, ds. 1989 p. 214.
    Buona parte delle chiese è di Origine monastica, alla presenza operosa dei monaci benedettino-camaldolesi si deve la rinascita economica e sociale della Valle dell’Esino, essi inoltre hanno avuto un ruolo non indifferente nella “cura d’anime” nelle zone dove erano presenti.
    Il sistema organizzativo ecclesiastico delle pievi realizzatosi contemporaneamente alla loro presenza andò dissolvendosi con il formarsi dei castelli nei sec. XII-XIII.
    Si assiste così nel corso del Trecento al “radicale rinnovamento della struttura territoriale della diocesi di Jesi”, “nascono pertanto altrettante parrocchie quanti sono i castelli del Contado”, mentre vengono meno tante altre piccole parrocchie rurali facenti capo ad altrettante chiese. 9Urieli C., Jesi e il suo Contado, vol. II, pp. 141-169.
    Da ricordare inoltre come le abbazie benedettino-camaldolesi conoscano dal Trecento al Quattrocento una crisi irreversibile che le porterà a ridurre di molto la loro presenza numerica e patrimoniale, molti dei loro beni passano infatti al Vescovo e al Capitolo della Cattedrale, i terreni dell’Abbazia di S. Apollinare, ad es., diventano proprietà del Priore della Cattedrale di Jesi, l’Abbazia di S. Benedetto dei Frondigliosi di Castelplanio e relativi beni del Vescovo di Jesi.
    Una profonda trasformazione si verifica nella struttura della chiesa jesina in questi secoli segnando direttrici e costanti, assetto territoriale, proprietà fondiarie ed enfiteusi ecc., che arrivano fino all’Ottocento; la divisione parrocchiale secondo i castelli invece rimarrà sostanzialmente invariata fino ai nostri giorni.
    Per Monte Roberto già nel 1290 troviamo che la chiesa di S. Silvestro di Curtis è detta parrocchiale una delle tante parrocchie del sistema plebale. È del 1381 invece un documento che parla di un “Presbiter Montis Roberti” insieme a “presbiteri”, “pievani” degli altri castelli del Contado: 10Ivi, p. 156. non si elencano più le chiese e i relativi titoli secondo la struttura delle sette pievi usata fino allora, segno evidente che già il sistema parrocchiale secondo il territorio dei castelli, almeno per quanto riguarda il territorio rurale del contado, era un dato di fatto.

  • 143 6.2 I PARROCI E IL CLERO

    143 6.2 I PARROCI E IL CLERO

     Probabilmente don Pietro Brancoli da Gualdo, ricordato, come cappellano in Monte Roberto nella chiesa di S. Silvestro, il 30 ottobre 1553, 11ASCMR, Trasatti (1529-1568), c. 197r. non era il parroco, dal titolo non sembrerebbe, la serie dei parroci comunque inizia, dai nomi conosciuti, l’anno dopo con don Costantino Scevola da Spello che prese possesso della parrocchia il 13 luglio 1554; 12Zenobi C., L’episcopato di Mons. Gabriele del Monte (1554-1597), Jesi 1989, p. 181. non conosciamo l’identità dei parroci precedenti, sappiamo però che erano presenti in paese almeno da due secoli.
    Don Costantino non conosceva quasi affatto il latino, era poco adatto alla cura d’anime, non spiegava il vangelo alla domenica e non faceva il catechismo ai bambini, teneva però in un certo buon ordine la chiesa parrocchiale ma doveva meglio conservare registri dei matrimoni e dei battesimi 13Ivi, pp. 81, 177e 180. prescritti dal Concilio di Trento (Sessione XXIV, 11 novembre 1563). Per don Costantino l’essere parroco, come per i titolari di analoghi uffici nel suo tempo, era più un godere del beneficio, cioè delle rendite finanziarie legate alla sua parrocchia, che non una missione pastorale, la nomina del resto l’aveva avuta da mons. Pietro del Monte, “esperto in cose militari più che in uffici della Chiesa 14Urieli C., La Chiesa di Jesi, Jesi 1993, p. 252. nel breve tempo del suo episcopato jesino. Per far fronte ai suoi doveri pastorali veniva invitato formalmente a provvedersi di un idoneo coadiutore approvato dal vescovo, cui affidare il catechismo, la predicazione domenicale e l’amministrazione dei sacramenti.
    Nel 1585 come successore di don Costantino troviamo don Servolo Scevola da Spello, probabilmente suo nipote o parente stretto. Il parroco non era l’unico sacerdote del paese, c’era anche il cappellano della Chiesa Nuova o Chiesa di S. Maria del Buon Gesù, costruita nel 1567, con specifici obblighi di officiarla su mandato della Comunità: il cappellano in genere, come vedremo, era anche maestro nella locale scuola. Come cappellani in questo scorcio di secolo troviamo don Ercole Fiorani 15  ASCMR, Consigli (1608-1616), cc. 99r/v, 9 aprile 1613. e don Giovanni Santi. 16Ivi, c. 52. L’ufficiatura della Chiesa era concessa anno per anno dal Consiglio della Comunità; venivano preferiti, quando c’erano, i sacerdoti novelli nativi di Monte Roberto: nel 1613 l’ebbe don Domenico Polidori 17ASCMR, Consigli (1608-1616), cc. 99r/v, 9 aprile 1613. che aveva celebrato la prima messa nel novembre dell’anno prima, 18Ivi, c.90r. l’incarico gli sarà riconfermato l’anno successivo a patto che avesse avuto la facoltà di confessare. 19Ivi, c:141 v.
    La celebrazione della messa di neo-sacerdoti sia di Monte Roberto che di Castelbellino veniva accompagnata da un dono delle due comunità invitate alla cerimonia: don Angelo Colini nell’estate del 1603 ebbe dalla Comunità di Monte Roberto 3 libbre di cera, 4 coppe di grano e 1 soma di vino, 20ASCMR, Sindacati (1602-1608), cc. 53r/v. a don Simone Rinaldi di Castelbellino il Consiglio di Monte Roberto decise di fare “l’elemosina come agli altri e in caso che non si abbia vino si supplischi con il grano”; 21ASCMR, Consigli (1608-1616), cc. 86r/v, 26 agosto 1612. Cinquant’anni prima ad un sacerdote novello di Castelbellino fu offerto un cero (Entrate e Uscite (1558-1586), c. 60r, settembre-ottobre 1563), analoghi doni in quegli anni furono fatti a neosacerdoti di Monte Roberto (Ivi, c. 17r, 1559; c .99r, 1595) e a frati di Castelbellino (Ivi, c. 121r, 1569). don Dionisio Capitelli di Monte Roberto, monaco benedettino, nel 1667 ricevette in dono una soma di grano e una soma di vino. 22ASCMR, Consigli (1665-1676), cc. 52r/v, 29 settembre 1667.
    Se oggi assistiamo ad un progressivo ridursi delle presenze sacerdotali nei piccoli paesi anche nella titolarità delle parrocchie, in passato esse erano ben più numerose: a Monte Roberto nel 1726 c’erano 6 preti, un diacono e 3 chierici (a Castelbellino 4 preti e un diacono), nel 1740 8 preti e 4 chierici (Castelbellino 4 preti), nel 1755 i preti erano 11 (Castelbellino 5), 4 nel 1869 (Castelbellino 3) e nel 1896 (Castelbellino 2).
    In genere erano i figli delle famiglie più abbienti che venivano avviati alla vita ecclesiastica, alcuni potevano far carriera, altri per lo più rimanevano in paese trovando sostentamento nei beni di famiglia, qualche volta erano occupati come maestri di scuola concorrendo per cattedre in altri paesi, spesso facevano parte del Consiglio di Monte Roberto.
    Erano responsabili di qualche confraternita e poteva venir loro affidata l’ufficiatura in altari laterali della chiesa parrocchiale senza che il parroco vi potesse intervenire; responsabili anche di particolari raccolte di offerte, come ad esempio per le Anime Purganti, ne rispondevano direttamente al Vescovo o alle confraternite stesse.
    Non infrequenti erano i dissapori e le liti tra gli stessi sacerdoti per la divisione e la distribuzione degli emolumenti derivanti da alcune prestazioni liturgiche; qualche caso di vita poco esemplare era punito dal vescovo magari con l’obbligo di esercizi spirituali. Se qualche sacerdote lasciava desiderare una migliore testimonianza, altri ce n’erano veramente degni di venerazione come don Luigi Guglielmi descritto dal sindaco Filippo Salvati nel 1809 come “l’uomo più savio, il più ben educato, il più caritatevole, il più probo che sia nel mio comune, a sentimento di chi ha la sorte di conoscerlo”.23  ASCMR, Registro di lettere (1808-1809), p. 218, lettera al Vice Prefetto del Distretto di Jesi,  del 19 settembre 1809.
    Dal 1643 al 1649 fu parroco don Teodorico Leoni di una nobile famiglia di Staffolo, di cui alcuni esponenti ebbero cariche pubbliche a Monte Roberto nel corso del Seicento e Settecento acquistandovi proprietà fondiarie ed immobiliari.
    Ottenne la parrocchia di Monte Roberto nel 1681 don Giovanni Bernardino Ferranti di Massaccio (Cupramontana). Aveva conseguito la laurea in diritto civile e canonico presso l’Università di Macerata a soli 22 anni. Sacerdote nel 1658 insegnò a Castelplanio, Massaccio, Monsanvito e nel Seminario di Jesi. “Dura tutto di – scriveva il Menicucci nel 1790 – il grido dell’arte sua singolare nell’insegnare ai giovani le belle lettere”. 24Menicucci F., Dizionario Istorico de Cuprensi-montani, in Antichità Picene di Giuseppe Colucci,  vol. IX, Fermo 1790, pp. CXIV-CXV. Fece parte di numerose accademie e letterarie, dei Germoglianti e degli Inariditi di Massaccio, dei Disposti e dei Riverenti di Jesi, dei Sorgenti di Osimo e dei Filergiti di Folli. Governò la parrocchia “con somma edificazione di quel popolo” fino al marzo 1701.
    Alla morte di don Pier Francesco Sebastianelli nel 1736, che aveva retto la parrocchia per 35 anni, gli succede don Girolamo Noni, il posto comunque gli viene conteso da don Marino Moriconi da dieci anni parroco a S. Maria Nuova, che ebbe la parrocchia “per giustizia” dopo un ricorso a Roma; 24bisMenicucci F., Varie notizie istoriche di Cupra Montana o sia Massaccio, vol. I, cc. 19v e  20r. Fondo Menicucci, Archivio Storico Parrocchiale S. Leonardo, Cupramontana. il consiglio della Comunità però si era schierato dalla parte di don Girolamo, “è possidente di beni patrimoniali”, si osserva, e “con l’entrare in questa Pieve [può] far risplendere la Chiesa parrocchiale con abbellirla di fabbriche, quanto con dotarla di decenti suppellettili”. 25ASCMR, Consigli (1735-1755), c. 9r, 3 aprile 1736. Alla prematura morte di don Marino Moriconi la parrocchia venne affidata nel 1737 a don Lucio Rocchi che oltre ad essere pastore zelante e capace fu per diversi anni confermato dal Consiglio della Comunità quale maestro, fino alla sua rinuncia, come maestro fatta il 30 aprile 1752. 26Ivi, c.270r.
    Alla generosa attività del parroco don Carlo Antonio Rocchi che sostituì Don Lucio nel 1765, si deve la costruzione della nuova chiesa parrocchiale iniziata nel 1769 ed ultimata nel 1789, nonostante che alla morte di don Carlo Antonio, avvenuta l’anno prima, gli eredi abbiano portato via tutto il legname, sia quello lavorato come i telai per le finestre, sia quello usato per le armature e nonostante che esso fosse stato acquistato con il denaro dato in elemosina dalla Comunità. 27  ASCMR, Consigli (1780-1793), c. 90r. 27 aprile 1788.
    Un carattere deciso, forse un po’ scontroso, ebbe don Paolo Breccia parroco dal 1806 al 1830: i tempi certo non lo favorirono nel renderlo più duttile, dai modi poco diplomatici, non rari erano gli scontri con le autorità politico-amministrative sia a livello comunale che distrettuale, dovettero ben conoscerlo, se non altro per le lettere inviate dal sindaco Filippo Salvati, il Vice-Prefetto distrettuale di Jesi, 28ASCMR, Registro di lettere (1808-1809), n. 36 dell’1.2.1809, pp. 134-135; n. 230 del  9.7.1809,   pp. 217-219; n. 270 dell’1.9.1809, pp. 235-237. il Prefetto del Dipartimento del Metauro 29Ivi, n .39 del marzo 1809, pp. 156-158. ed anche il ministro del Culto. 30Ivi, n. 290 del 14 dicembre 1808, pp. 111-113..
    Era giovane sacerdote don Paolo Clementi quando divenne parroco di Monte Roberto nel 1852, aveva celebrato la prima messa nel 1848. Vi rimase fino all’alba del nuovo secolo: i parrocchiani ne sperimentarono la bontà del pastore e la fine intelligenza del letterato. Don Paolo, fervido cultore delle lettere italiane e latine, poetava in latino, vero “maestro di latine eleganze”; era lo zio di Luigi Bartolini (1892-1963), artista poliedrico di Cupramontana che così lo ricorda: “… Zio Don Paolo…/ Don Paolo Clementi/ che scriveva versi in latino/ di primo mattino, /passeggiando a capo chino, / lungo e largo per il giardino/…”. 31Barteolini L., Pianete, Vallecchi, Firenze 1953, p. 247. Tra i più dotti sacerdoti della diocesi faceva parte di un cenacolo di letterati tra i quali don Antonio Zanotti (1814-1888) e mons. Giovanni Annibaldi (1828-1904) entrambi di Cupramontana di cui amava circondarsi il card. Carlo Luigi Morichini vescovo di Jesi nei momenti di riposo nella villa di Castelplanio. 32Urieli C., Cattolici a Jesi dal 1860 al 1930, Jesi 1976, pp. 25-60, 115. Urieli C., Il Cardinale Carlo Luigi Morichini, Jesi 2001, p. 50. Diede alle stampe non poche delle sue composizioni in latino 33Urieli C. (a cura di), La Diocesi difesi 1978, Jesi 1979, p. 437.   ricevendo riconoscimenti e plauso anche in versi. 34Novelli Nazzareno, Saggi Poetici, Tip. Romagnoli, Castelplanio 1895, pp. 34-39.   Novelli Nazzareno, Nel giubileo sacerdotale di Don Paolo Clementi parroco di Monte Roberto, Tip. Romagnoli, Castelplanio 1898, pp. 8.   
    Don Vincenzo Ciarmatori resse la parrocchia dal 1900 al 1936, era nato a S. Marcello nel 1869. “La sua azione pastorale assunse notevole importanza in campo diocesano quando, sempre restando parroco a Monte Roberto fu presidente della giunta diocesana di Azione Cattolica, operando attivamente per ricostruire, dopo lo sconquasso della guerra le varie organizzazioni cattoliche in stretta collaborazione con don Angelo Cappannini e don Angelo Battistoni. Notevole infatti era stata la sua attività anche in campo sociale, con l’istituzione nella sua parrocchia di due Unioni Agricole, l’una a Monte Roberto e l’altra a S. Apollinare. All’inizio del 1915 fondò nel paese la prima delle molte Case Rurali sorte in diocesi in quel periodo, avendo come collaboratore nella stessa Cassa don Luigi Nisi parroco di Castelbellino”. 35Rivista Diocesana, anno XXXII, Jesi 1984, p. 128.    Urieli C., Cattolici a Jesi dal 1860 al 1930, cit., pp. 367, 369, 412.
    Era un profondo conoscitore di Dante, citava a memoria interi brani della Divina Commedia. Scrisse anche un poemetto in tre canti in terzine sulla S. Casa di Loreto “Storia di un volo senza ali e senza motore”.36Tip. F.11i Rosati, Montemarciano 1930, pp. 48; sul frontespizio xilografia di Bruno da Osimo. Fu ristampata in Un ponte tra l ‘ appennino e l’infinito, a cura della Pro Loco di Monte Roberto, s.d., pp. 32-50.

    Morì il 6 febbraio 1942 a Jesi

  • 147 6.3 I PREDICATORI DELLA QUARESIMA

    147 6.3 I PREDICATORI DELLA QUARESIMA

    Il Concilio di Trento aveva sottolineato come fosse particolare dovere dei vescovi, degli arcipreti dei pievani e di tutti coloro che avessero cura d’anime nelle parrocchie, l’ufficio della predicazione (Sessione V, 17 giugno 1546, decreto secondo); sullo stesso argomento prescriveva poi, nel 1563, come specifico obbligo per i vescovi e per i parroci la predicazione “almeno tutte le domeniche nelle feste solenni, durante la quaresima e l’avvento del Signore, ogni giorno, o almeno tre volte la settimana, se lo credono utile, ed inoltre ogni volta che ciò possa essere stimato utile” 37Alberigo Giuseppe (a cura), Decisioni dei Concili Ecumenici, Utet, Torino 1978, p. 603 (Sessione XXIV, 11 novembre 1563, decreto di riforma, canone IV).  
    Non tutti i parroci misero in atto subito la prescrizione conciliare, anche se il vescovo di Jesi mons. Gabriele del Monte nel 1567 nella sua lettera ai sacerdoti e ai fedeli per la quaresima ne evidenziava l’importanza: “[…] per lo offitio della santa predicazione i populi si excitano a devotione”; 38Zenobi C., L’episcopato jesino di Mons. Gabriele del Monte, cit., p. 165.  tuttavia ben presto si organizzarono corsi di predicazione nei tempi più importanti dell’anno in avvento e in quaresima.
    La predicazione quaresimale acquistò particolare rilevanza non solo nelle grandi’ chiese della città dove si aveva l’occasione di ascoltare provetti predicatori alla presenza, nella cattedrale, della magistratura cittadina e del vescovo, ma anche nelle parrocchie dei castelli. Se nella città la predicazione poteva acquistare specie nel Seicento, un sapore coreografico, nei paesi era un avvenimento considerevole che coinvolgeva l’intera comunità. Nel bilancio annuale era previsto l’onorario per il predicatore, il Consiglio stesso della Comunità lo sceglieva e in un certo senso vigilava sul migliore andamento della predicazione e sull’impatto che essa aveva sul popolo.
    Il Consiglio di Monte Roberto al predicatore della quaresima del 1602 assegna 30 fiorini e 25 baiocchi; 39ASCMR, Sindacati (1602-1608).  19 scudi e 87 baiocchi nel 1609; 40ASCMR, Entrate e Uscite (1609-1620), c. 49v.  nel 1611 predica p. Arcangelo Martarelli da Montecarotto 41ASCMR, Consigli (1608-1616), cc. 59v/60r, 16 marzo 1610.  e gli vengono dati 20 scudi e 70 baiocchi; 42ASCMR, Entrate e Uscite.(1609-1620), c. 56v.per gli anni successivi l’onorario è di 21 scudi, diventano 13 e 20 nel 1616: il comune però si accolla le spese per l’affitto della casa, per le fascine e la legna per il riscaldamento e l’olio per l’illuminazione.
    Verso la fine del secolo troviamo che da anni alla conclusione della predicazione quaresimale “per carità” si dava al predicatore un agnello; il Consiglio nella seduta del 3 maggio 1694 decide interrompere la regalia “per non metterla in uso [cioè farla diventare una consuetudine], tanto più che non l’abbiamo in tabella” per rendere esecutiva la decisione tuttavia si doveva chiedere il nulla-osta al Governatore. 43ASCMR, Consigli (1676-1698), cc: 215r/v e 216r.  
    Qualche anno più tardi nel 1712, di nuovo “l’agnello [è] dato per carità al Predicatore”, non diventa però un fatto abituale tanto che tre anni dopo, per questo omaggio, non si prevede alcunché in bilancio: “Son di parere, dice il relatore in Consiglio, non darglisi veruna recognitione o regalo, e chi vorrà darglielo gli lo dij del proprio”. 44ASCMR, Consigli (1711-1735), c. 79r, 21 luglio 1715. Per tutto il Settecento l’onorario del predicatore è di 12 scudi, non molto forse, ma anche il parroco partecipava alle spese per la sua ospitalità in paese.
    La predica era quotidiana e al suono delle campane il popolo gremiva la chiesa. Non tutti i predicatori purtroppo rispondevano alle attese della gente, accadeva raramente ma accadeva, e allora se ne di discuteva anche nel Consiglio della Comunità: il popolo va in chiesa ma non sempre trova “chi dispensi loro il Pane evangelico’. Si verifica nella quaresima del 1755: il predicatore p. Boni domenicano, nonostante l’elemosina e quanto gli “somministra il parroco” si prende la libertà di lasciare delle prediche “con pregiudizio e scandalo del popolo”, il consiglio decide allora all’unanimità “che gli emolumenti si diano in proporzione alle fatiche e non per andare a spasso”. 45ASCMR, Consigli (1735-1755), cc. 270 e 272r, 20 aprile 1755.
    Col napoleonico Regno d’Italia (1808) dal bilancio comunale viene cancellato l’onorario per il predicatore della quaresima, sarà ripristinato con il ritorno del governo pontificio (1815). Avvento e quaresima comunque venivano ugualmente solennizzati con la predicazione.
    Nel dicembre 1808 il sindaco Filippo Salvati si rivolgeva direttamente al Ministro del Culto, “Senta Sig. Ministro e poi stupisca”, segnalando come il predicatore dell’avvento, p. Carlo da Staffolo, minore riformato del convento della Romita di Massaccio, scelto dal parroco, abbia proferito “parole piccanti ed offensive verso il pubblico, ed abbia fatto un’invettiva dal pulpito al popolo con sosquipedali (sic) ed altisonanti parole talmente improprie e indecenti dando generalmente fra le altre cose degli asini e birbanti a tutti gli ascoltatori” e tutto ciò, sottolineava il sindaco, con l’accordo più o meno tacilo del parroco don Paolo Breccia. “Il fatto fu serio e di molto scandalo”, molti si meravigliarono e ne parlarono con il sindaco, “come possa commettere sì forti insulti un Oratore che ha vantato dal pulpito di aver predicato nelle città capitali e metropoli”. 46ASCMR, Registro di Lettere (1808-1809), p. 111, n. 290, 14 dicembre 1808.  
    Negli anni successivi il controllo sui predicatori da parte del governo si fece più meticoloso. Una circolare prefettizia del Dipartimento del Metauro (Ancona) del 12 novembre 1812, n. 41592, prescriveva che “nessun predicatore potrà intraprendere il corso delle sue Orazioni senza essersi prima presentato a questa Prefettura e senza aver prima riportato la politica placitazione che verrà rilasciata sopra la licenza dell’Ordinario”, cioè del Vescovo.
    Nel febbraio 1814 il Prefetto Provvisorio Benincasa attenuava la prescrizione concedendo ai Podestà la facoltà di dare la “politica placitazione”; nel successivo novembre invece richiamò alla più stretta osservanza della circolare del 1812, anzi con una ulteriore circolare “riservatissima” si ordinerà “che ogni Comune ove si predicherà nell’imminente avvento, un impiegato od altra intelligente e proba persona di conosciuto attaccamento al Governo, assista alle prediche con tutta la possibile attenzione e sulle deposizioni da lui fatte di certa scenza (sic) e coscenza e sull’analisi delle parole e proposizioni proferite qualora l’oratore si renda meritevole di politica censura sarà dalla Superiorità giudicato”. 47ASCC, Atti, 1814, tit. 1°, Culto; circolari della Prefettura del Dipartimento del Metauro del 15 febbraio, 11 e 20 novembre 1814.
    Da non confondersi con la predicazione quaresimale o in tempo di avvento, le missioni al popolo che si tenevano di tanto in tanto: un corso di predicazione intensiva su tutto il territorio della parrocchia con particolari privilegi e facoltà da parte dei predicatori stessi. In ricordo delle missioni tenute a Monte Roberto nel giugno 1694 si costruì una croce di legno posta lungo la strada nei pressi del paese, 48ASCMR Consigli (1676-1698), c. 216v, 3 giugno 1694.  il luogo in genere era quello dove veniva dato il saluto o il commiato ai missionari. Per le missioni del 1770, predicate da p. Luigi da S. Remo, minore osservante riformato e da altri frati dello stesso ordine, il Comune si impegnò ad offrire legna, olio e generi alimentari. 49ASCMR Consigli (1766-1780), cc. 95v e 96v, 16 ottobre 1770.  
    Solo nel 1867 il Consiglio Comunale decise, con un solo voto di maggioranza di sopprimere definitivamente la spesa, che era di £. 63,84, “per l’onorario del predicatore quaresimale”, per due ragioni, “per il cattivo stato finanziario in cui trovasi il Comune […] e per il miglioramento della condizione economica del parroco a confronto di quella di una volta”. 50ASCMR, Deliberazioni Consigliari (1866-1876), p. 57, 31 gennaio 1867.

  • 151 6.4 DEVOZIONI E FESTE

    151 6.4 DEVOZIONI E FESTE

    La vita religiosa e la pietà popolare non hanno potuto e non possono prescindere da alcuni forti momenti di aggregazione come quelli delle feste.
    Esse, diventate tradizioni, hanno formato e delineato lo specifico carattere religioso di una comunità.
    Quella di Monte Roberto era caratterizzata da una sentita devozione al Crocifisso, a S. Silvestro, alla Madonna di Loreto e ad altri Santi.

  • 151 6.4A FESTA  DEL    CROCIFISSO.

    151 6.4A FESTA DEL CROCIFISSO.

    L’immagine del Crocifisso venerata nella chiesa parrocchiale presenta “caratteri artistici romanici o primo Rinascimento per cui può essere fatta risalire al sec. XVI o XVII”. 51 II Crocifisso di Monte Roberto. Un’intelligente opera di restauro, in “Voce della Vallesina”   n. 3 del 21 gennaio 1973, p. 3.   Diocesi di Jesi, III Mostra di Arte Sacra nella Vallesina, Jesi 1983, p. 122. Il restauro effettuato nel 1972 ha permesso di rilevare questi dati ed ha fatto ritornare anche il Crocifisso alla sua originaria bellezza, verso di esso la devozione del popolo di Monte Roberto è secolare. In tutti i momenti di particolari difficoltà per l’intera comunità il ricorso al Crocifisso era un fatto ovvio e scontato.


    Ad organizzare la festa e la processione con l’immagine del Crocifisso, che avveniva solo in circostanze eccezionali, era la Confraternita del SS. Sacramento e del Rosario che puntualmente riceveva un contributo da parte del Comune.
    Una solenne processione con l’immagine del Crocifisso si fece nell’aprile del 1741 dopo il terremoto di S. Marco (24 aprile) che distrusse, parte del paese, si ricorse alla sua intercessione “acciò ci liberi dal liberi dal flagello del terremoto”, allo stesso scopo si fece celebrare anche una solenne liturgia nella chiesa di S. Maria della Pietà. 52 ASCMR, Registro delli Bollettini (1711-1775), cc. 71r (3 scudi e 24 baiocchi per la processione, 90 baiocchi l’ufficio in S: Maria della Pieta da parte della pubblica amministrazione)..  Nel giugno dello stesso anno il Consiglio della Comunità decide di fare la spesa per 12 libbre di cera per il Crocifisso e far “celebrare un offitio Generale nella nostra chiesa della Madonna della Pietà, con quella celerità possibile, in suffragio delle Anime purganti, acciò mediante esse et il patrocinio della SS ma Vergine, questo luogo resti libero dalle scosse di terremoto e da qualunque altro castigo”. 53 ASCMR, Consigli (1735-1755), c. 84v, 1 giugno 1741.
    Nel 1758 si verificarono molti casi di pleurite, “per muovere [questo] flagello che con mortalità infesta il paese” il Consiglio decide di fare una solenne processione con l’immagine del Crocifisso che da 17 anni non veniva portata fuori della chiesa, 54 ASCMR, Consigli (1756-1766), e. 71r, 23 aprile 1758.la data scelta fu quella della festa dell’Ascensione, occorreva però il permesso del Vescovo che ben volentieri lo concesse. 55 ASCMR, Registro delle lettere dei Signori Superiori… (1703-1795), c. 120r. La festa e la processione furono precedute da un triduo con l’esposizione dell’immagine del Crocifisso, il Comune partecipò alle spese con 6 scudi per la cera. 56 ASCMR, Registro delli Bollettini (1711-1775), c. 156r.
    II 23 aprile 1769 il consiglio “per implorare l’ajuto Divino nelle presenti calamità, colle quali ci visita la Divina Misericordia, con Pioggie continue in gran copia perlocché, si vengono giornalmente slamarsi il terreno di queste pertinenze, e diroccarsi li muri del Paese, e cadere molte case, e del Castello medesimo, e della Campagna; ed altresì essendoci delle malattie; [ha] considerato opportuno ricorrere alla Misericordia di Dio perché ci liberi da ogni male, e a tale effetto farsi un Triduo in questa Chiesa Parrocchiale di S. Silvestro col esporsi l’Immagine del SS.mo Crocifisso di questa Comunità”. A questo scopo si decide ancora la spesa per 10 libbre di cera. 57 ASCMR, Consigli (1766-1780), c. 73r.
    Il contributo per la cera era sempre richiesto al Comune dalle confraternite del SS.mo Sacramento e del Rosario nella ricorrenza della “festività del Santissimo Crocifisso per vieppiù impegnare Sua Divina Maestà tenere lontano dalle nostre campagne il flagello della grandine”. Memorabile fu infatti una tempesta di grandine del 1733, in queste circostanze si accendevano lumi davanti all’altare del Crocifisso, l’immagine veniva scoperta e si recitavano preghiere dal popolo che riempiva la chiesa: era questa una usanza antica, “si è sempre praticata continuamente”, osservava il sindaco Filippo Salvati nel 1809. 58 ASCMR, Registro di lettere (1808-1809), P. 218, n. 230 del 19luglio 1809.
    Nel 1790 le confraternite del SS.mo Sacramento e del Rosario decisero di incrementare la devozione al Crocifisso fissando la festa all’ultima domenica di maggio facendola precedere da un triduo di predicazione e di preghiera: il Consiglio della Comunità invita alla festa 5 sacerdoti “forastieri” offrendo loro uno scudo (20 baiocchi per ogni messa). 59 ASCMR, Consigli (1780-1793), cc. 121v e 123r, 24 maggio 1790.
    Due anni dopo nel 1792 fu celebrata una festa straordinaria, il Governatore per tutelare l’ordine pubblico fece intervenire da Jesi una squadra di Dragoni. Per l’occasione nella nuova chiesa parrocchiale fu cantato “Il Trionfo di Davidde”, oratorio in musica composto da don Niccolò Bonanni maestro di cappella della Collegiata di S. Leonardo di Massaccio. Nel 1795 il Comune invita il locale macellaio ad organizzare uno “steccato” di 10 buoi in occasione della festa del Crocifisso: 60 ASCMR, Trasatti (1788-1802), 1 aprile 1795. c’erano dunque non solo manifestazioni religiose ma anche momenti di divertimento popolare. Con il nuovo secolo la data della festa venne spostata in agosto: il 31 agosto 1802 si celebra la festa con una presenza eccezionale, almeno per i nostri paesi, quella della Banda musicale della Truppa Papale di stanza a Jesi, il pranzo è pagato dal comune. 61 ASCMR, Sindacati (1790-1817), c. 80v.
    Nel 1805 in occasione sempre della festa del Crocifisso si ruppero le campane che necessitarono di una nuova fusione realizzata da Andrea della Noce, napoletano, per una spesa di scudi 32,50 sostenuta dalla pubblica amministrazione. 62 ASCMR, Consigli (1794-1808), cc. 150v, 151r/v, 7 luglio 1806.
    La devozione per il Crocifisso è sempre grande fra la popolazione di Monte Roberto: la festa si tiene di nuovo, nel 1809, nell’ultima domenica di maggio e si fanno celebrare messe in suffragio dei benefattori defunti con le offerte raccolte per le Anime purganti. 63 ASCMR, Registro di lettere (1808-1809), p. 185, 12 maggio 1809. Intanto la Prefettura del Dipartimento del Metauro aveva in quello stesso anno sospeso le questue in grano, granoturco e mosto, il sindaco Filippo Salvati supplica il Prefetto affinché rimangano le questue di S. Antonio e di S. Vincenzo e quella del Crocifisso che si fanno da tempo antichissimo, “se venissero soppresse, dice il sindaco, ci sarebbe malcontento tra le gente”. 64 Ivi, p. 215, 12 luglio 1809.
    Nel 1848, il parroco don Giuseppe Polidori “bramoso d’accrescere sempre più ne’ suoi Parrocchiani la devozione verso la prodigiosa Immagine del SS. Crocifisso”, chiede al card. Cosimo Corsi, vescovo di Jesi; “a volersi degnare di concedere l’indulgenza di 100 giorni per ogni volta che i fedeli visiteranno l’altare, ove sta riposta la detta Immagine, ed assisteranno alle funzioni relative alla medesima”. Il 19 luglio il cardinale, da Castelplanio presso la Badia di S. Benedetto ove stava trascorrendo i mesi estivi, accordava “l’indulgenza di 100 giorni a tutti quei fedeli dell’uno e dell’altro sesso i quali degnamente disposti nell’anima reciteranno avanti l’immagine del SS. Crocifisso tre Pater, ed Ave pregando Sua Divina Maestà secondo le nostre intenzioni”.
    Intanto alla Confraternita del SS. Sacramento e Rosario che organizzava la festa, si era affiancata l’Opera Pia SS. Crocifisso che per oltre mezzo secolo si prenderà cura degli aspetti economici della festa ed anche di chiedere i relativi permessi anche all’autorità ecclesiastica.
    Nel 1854, la festa riportata nel mese di agosto, si celebra il 27 con una “processione straordinaria” ed “un’Orazione Panegirica di don Pietro Pellegrini, Canonico della Basilica Lauretana”.
    L’11 settembre 1855 il Consiglio Comunale all’unanimità fa voto all’immagine del SS.mo Crocifisso “onde Sua Maestà voglia degnarsi per sua infinita misericordia a far cessare il flagello del Cholera che miete vittime in questo comune”. Il votò consisteva nel far celebrare per 10 anni continui il 29 settembre, a cominciare dal 1856, “una messa solenne a organo nell’altare del Crocifisso con intervento della Magistratura in forma pubblica e l’offerta di 12 libre di cera in falcole”. Al Crocifisso, si afferma, “ricorreremo con viva fiducia in tutte le nostre calamità, ed in tutti i nostri bisogni pubblici e privati”. 65 ASCMR, Consigli (1850-1859), pp. 262-263.
    Il voto alla scadenza del decennio fu rinnovato dal Consiglio Comunale nella seduta del 16 novembre 1865; sia nel 1855 che nel 1865 a motivare le decisioni comunali furono due istanze “coperte da firme di parecchi cittadini”. Il consigliere Pasquale Barcaglioni suggeriva che si decidesse per un voto perpetuo più che decennale, Guglielmo Guglielmi, altro consigliere, invece era per il rinnovo decennale “sembrandogli che nelle risoluzioni dei corpi morali debba evitarsi per quanto è possibile la perpetuità”; la proposta del Guglielmi fu approvata all’unanimità mentre il Barcaglioni si augurava che il voto venisse poi rinnovato alla nuova scadenza. 66 ASCMR, Deliberazioni Consigliari (1865-1866), pp. 73-74. La sua però era solo una speranza: dieci anni dopo, presente ancora il Barcaglioni in Consiglio Comunale e forse perché non ci fu alcuna istanza, nessuno si ricorda di prendere in considerazione il rinnovo del voto che veniva così a perdere ogni vincolo di obbligo e di continuità per la pubblica amministrazione. 67 ASCMR, deliberazioni Consigliari (1866-1876), nessuna delibera ne tratta tra il 1875 e il 1876.
    Attualmente, pur celebrandosi ogni anno in agosto, celebrazioni più solenni con la processione con l’immagine del Crocifisso si fanno ogni cinque anni. Una devozione secolare per il Crocifisso “miracoloso” che il tempo non ha scalfito.
    In occasione delle celebrazioni del 2010 la Parrocchia ha voluto ricordare il percorso storico di questa devozione e lo stretto legame con la popolazione del territorio e non solo, pubblicando un opuscolo La devozione al SS. Crocifisso come testimonianza di radici cristiane profonde e condivise; la civica amministrazione invece, sostenendo metà delle spese, ha realizzato l’illuminazione perenne della torre campanaria.

  • 154 6.4B FESTA DI S. SILVESTRO

    154 6.4B FESTA DI S. SILVESTRO

    S. Silvestro, papa dal 314 al 335, è il patrono del Comune, titolare della parrocchia, la sua festa cade il 31 dicembre. Per secoli la pubblica amministrazione ha partecipato con l’offerta di cera per le “luminarie”: nel 1602 furono 15 le libbre di cera offerte per le “luminarie di S. Silvestro”, 68 ASCMR, Sindacati (1602-1608), c. 57r. quasi due secoli dopo, nel 1792 le libbre di cera erano 10, in altri momenti erano state soltanto 6.
    Era anche consuetudine immemorabile che in quel giorno la Magistratura della Comunità al completo e cioè “I Quattro di Residenza” accompagnati dai salariati, medico, segretario, maestro di scuola e camerlengo, si recassero in forma ufficiale in chiesa per partecipare alla messa solenne. Sulla porta principale della chiesa un sacerdote porgeva l’acqua santa al Magistrato (“I Quattro”) con l’aspersorio prima di aspergere il popolo, in corteo poi ci si avviava verso l’altare maggiore dove era in attesa il parroco che porgeva al bacio la reliquia di S. Silvestro. Si presentava quindi la cera quale offerta della Comunità, tutti infine prendevano posto nella Banca Priorale nei pressi dell’altare.
    Terminata la liturgia il parroco “riceveva il Magistrato col suo accompagno dalla Banca della Chiesa, l’accompagnava alla propria casa parrocchiale, ove trattenevasi alla ricreazione del pranzo”. Anche questo pranzo offerto dal parroco era una consuetudine immemorabile e quando il parroco don Carlo Antonio Rocchi il 31 dicembre 1769 volle “escludere il Magistrato e suo accompagno dalla ricreazione del pranzo che pure ha fatto, con l’invito di alquanti religiosi forastieri non soliti, ed alcuni preti”, fu un affronto per l’amministrazione: era la prima volta che veniva esclusa da questa “ricreazione solita, antica, immemorabile”.
    Se ne parlò in due sedute del Consiglio della Comunità, l’8 gennaio e il 4 marzo 1770, se nel gennaio si decise di “sperimentare le ragioni in qualunque tribunale bisognerà”, nel marzo i ritenne necessario “doversi parlare al Sig. Don Carlo Rocchi, e sentire qual sia la di esso intenzione, ed in caso si mostrasse voler sostenere la novità di escludere il Magistrato dalla solita ricreazione nella festa di S. Silvestro, agirsi in Tribunale per sostenersi jus e consuetudine immemorabile di questa Comunità”. 69 ASCMR, Consigli (1766-1780), cc. 83v-84r, 8-gennaio 1770 e cc. 88v e 90r, 4 marzo 1770. Con don Rocchi poi i rapporti tornarono ad essere ottimi, la pubblica amministrazione infatti, venne incontro in maniera generosa alle necessità del parroco nella costruzione della nuova chiesa parrocchiale.
    Si fecero alquanto burrascosi invece con il parroco don Paolo Breccia che, per la festa del 1807 e del 1808 non diede il solito pranzo al sindaco, ai salariati e al clero del paese, tuttavia pur non avendo fatto il pranzo ufficiali, don Paolo l’11 luglio 1808 presentando al comune lo stato attivo e passivo 611a parrocchia scriveva: “Per il pranzo a sacerdoti e alle autorità del Comune in occasione della festa di S. Silvestro scudi 10”. Si riferiva probabilmente alle spese sostenute negli anni precedenti.
    Clero e autorità civili questa volta non sembra che abbiano protestato ufficialmente; il complessivo comportamento del parroco però non poteva non recare stupore al sindaco Filippo Salvati che espose i fatti come erano avvenuti in una lettera al Vice-Prefetto del Distretto di Jesi. 70 ASCMR, Consigli (1766-1780), cc. 83v-84r, 8-gennaio 1770 e cc. 88v e 90r, 4 marzo 1770.

  • 155 6.4C Devozione alla Madonna di Loreto

    155 6.4C Devozione alla Madonna di Loreto

    A Monte Roberto, come a Jesi e negli altri castelli del contado, non mancò di svilupparsi, tra il Trecento e il Quattrocento, una intensa devozione alla Madonna di Loreto sia da parte dei singoli fedeli che a livello ufficiale da parte della pubblica amministrazione. Quest’ultima spesso si rendeva presente direttamente al santuario di Loreto con l’offerta di cera o di altri preziosi oggetti e partecipava ogni anno alle spese per i fuochi e gli spari alla vigilia della Festa della Venuta della S. Casa (10 dicembre).
    Il primo accenno, almeno per quanto riguarda i registri dell’Archivio comunale che ci rimangono, di questa devozione lo troviamo nel 1560 quando leggiamo: “Havemo dato et pagato a ser Orelio spitial da Jegi per li ciri et una torcia per portare a S.ta Maria di Loreto, fiorini 12 e bolognini 12”; 71 ASCMR, Entrate e uscite (1558-1586), c. 23r. una corona invece fu portata al santuario di Loreto il giorno della festa del Corpus Domini del 1562. 72 Ivi, c. 50r.
    Nella chiesa parrocchiale nel 1603 in un altare laterale, accanto al fonte battesimale, fu posto un quadro di Antonino Sarti, “La Vergine Lauretana e Santi” (S. Ciriaco, S. Pelagio e S. Lorenzo).
    Presso questo altare il 10 dicembre “si celebrava la festa della Vergine Lauretana colla processione nella quale si portava il simulacro della Santa Casa scolpito in legno dorato. L’altare venne dotato nel 1637 di alcune rendite con le quali si dovevano far celebrare durante la settimana alcune messe. 73 Annibaldi Cesare, Un affresco lauretano giottesco e il culto della S. Casa di Jesi; Città di Castello 1912, p. 42.
    Il Comune intanto forniva ogni anno, nella festa del 10 dicembre, cera “per le luminarie per la S. Casa di Loreto”. 74 ASCMR, Consigli (1665-1676), c. 43v, 30 novembre 1666, 7 libbre di cera.
    La confraternita del SS. Sacramento e del Rosario nel 1678 organizza un pellegrinaggio popolare a Loreto, chiede un contributo al comune che dà 4 coppe di grano per fare il pane da distribuirsi ai poveri che avrebbero partecipato al pellegrinaggio e per fare un regalo alla S. Casa. 75 ASCMR, deliberazioni Consigliari (1866-1876), nessuna delibera ne tratta tra il 1875 e il 1876.
    L’esperienza viene ripetuta nei primi anni del Settecento; il pellegrinaggio si effettuava nel mese di maggio; nel 1703 esso doveva servire per ringraziare la Madonna per aver preservato il paese dal terremoto come era accaduto nella vicina Umbria 76 ASCMR, Consigli (1698-1711), cc. 51r/v, 25 marzo 1703., in questa occasione il Comune partecipa con l’offerta di 12 scudi che andavano ad aggiungersi alle altre offerte raccolte tra la gente, metà del contributo comunale sarebbe ‘stato però devoluto per i pellegrini poveri. Nello stesso anno vengono mandati a Loreto i 6 scudi impegnati in bilancio per la “ricreazione del Bussolo”, per il pranzo cioè che annualmente si teneva ai primi di gennaio quando si eleggevano i membri mancanti in seno al Consiglio della Comunità. 77 Ivi, c. 56v, 14 agosto 1703.
    Il pellegrinaggio si ripete nel maggio del 1704 e del 1707. 78 Ivi, c. 91, 14 settembre 1707. Per la consuetudine di “fare li spari” e di “fare li fuochi” nella notte tra il 9 e il 10 dicembre, per la Festa della Venuta della S. Casa, il Consiglio Comunale nel 1782 stabilisce di comperare ogni anno 5 libbre di polvere da sparo e 40 fascine 79 ASCMR, Consigli (1780-1793), c. 35r, 15 dicembre 1782. e ciò avviene puntualmente negli anni successivi, anzi nel 1809 le “fascine di viti” diventano 50. 80 ASCMR, Sindacati (1790-1817), c. 102 r.  
    Fuochi e spari di notte, tradizionali da secoli dovevano servire ad esprimere “esultanza” e “giubilo” da parte del popolo, si erano trasformati invece, specie gli spari, in occasioni di vendetta e di odio privato: con il beneficio della notte e il salvacondotto della festa, era facile vendicarsi di qualche persona particolarmente invisa. Per prevenire questi gravi disordini il Delegato Apostolico di Ancona Mons. Ludovico Gazzoli, con una notificazione del 3 dicembre 1815, proibisce “nella notte del 10 dicembre, festa che suol solennizzarsi per la venuta della S. Casa di Loreto, gli spari tanto con armi da fuoco, quanto con qualunque altro strumento od artifizio”. 81 ASCC, Editti Bandi Decreti (1815-1818), vol. VI, p. 88.
    Il Comune di Monte Roberto per fare gli spari in occasione di particolari solennità aveva alcuni mortai; nel 1766 essi non funzionavano più, così per la prima visita, nel mese di luglio, del vescovo Mons. Ubaldo Baldassini i mortai per gli spari vennero presi a Maiolati e riportati poi in Apiro dai legittimi proprietari. 82 ASCMR, Registro delli Bollettini (1711-1775), c. 232v. Qualche anno dopo nel 1773, si decide di accomodarne sei, affidati alla competenza dell’archibugiere mastro Francesco Bozzi di Monte S. Vito, dimorante in Staffolo, che li rese efficienti per il compenso di 6 scudi. 83 ASCMR, Consigli (1766-1780), c.134r, 16 maggio 1773 Considerata la spesa affrontata, poco dopo si decide ancora che “detti mortari non possono prestarsi a Paesi Forastieri senza licenza del Consiglio e che non habbiano arbitrio li Magistrati pro tempore di darli fuori”. 84 Ivi, c. 137r, 31 maggio 1773.
    Gli spari alla fine del Settecento in occasione della festa della Madonna di Loreto venivano effettuati così con questi mortai sistemati dal Bozzi e garantiti per tre colpi consecutivi ciascuno per ogni volta. 85 ASCMR, Registro delli Bollettini (1711-1735), c. 281 v.
    Nel 1831 il Comune possiede 12 mortai di bronzo e 7 di ferro, l’antica prescrizione di non prestarli era stata dimenticata, venivano dati infatti a paesi lontani e vicini e minacciavano di rovinarsi, si decide allora di nuovo di non prestarli più ” senza espressa licenza”. 86 ASCMR, Consigli (1829-1839), p. 02. I mortai furono dati nel 1926 alla Congregazione di Carità ed usati per la fusione delle campane della chiesa di S. Carlo. 87 ASCMR, Delibere di Giunta (1925-1926), n. 26 del 30 dicembre 1926, pp. 27-30.
    A ricordo di questa devozione alla Madonna di Loreto da parte dell’intera popolazione di Monte Roberto attualmente rimane, in una nicchia da tempo rimasta vuota, al di sotto nella piccola torre civica sopra l’arco di ingresso al castello, la statua della Vergine Nera, suggello e conferma di una tradizione secolare, ivi posta nel 1970.

  • 158 6.4D ALTRE FESTE E DEVOZIONI

    158 6.4D ALTRE FESTE E DEVOZIONI

    La devozione popolare durante l’anno si esprimeva nella celebrazione di feste di altri santi ai quali si ricorreva per necessità particolari.
    La festa di S. Antonio abate (17 gennaio), era celebrata con particolare devozione. La Comunità per “antica consuetudine” offriva cera per le luminarie e faceva celebrare “gl’offici di Messe” nella chiesa parrocchiale. 88 ASCMR, Sindacati (1602-1608), c. 58r (1603). In considerazione però che questa festa veniva solennizzata nelle chiese dei paesi vicini e nelle chiese rurali e là i recavano i sacerdoti per celebrare, Monte Roberto rimaneva solo con due messe “onde il popolo non puole soddisfare alla propria devozione per mancanza di dette Messe”, il Comune, nel 1778, si vide obbligato per far venire più preti a celebrare ad aumentare l’elemosina della messa, da un paolo (10 baiocchi) a 15 baiocchi ciascuna. 89 ASCMR, Consigli (1766-1780), c. 252r, I marzo 1778.
    La stessa decisione fu presa dal Consiglio della Comunità per la festa di S. Atanasio (2 maggio), compatrono della parrocchia e del comune: la festa si celebrava ugualmente per antica consuetudine con “officio generale e vespro”: nel 1743 il parroco non volle fare le solite e consuete funzioni, il Consiglio allora ricorse al Vescovo. 90 ASCMR, Registro delli Bollettini (1711-1775), cc. 71r (3 scudi e 24 baiocchi per la processione, 90 baiocchi per. l’ufficio in S: Maria della Pieta da parte della pubblica amministrazione).
    Per la festa di S. Biagio (3 febbraio), il Comune offriva agli inizi del Seicento 4 fiorini, 91 ASCMR, Sindacati (1602-1608), c. 79r.la metà di quelli che allora si davano per le “luminarie di S. Antonio e suo officio”.
    La festa di S. Antonio di Padova (13 giugno) era preceduta da una novena. 92 ASCMR, Consigli (1735-1755), c. 84r, 1 giugno 1741. Nella seconda metà del Settecento fu introdotta la festa di S. Vincenzo Ferreri (5 aprile), protettore contro le intemperie e relativi danni alle campagne; ci si dotò di una statua del santo e per celebrare la festa con la dovuta solennità, essendo il primo anno, nel 1772, il Comune, non avendo nulla a questo scopo in bilancio, impegna i 6 scudi previsti “per la ricreazione del Bussolo”. 93 ASCMR, Consigli (1766-1780), c. 116r, 15 marzo 1772.
    Grande era anche la devozione per le Anime Purganti, in suffragio delle quali si facevano celebrare S. Messe in discreto numero con le offerte raccolte con una questua specifica fatta dall’Opera Pia delle Anime Purganti. 94 ASCMR, Registro di lettere (1808-1809), n. 89, 13 marzo 1809, P. 156.
    Il Comune con l’offerta per la celebrazione di messe partecipava anche alla festa di S. Andrea Avellino (10 novembre), patrono contro la morte improvvisa e di S. Emidio (5 agosto), patrono contro il terremoto; sosteneva altresì la spesa per “ottici di S. Messe” in circostanze importanti, ad esempio la Pentecoste, risarcendo il parroco per le offerte date ai sacerdoti celebranti e per la cera usata. 95 ASCMR, Registro delli Bollettini (1711-1775), c. 260r, nota di Don Carlo Antonio Rocchi, gennaio-maggio 1769.
    S. Messe da parte della Comunità venivano fatte celebrare in onore di S. Macario, taumaturgo nella cura delle malattie e per ottenere la pioggia, e di S. Bordone (“…per l’offitio di S. Bordone e S. Macario vati della nostra Comunità”), 96 ASCMR,   Sindacati (1602-1608), c. 75r. cioè di S. Rocco protettore contro la peste, così chiamato in quanto raffigurato come pellegrino con in mano il bordone (bastone ricurvo) cui era appesa la zucca per l’acqua.
    Dal 1988, voluta dal parroco don Francesco Santarelli (1912-1997), si celebra nell’ultima domenica di maggio, una festa dedicata alla Madonna; tra le feste di S. Silvestro e quella del Crocifisso, le uniche rimaste, una dedicata alla Madonna veramente mancava, l’augurio di chi l’ha voluta è che essa come le altre diventi una vera tradizione per Monte Roberto. 97 Ceccarelli R., A Monte Roberto le vere radici parlano di amore alla Vergine, in “Voce della    Vallesina”, n. 25 del 19 giugno 1988.

  • 160 6.5 LE CHIESE

    160 6.5 LE CHIESE

    Abbiamo già visto le chiese presenti nel territorio di Monte Roberto nei primi secoli dopo il Mille e andate distrutte tra il Trecento e il Quattrocento, di esse rimane solo l’abbazia di S. Apollinare mentre di S. Silvestro ha avuto la sua continuità in successive ricostruzioni.
    Altre piccole chiese furono costruite dal Seicento in poi, tranne quella di S.Carlo, delle altre ci rimane solo il ricordo in qualche toponimo o qualche traccia in vani ormai fatiscenti.

  • 160 6.5A CHIESA PARROCCHIALE DI  S. SILVESTRO

    160 6.5A CHIESA PARROCCHIALE DI S. SILVESTRO

    La vecchia chiesa di S. Silvestro de Curtis ubicata in campagna fu sostituita da quella nuova costruita nella prima metà del Quattrocento. Sorgeva poco lontano dalla porta d’ingresso al castello, dove si incontravano le due strade che immettevano nel paese (strada di Fosso Lungo – viale Matteotti e strada del Borgo – via Leopardi), rimase in piedi fino alla sua demolizione avvenuta, per far luogo alla nuova chiesa, negli ultimi decenni del Settecento.
    Tra gli altari della chiesa, già poco oltre la metà del Cinquecento (1567) c’era quello del Crocifisso 98 Zenobi C., L’episcopato jesino di Mons. Gabriele del Monte, op. cit., p. 17. che tanta devozione avrà nel corso dei secoli. La chiesa non era molto grande: agli inizi del Seicento si avverte la necessità di ingrandirla e si decide di raccogliere il materiale necessario per poter incominciare i lavori, eventualmente nei primi mesi del 1613. 99 ASCMR, Consigli (160-1616), cc. 79r, 80r, 2 maggio 1612. Di questo progetto non se ne fece nulla, si costruì invece, negli stessi mesi all’interno del castello, la chiesa di S. Carlo, mentre Gioacchino Branchesi nel 1614 chiede di poter edificare una edicola- cappella all’esterno della chiesa in corrispondenza dell’altare di S. Giacomo: il permesso gli viene accordato a condizione che la strada, quella del Borgo, non rimanga troppo stretta e ci si possa transitare anche con le bestie cariche. 100 Ivi, c. 112v, 16 febbraio 1614.


    Negli anni 1639-40 si rifanno le campane e il campanile della chiesa; la pubblica amministrazione decide di partecipare alla spesa per “un bel doppio di campane perpetuo honore di questo nostro castello”; 101 ASCMR,  Consigli (1639-1651), c. 7r, 23 ottobre 1639; c. 17r. sulle campane tuttavia, nella scritta dedicatoria non viene affatto nominata la Comunità, “tutto l’Honore al Pievano”, i soldi previsti allora non vengono dati e del fatto sono informati il Vescovo di Jesi e il Governatore, 102 SCMR, Sindacati (1790-1817), c. 102 r.poi però ci si ripensa, invitati forse a farlo dalle autorità superiori, e si contribuisce alla spesa con le entrate ed i proventi del taglio della legna della selva della Comunità.
    La croce del campanile venne promessa da Baldassarre Paziani che nel frattempo però mori; i suoi eredi comunque non ne volevano sapere di far installare la croce sul nuovo campanile, per convincerli si dovette far intervenire il cardinale Tiberio Cenci vescovo di Jesi. 103 Ivi, c. 111v, 22 gennaio 1646.
    Nello stesso anno in cui si decideva di rifare campane e campanile, si pensava di fare anche delle logge davanti e al lato della chiesa, 104 Ivi, c. 3r, 17 luglio 1639; un progetto più completo si farà. nel 1647 (lbidem, cc. 136r e 137r,   11 luglio 1647) si realizzarono però diversi decenni più tardi (1725) di fianco alla chiesa stessa e si pensava di farle con il ricavato della demolizione e della vendita di un forno; si ritenevano “di gran utile e comodo del popolo stante che le dette loggie levarebbe li discorsi che si fanno dentro la chiesa con grande scandalo del popolo”. 105 ASCMR, Consigli (1665-1676), c. 92v, 30 aprile 1671.
    Il luogo dove sorgeva la chiesa dava qualche problema di staticità, un arco della stessa chiesa si rese pericolante e si pensò di ovviare con la costruzione di uno sperone nel muro di sostegno. 106 ASCMR, Consigli (1676-1698), c. 7r, 13 giugno 1677.


    Sul nuovo campanile, costruito neanche 40 anni prima, si abbatte nei primi mesi del 1682 un rovinoso fulmine (“saetta”) facendo una “gran bugia” sulla sua sommità 107 c. 77v, 11 marzo 1682. e rimanendo per oltre 15/18 anni gravemente danneggiato. 108 Ivi, c. 233r, 14 agosto 1695; c. 258r, 8 settembre 1697.
    Rotta da qualche tempo anche la campana, nel 1691 “il Popolo se lagna che non si rifà”; 109 c. 181v, 15 luglio 1691. nel novembre il Vicario Apostolico di Jesi ordina di rifarla, la spesa che è di 50 scudi dovrà essere ripartita tra il parroco 15 scudi e la comunità 35 scudi. 110 Ivi, c. 186r, 4 novembre 1691. Sulla decisione superiore però non c’è accordo e si discute ancora, la spesa alla fine sarà divisa a metà tra il pievano e la Comunità, 111 Ivi, c. 200r. comunque prima del 1694 la campana non viene rifatta.
    Nella chiesa c’era una grande panca (“Arcibanca”) destinata ai 24 consiglieri, spesso però essa veniva occupata da altri che non trovavano posto altrove, si costruisce allora un’altra “bancha che habbia a servire tutti li ventiquattro e per altri, la quale poi debba colocarsi in mezzo a detta a ritornando in acconcio ancora per lo spartimento fra gli Uomini e le Donne giusta la conformità di molte altre chiese”. 112 Ivi, c. 216v, 3 giugno 1694.
    Nei pressi della chiesa non distante dalla canonica, era ubicato il cimitero che nella visita pastorale del 2 settembre 1697 viene descritto essere senza riparo, aperto agli animali e con la possibilità che vi entrino anche i maiali; 113 Urieli C., Archivio Diocesano – Visite Pastorali, ds., pp. 72 e 77 decisamente migliore tuttavia è la situazione nel 1726, il cimitero è con il tetto coperto, le pareti imbiancate e nel vano di ingresso un piccolo altare. 114 Ivi, p 131.
    La chiesa, oltre all’altare maggiore, aveva sei altari laterali di cui quattro a forma di cappella a volta, e si passava da un altare all’altro attraverso porte intermedie; gli altari erano dedicati rispettivamente al Crocifisso (altare della confraternita del Sacramento), al Rosario (dell’omonima confraternita), a S. Giuseppe (della famiglia Leoni), a S. Giacomo (della famiglia Magnoni), a S. Ciriaco (degli Eredi Colini) e a S. Lorenzo. Tutti, eccetto quello del Crocifisso, avevano dipinti su tavola o su tela come pale d’altare. 115 Ivi, pp. 131-132: 187.
    La struttura della chiesa era in stile gotico (tre “archi a terzacuto” sostenevano il tetto); la poca profondità delle fondamenta, il terremoto del 1741, la presenza d’acqua nelle zone più profonde del sottosuolo dove poggiava la chiesa stessa, ne avevano compromesso gravemente la staticità con lesioni alle mura talmente numerose da minacciare rovina a tutto l’edificio. 116 ASCMR, Consigli (1766-1780), c. 113r. Ne fu decisa così la ricostruzione.


    Il progetto, secondo il biografo, è di Mattia Capponi 117 Annibaldi Giovanni, Mattia e Paolo Isidoro Capponi architetti di Cupramontana, Tip. Framonti-Fazi, Jesi 1878, p. 9. architetto di Massaccio e fu redatto nel 1766, documentazione autografa tuttavia della sua paternità non esiste; 118 Amadio Mauro e Altri, Mattia Capponi Architetto, Jesi 1988, p. 37. il Capponi comunque in quegli anni (1769) compi un sopralluogo con relativa perizia sullo stato idrologico delle mura e dell’intero paese 119 ASCMR, Consigli (1766-1780), cc. 74v e 75r. e non è escluso che possa aver fornito il disegno, non sembra però che ne abbia seguito i lavori se nel 1771 viene interpellato Domenico Spadoni capomastro di Senigallia abitante in Ancona, per “considerare lo stato presente della Chiesa Parrocchiale di S. Silvestro del Castello di Monte Roberto di Jesi”. 120 Ivi, cc.112v-113v.
    I lavori iniziarono nel 1769 121 ASCMR, Consigli (1780-1793), c. 76r. e continuarono con alterne vicende per una ventina d’anni. Il Consiglio della Comunità il 21 dicembre 1771 decide di devolvere per la nuova costruzione (“non potendosi diversamente accomodare in altro Luogo per questo Popolo, non essendoci altro Tempio capace, ove possa ricevere il Pascolo Spirituale”) 400 scudi, non in unica soluzione ma 100 scudi all’anno cominciando nel 1772 122 ASCMR, Consigli, (1766-1 780), cc. l lv e 112r. che vengono regolarmente concessi. 123 ASCMR, Registro delle Lettere dei Sigg. Superiori…, c. 165v, 10 marzo c. 191v, 14 febbraio 1773; c. 191v, 5 aprile 1774; c. 195r, 15. luglio 1775.
    Promotore della ricostruzione e dei lavori è il parroco don Carlo Antonio Rocchi che non trascura ogni occasione favorevole per reperire spazi più ampi attorno alla chiesa (aveva progettato “di fabbricare un oratorio, ossia stanza da formarci il Battistero, lo restante spazio per farci il Cemeterio”) e materiale edilizio da vecchie case in rovina. 124 ASCMR, Consigli, (1766-1780), c. 162r, 2 giugno 1774; c. 235v, 17 agosto 1777. ASCMR,   Consigli, (1780-1793), c. 41r, 25 maggio 1783.
    Nel 1780 i lavori non proseguono per mancanza di denaro, don Rocchi chiede un nuovo contributo al Comune: vengono concessi 150 scudi “in elemosina per la chiesa da compirsi a maggior Gloria di Dio e decoro del paese”, 125 ASCMR, Consigli, (1766-1780), c. 295r, 9 aprile 1780. il contributo comunque verrà autorizzato dalla Congregazione del Buon Governo solo anni dopo, nel 1795 “per l’ultimazione della fabbrica della chiesa”. 126 ASCMR, Registro delle lettere dei Sigg. Superiori, c. 263v, 30 maggio 1795.
    Il pievano muore nel 1788, gli eredi si appropriano di tutto il legname anche di quello lavorato, necessario per proseguire la costruzione della chiesa, il Consiglio della Comunità decide così di adire le vie legali per la restituzione del materiale. 127 ASCMR, Consigli, (1780-1793), c. 90r, 27 aprile 1788.
    Nel 1790 si richiedono altri contributi (400 scudi) al Comune, questa volta però non vengono dati, tutte le risorse sono finalizzate alla ricostruzione di una casa colonica di proprietà comunale. L’esterno della chiesa era completo, molto ancora restava da fare: “La nuova chiesa del Cappellone all’infuori, [è] tutta rustica nell’interne pareti con finestre alla posticcia e senza volta e piangito peggio di un fenile”. 128 Ivi, c. 123/v, 22 agosto 1790.
    Lentamente tuttavia i lavori proseguono; la precedenza nella costruzione degli altari laterali era stata data a quello del Crocifisso già realizzato prima del 1791, in quell’anno infatti si decide di fare l’altare del Rosario uguale in tutto e per tutto a quello del Crocifisso che era di fronte. 129 Ivi, c. 135v, 25 agosto 1791. Vi lavorarono nel corso del 1792 e del 1793 Ermenegildo Pancalli di SenigaIlia (altare), Marco Monti (icona dell’altare, colonnine ecc.), Romualdo Bartolini (doratura della “Gloria”, basi e capitelli). 130 ASCMR, Trasatti (1788-1801), 22 aprile e 22 maggio 1792; 19 agosto e 22 ottobre 1792; 18 ottobre 1793.  
    A Serafino Salvati che si trovava a Roma si dà l’incarico di far dipingere quadri-pale d’altare “di buona mano” per l’altare maggiore e l’altare del Rosario; 131 ASCMR, Consigli (1780-1793), 10 marzo 1793. l’incombenza viene affidata al pittore Stefano Casabona di Genova, ma dimorante in Roma, che per il 1794 prepara la tela per l’altare maggiore 132 ASCMR, Sindacati (1790-1817), c. 26v, pagati 60 scudi. “San Silvestro con Madonna” e per il 1797 la tela per l’altare del Rosario 133 Ivi, c. 34r.- “Madonna e Santi” (S. Emidio e S. Andrea Avellino). Si abbellisce con una “cornice con cristalli l’immagine miracolosissima del SS. Crocifisso 134 ASCMR, Consigli (1794-1808), c. 4r, 7 aprile 1795.e si commissiona a Serafino Salvati, ancora a Roma, le lampade per l’altare del Rosario; 135 Ivi, c. 6v, 25 maggio 1795.in attesa di quelle nuove intanto Agostino Antonelli ripristina davanti all’altare l’antica lampada di bronzo. 136 ASCMR, Bollettini (1791-1808), 5 giugno 1796.
    Agli inizi dell’Ottocento la chiesa è agibile da qualche anno, ma è ancora incompleta, “la fabbrica, scrive il sindaco del 1808 al Prefetto Casati, è portata avanti dal parroco”. 137 ASCMR,   Registro delle lettere (1808-1809), p. 9, 16 giugno 1808.
    Come in tutte le chiese sotto il pavimento viene ricavato il cimitero, non sempre utilizzato, come ad esempio in tempo di epidemie (1817 e 1855), questo è dismesso del tutto con la costruzione del nuovo cimitero pubblico poco oltre la metà dell’Ottocento. Nei primi anni Cinquanta del Novecento tutte le salme furono rimosse e bonificata l’intera area sottostante il pavimento stesso.
    La presenza del Capponi a Monte Roberto, come abbiamo accennato, in concomitanza con i lavori della chiesa, ma soprattutto i caratteri stilistici della sua architettura sono a favore della sua paternità. Scrive l’arch. Mauro Amadio profondo conoscitore del Capponi: “La facciata attuale, frutto di sconsiderati rimaneggiamenti, non ha nulla in comune con quella originale, anzi dequalifica nettamente l’architettura nei suoi caratteri stilistici.
    Da una vecchia fotografia si ricavano le linee originarie della facciata in pietra intervallata da una doppia fila di mattoni utilizzati per rettifilo, il timpano con le modanature in mattoni, una apertura ellittica in corrispondenza del sottotetto con bordatura in mattoni. La costruzione del prospetto sotto il timpano è composta da un grande arco a rilievo, con diametro di poco inferiore alla larghezza della facciata, dentro il quale sono inseriti il portale in pietra con timpano curvo e la nicchia che ospita la statua di S. Silvestro. Il campanile che si vede nello sfondo è-già modificato nella parte terminale del pinnacolo.
    Negli anni Cinquanta in conseguenza di lavori effettuati per il consolidamento della facciata, il Genio Civile ha aumentato lo spessore della muratura portante sovrapponendovi un secondo strato di muratura ed inserendo tiranti con chiavi perpendicolari alla facciata, lungo le strutture portanti della navata. Attualmente il prospetto si presenta in intonaco e cemento per tutta la superficie, privo del portale che è stato tolto e mai inserito [ignorandone dove sia finito], con bordatura nella parte superiore del prospetto e una bordatura circolare al centro; tutti caratteri stilistici che per quanto semplici dequalificano il prospetto, non avendo alcun riferimento con l’originale progetto di Mattia Capponi.
    L’inserimento del coro maggiore per l’organo e di due coretti minori, avvenuto nel 1828, ha causato alcune modifiche evidenti all’interno della chiesa, che non prevedeva il coro maggiore e nella quale il prospetto interno, contrapposto al presbiterio, era semplicemente ornato con rilievi delle bordature. La struttura del coro poggia su due colonne tuscaniche senza basamento, diverse dalle altre che ornano la navata. […]
    [Nella facciata in corrispondenza dell’organo] è ipotizzabile, nella soluzione effettiva, una grande bucatura, in parte simile a quella prevista e non realizzata per la chiesa suburbana di S. Lucia a Jesi, della quale rimangono i disegni originali. Queste bucature, corrispondendo all’arco inserito nella facciata, avrebbero creato una grande sorgente di luce, proiettata nel presbiterio, che attualmente è posto in ombra, mancando aperture nell’abside e nel catino. Nel nuovo disegno della facciata sarebbe stata inserita successivamente la nicchia con la statua di S. Silvestro che è stata riposta nel sottotetto della chiesa. La pianta si sviluppa sul solo asse centrale con quattro altari laterali. […]
    Il presbiterio è molto profondo e in ombra, elemento caratterizzante è la colonna con capitello jonico arricchito con decorazioni varie (festoni).
    La pavimentazione è stata ricostruita nel 1956.
    Il fonte battesimale originale che era posto all’angolo della navata verso l’ingresso, sulla destra, recentemente è stato ribaltato e ricostruito in loco del primo altare sulla sinistra.
    La macchina posta sul catino, nel fondale del presbiterio e costruita con la simbologia dello “Spirito Santo”, attualmente è verniciata in bianco, Mentre era dorata; vi erano inseriti anche alcuni angeli che sono stati tolti e riposti nel sottotetto. […]
    La volumetria realizzata sulla sinistra della facciata, compresa tra la navata e le mura [di sostegno] costruita per la Confraternita della Buona Morte [oltre la metà dell’Ottocento], dequalifica l’architettura della chiesa nel suo complesso.
    Sarebbe auspicabile, conclude Amadio, la sua demolizione e il ripristino del vicolo fino al campanile, in modo da ottenere la riconferma della chiesa, slanciata al centro della piazza, proiettata dai due vicoli laterali, nel rispetto del progetto originario”. 138 Amadio Mauro, op. cit., pp. 37-38.
    Le opere d’arte di maggior pregio che ornano la chiesa sono il coro grande o cantoria e i due coretti con grata in legno intagliato e dorato di Angelo Scoccianti (1674-1726), scultore di Massaccio, realizzati attorno al 1711.
    Provengono dalla chiesa di S. Chiara annessa all’omonimo monastero, ubicato a Jesi, lungo l’attuale corso Matteotti nella struttura dell’ex Appannaggio; furono ceduti, dopo la soppressione napoleonica del 1810, alla chiesa parrocchiale di Monte Roberto nel 1828 per interessamento di Serafino Salvati, agente dei beni della Casa Ducale di Leuchtenberger erede del Viceré d’Italia Eugenio Beauharnais al quale chiesa e monastero furono dati in “appannaggio” al momento della soppressione.
    Così li descrive Giovanni Annibaldi jun.: “Coro e corretti sono stati eseguiti dalla stessa mano, notandosi in tutti identità di stile, oltre che di motivi decorativi, anche se arricchiti nel coro di altri elementi. Nella parte inferiore dei coretti, configurata a ringhiera, su un fondo campito da pannelli verticale listati ed ornati di globetti si staccano a forte rilievo cespi di acanto con ricaduta di larghe foglie, alternativamente bassi e sviluppantisi per tutta l’altezza della ringhiera stessa. Alla base del cespo centrale sporge una testa di putto, con ali aperte, a tutto tondo rivolta in basso. Nella parte superiore dei coretti da cespi di acanto si innalzano steli girati in ampie volute con foglie che si allargano e si distendono in modo da coprire ogni spazio libero, lasciando solo piccoli spiragli, in aderenza alle esigenze di un convento di clausura.
    Nella cantoria, in cui si ripete la stessa decorazione della parte inferiore dei coretti, graziosi putti alati si librano nell’aria in vario festoso atteggiamento al di sotto del coro, quasi a sostenerlo, mentre altri due, sulla fronte, si ergono diritti con le braccia sollevate, sporgendo in corrispondenza di ciascuno di essi, alla base, due teste di putti a tutto tondo alate. 139 Annibaldi Giovanni, Due opere d’intaglio in legno di Angelo Scoccianti dal Massaccio, Tip.Pucci,  Ancona 1971, p. 6, (Estratto dal volume “Rendiconti” dell’Istituto Marchigiano di Scienze Lettere ed Arti Ancona 1971).
    “È un’opera di vastissimo impegno scultoreo in quanto convivono, in armonia eccezionale, i motivi vegetali, quelli puramente geometrici e le ‘figure a tutto tondo degli angeli”. 140 Scoccianti Sandro, Gli scultori Scoccianti e i loro allievi, Recanati 1982, p. 85.
    “Sono opere di elevato significato stilistico; mentre la tribuna in cui è assente la parte superiore, trae la sua animazione dalla presenza alla base degli angeli in volo che sembrano volerla trascinare in cielo, i coretti affidano il senso del movimento – che pure da essi traspare – al diverso sviluppo del fogliame che passando dal basso all’alto si riduce nelle dimensioni per svilupparsi minuto e ricchissimo”. 141 Scoccianti Sandro, La famiglia degli Scoccianti e l’intaglio in Scultura nelle Marche, a cura di Pietro Zampetti, Firenze 1993, P. 433.
    I putti alati che quasi sorreggevano la cantoria, nella notte tra l’8 e il 9 agosto 1993, sono stati rubati insieme ad altri oggetti in legno e non più trovati. 142 cfr. Il Resto del Carlino/Marche, 10 settembre 1993. Voce della Vallesina, n. 31 del 19 settembre 1993, p. 3.
    La cantoria era stata acquistata in funzione dell’organo che si voleva installare nella chiesa. Costruito da Francesco Cioccolani da Cingoli e frutto “delle pie elargizioni”, l’organo fu collaudato il 17 luglio 1833; il Comune partecipò alla spesa con 10 scudi, Sante Tesei, relatore della proposta di spesa così si espresse: “Mi sembra sommamente onorevole lo stabilimento di un organo in questa nostra chiesa parrocchiale, unica, che non abbia in questi dintorni l’enunciato decoroso ornamento”, 15 furono i voti favorevoli, 6 quelli contrari. 144 ASCMR, Consigli (1829-1839), p. 136, 23 settembre 1832.
    Un “capitolo” fu poi stipulato tra la Parrocchia ed il Comune il 25 luglio 1836 nel quale la pubblica amministrazione si impegnava a dare “una quota nello stipendio dell’organista”; andato in disuso con gli anni, il parroco don Paolo Clementi nel 1867 chiede che sia ripristinato, fondi nel bilancio comunale però non ci sono e la questione è rimandata al bilancio dell’anno successivo. 145 ASCMR, Deliberazioni Consigliari (1866-1876), pp. 57-58, 31 gennaio 1867. Nel 1868 il problema è affrontato indirettamente concedendo il contributo di lire 3 mensili ad Odoardo Gabbianelli per proseguire la scuola di musica con l’obbligo di suonare gratuitamente l’organo nei giorni festivi. 146 Ivi, p. 232, 30 novembre 1868.
    La tela di Antonio Sarti (1580-1647), “Martirio di S. Lorenzo” del 1603, posta sulla parete di destra accanto all’altare maggiore, è stata restaurata nel corso del 1995.
    La statua di S. Silvestro tolta dalla nicchia sulla facciata durante i lavori di consolidamento degli anni Cinquanta, rimasta per anni nel sottotetto, è stata restaurata da Massimo Ippoliti e collocata sul lato destro della chiesa subito dopo l’ingresso ed inaugurata il 20 agosto 2000.
    Tutto l’interno della chiesa è stato ridipinto e restaurato riportando in luce le decorazioni pittoriche che erano state eseguite nella seconda metà dell’Ottocento e successivamente ricoperte. Anche la “gloria dello Spirito Santo” sul catino dell’abside, verniciata di bianco, ha riavuto la doratura originale. Dopo questi lavori la chiesa fu riaperta ufficialmente al culto in occasione della festa del patrono il 31dicembre 1996.

  • 170 6.5B Chiesa di S. Carlo

    170 6.5B Chiesa di S. Carlo

    È stata ed è l’unica chiesa dentro il perimetro delle mura castellane.
    Fu costruita tra il 1612 e il 1613 ad iniziativa della Confraternita della Buona Morte e dell’Opera Pia del Suffragio. La pubblica amministrazione partecipò alla spesa fornendo tutto il legname necessario alla costruzione 147 ASCMR, Consigli (1608-1616), c. 90r, 13 novembre 1612. La dedicazione a S. Carlo Borromeo (1538-1584), vescovo di Milano, compatrono di Jesi, segui di soli tre anni la data della sua canonizzazione avvenuta il 1° novembre 1610. Il Consiglio della Comunità il 3 novembre 1613 prese la decisione di solennizzare il giorno di S. Carlo, 4 novembre, chiedendo al vescovo di dichiarare la ricorrenza annuale giorno festivo a Monte Roberto a tutti gli effetti. 148 Ivi, cc. 108r/v.
    La chiesa era ubicata quasi alla sommità del paese, al centro tra le due file di case che costituivano la parte nord del castello, due porte laterali immettevano nei rispettivi vicoli. Su una parete, nel 1726, viene segnalato un affresco con la Madonna di Loreto e due immagini di Santi.
    La posizione con il passare degli anni si rivelò non certo ottimale, inoltre pericolante qual era, nei primi decenni dell’Ottocento, su suggerimento anche del vescovo, la Confraternita del Sacramento prese la decisione di demolirla e di riedificarla nelle immediate vicinanze nell’area di una vecchia casa di proprietà dell’Opera Pia del Suffragio. La decisione definitiva per la demolizione e la riedificazione fu presa dal Consiglio della Comunità il 24 febbraio 1825. 149 ASCMR, Consigli (1809-1827), pp. 260-261.
    Del progetto e ne parlava già da qualche anno, nel 1823 si era ottenuto il permesso di acquistare l’area risultante da una costruzione, proprio sugli spalti delle mura, resa pericolante ed inservibile a causa del terremoto; il “trasloco” della chiesa, oltre dalla sua pericolosità statica, era motivato dal desiderio “di ingrandire la piazza detta di San Carlo e di rendere migliore ornamento al paese”. 150 Ivi, p.257, 8 settembre 1824. Ben presto iniziarono i lavori realizzando la parete di fondo insistente a perpendicolo sulle mura cittadine di Fosso Lungo (viale Matteotti).
    Nella chiesa è conservata attualmente solo la pala d’altare con l’effige di “S. Carlo Borromeo sorretto dagli angeli” eseguita nel 1614 da Antonino Sarti. Fino al 2002, appartenute alla vecchia chiesa di S. Silvestro, vi erano anche lo “Sposalizio della Vergine” e “Madonna del Carmelo col Bambino e santi Biagio, Giacomo, Francesco, Caterina e Simone Stock”, quest’ultima dello stesso Antonino Sarti dipinta nel 1616; ora ambedue le tele, restaurate, sono nella Sala Consigliare del Comune. Lo “Sposalizio della Vergine”, nella vecchia chiesa parrocchiale costituiva la pala d’altare dell’altare di San Giuseppe della famiglia Leoni. La medesima famiglia Leoni di Staffolo che è indicata nella visita pastorale del 1898, come avente giuspatronato nella chiesa di San Carlo, aveva provveduto ad un primo restauro delle tele nel 1807.
    In precarie condizioni con qualche piccolo crollo della copertura, la chiesa fu restaurata nel 1989.

  • 170 6.5ca La chiesa di San Carlo

    170 6.5ca La chiesa di San Carlo

              Dai quaderni storici esini Vol. V Anno 2014 pag. 93

    La chiesa di San Carlo che oggi vediamo alla sommità del castello di Monte  Roberto risale alla terza decade dell’Ottocento quando venne edificata a pochi metri da un’omonima altra chiesa che stava andando in rovina e che originariamente era stata edificata ai primi del Seicento.
    Dentro il perimetro delle mura castellane non vi fu mai una chiesa: quella parrocchiale, dedicata a San Silvestro Papa, vicinissima alla porta di entrata al castello, era stata edificata nel sec. XV e ricostruita sullo stesso luogo nella seconda decade del Settecento.

    La chiesa di San Carlo è stata ed è l’unica chiesa ubicata all’interno del paese.

    Fu costruita tra il 1612 e il 1613 ad iniziativa della Confraternita della Buona Morte dell’Opera Pia del Suffragio. La pubblica amministrazione partecipò alla spesa fornendo tutto il legname necessario alla costruzione. [1] Archivio Storico Comunale Monte Roberto (ASCMR), Consigli (1608-1616), c. 90r, 13 novembre 1612 La dedicazione a S. Carlo Borromeo (1538-1584), vescovo di Milano, compatrono di Jesi, seguì di soli tre anni la data della sua canonizzazione avvenuta il 1° novembre 1610.
    Il Consiglio della Comunità il 3 novembre 1613 prese la decisione di solennizzare il giorno di S. Carlo, 4 novembre, chiedendo al vescovo di dichiarare la ricorrenza    annuale giorno festivo a Monte Roberto a tutti gli effetti: “bandire questa festa et      imponer pene a quelli che in tal giorno faranno o saranno trovati a far opere et       esercitii manuali, d’applicarsi per la metà alla chiesa dedicata a detto glorioso S.    Carlo et per l’altra metà all’essecutore et accusatore e secondo che parerà al detto    ns. Vescovo”. [2] Ivi, cc. 108r/v. Sull’altare vi fu posta una tela con l’effige di “S. Carlo Borromeo sorretto dagli angeli” eseguita nel 1614 da Antonino Sarti, tela-pala d’altare che ancora è al suo posto, restaurata nel 1996. [3] MOZZONI LORETTA, a cura di, Antonino Sarti 1580-1647, Comune di Jesi 1997; pp. 60-61.

    La chiesa si trovava al centro tra le due file di case che costituivano la parte ovest del castello, due porte laterali immettevano nei rispettivi vicoli. Brulicante all’epoca di persone e di animali domestici, e anche di maiali lasciati liberi di pascolare, nonostante i reiterati divieti. [4] ASCMR, Consigli (1608-1616), c. 68r/v, 23 Maggio 1610. E proprio alcuni maiali, entrati nella chiesa di San Carlo, la imbrattarono stracciando le tovaglie e i paramenti dell’altare: accadde ai primi del 1615, la chiesa era stata da poco costruita e del fatto se ne discusse nel Consiglio della  Comunità. [5] Ivi c.145r., 15 febbraio 1615

    La Confraternita o la   Compagnia della Buona Morte teneva regolarmente nella chiesa le sue riunioni: chi relazionava prima di rivolgersi ai confratelli faceva “la debita riverenza all’immagine    di S. Carlo” [6] Archivio Parrocchiale S.Silvestro Monte Roberto, Libro della Compagnia della Morte del Castel di Monte Roberto, c. 30r, 16 gennaio 1667. e “la solita genuflessione all’Altare Maggiore”. [7] Ivi, c. 105v.
    Probabilmente la costruzione della chiesa non fu realizzata nelle modalità più eccellenti se già dopo qualche    decennio fu necessario porre   mano a riparare il tetto, nel 1641 [8] Ivi, c. 10r.  e ancora nel 1666, [9] Ivi, c. 26v.  mentre altri lavori di riparazione alla struttura della chiesa stessa vennero fatti nel 1669. [10] Ivi, c. 34r.Il piccolo campanile fu costruito nel 1651, [11] Ivi c.19v i   mattoni necessari però erano stati preparati già da cinque anni, [12] Ivi, c. 16r. la campanella   era pronta quasi da dieci per la quale erano stati spesi 5 testoni. [13] Ivi, c. 11r.

    Nel   1674 la confraternita si riunisce nella chiesa parrocchiale di S. Silvestro “stante che la chiesa di S. Carlo minaccia ruina”, per “risarcirla ci   vogliono all’incirca 12 scudi” ma i denari non ci sono per cui è necessario tagliare legna nel campo della Cannuccia di proprietà della confraternita stessa. [14] Ivi, c. 44r, 25 febbraio 1674.

    Questo fondo, situato    nell’omonima contrada, “al di del Fossato”, o fosso di S. Giovanni, e il confine con Cupramontana, allora Massaccio, [15] CECCARELLI RICCARDO, Monte Roberto. La terra, gli uomini e i giorni, Comune di Monte Roberto  2012, p. 35. era stato donato alla confraternita per testamento del 15 aprile 1614 da Fiorano di Mariano di Monte Roberto con l’obbligo di far celebrare 6 messe all’anno presso l’altare di S. Carlo. [16] Archivio Parrocchiale S. Silvestro Monte Roberto, Libro della Compagnia della Morte del Castel Monte Roberto, c. 85r. Altro terreno ubicato in contrada Porcini, nei pressi dell’attuale via San   Settimio, [17] CECCARELLI RICCARDO, Monte Roberto. La terra, gli uomini e i giorni, cit., p. 39. nelle prime decadi del Settecento risulta di proprietà della confraternita: in ambedue insistevano “moltissime quercie”, si riteneva opportuno che   esse venissero   vendute e investirne il ricavato in beni stabili o in censi in denaro! [18] Archivio Parrocchiale S. Silvestro Monte Roberto, Libro della Compagnia della Morte del Castel Monte Roberto, c. 114v, 30 luglio 1730. della festa di S. Carlo, 4 novembre, e nella festa di S. Rocco, Il 16 agosto. [19] Ivi, c. 5r (1636), c. 6r (1637) e c. 9r, 16 agosto 1640). Due erano gli altari della chiesa, quello maggiore dedicato a S. Carlo ed uno laterale dedicato alla SS.   Concezione che aveva un legato, cioè un obbligo di sante messe, istituito da Giovanni Oliva di Monte Roberto. [20] Ivi, c. 54v, 26 marzo 1679.I vescovi di Jesi nelle loro periodiche visite pastorali alle parrocchie della diocesi ispezionavano tutti gli edifici di culto, visitando Monte Roberto, la chiesa di S. Carlo era oggetto di attenzione anche perché sede della confraternita della Morte. In queste relazioni, alcune delle quali sono particolarmente circostanziate, troviamo descritta la situazione statico-architettonica della chiesa stessa, gli altari, i quadri e tutto ciò che attiene alla funzionalità dell’esercizio del culto.

    Nella visita pastorale fatta da Mons. Antonio Fonseca il 13 settembre 1726, la chiesa di S. Carlo viene trovata “sub nudo tecto”, senza volta cioè, tutta la struttura   “aliquantum   inforrmis”, alquanto rozza e squallida, particolarmente per il magazzino-granaio    del Monte Frumentario    della confraternita ubicato nelle vicinanze e in parte sopra la chiesa stessa e in concomitanza con una casetta della famiglia Guglielmi, magazzino raggiungibile attraverso una scala. Vi sono due altari, uno dedicato a S. Carlo con una tela dipinta (quella di Antonino Sarti) e l’altro dedicato alla Concezione, con una pittura su tavola (“cum pictura in tabulis”) rappresentate la Concezione (la Madonna), S. Sebastiano e S.  Rocco “circumligata a quodam parvo ligno inciso et in rimis aurolito”, con una cornice cioè in legno scolpito e dorato. Nell’altare di S. Carlo c’è un’urna in legno scolpito e dorato dove   sono contenute alcune reliquie di santi. In un armadio è conservata   una statua della   Madonna della Concezione con la veste di seta. Nella parete c’è dipinta la Madonna di Loreto   con due immagini di santi; sul tetto o meglio sul piccolo campanile, la campanella. [21] URIELI COSTANTINO, Visite Pastorali. Regesto, d. s. Jesi 1989, p. 132.

    Dopo quattro anni Mons.  Fonseca ritornò a Monte Roberto per una   nuova visita pastorale, 1’11 agosto 1730. Trova gli altari della chiesa di S. Carlo del tutto sguarniti anche del necessario per il culto, soprattutto per la povertà della confraternita. Per affrontare le spese necessarie il vescovo ordina di abbattere alcuni alberi infruttiferi nel piccolo terreno di proprietà della confraternita dove ci sono anche alcune querce che recano danno. Ordina altresì di demolire il granaio posto sopra la chiesa, prescrizione già peraltro dettata nella visita del 1726 e non eseguita per timore di danneggiare la vicina casetta dei Guglielmi. Questa volta prescrive di dividere i due stabili e demolire la casetta che apparteneva sì ai Guglielmi   ma con tutta probabilità era disabitata e inservibile. [22] Ivi, p. 166. La confraternita intanto comincia   a cercare alcuni vani da utilizzare a ripostiglio e come   piccolo Oratorio. [23] Archivio Parrocchiale S. Silvestro Monte Roberto, Libro della Compagnia della Morte del Castel Monte Roberto, cit., 116r/v, 15 aprile 1731. Riesce a trovarli, ad acquistarli, e a utilizzarli anche come magazzino-granaio, posti di fronte alla chiesa parrocchiale nel palazzo del capitano Mazzini, vani di proprietà di Susanna   vedova di Sebastiano Bocchini, per il prezzo di 33 scudi. [24] Ivi, c. 117r, 16 settembre 1731.

    Nella terza visita pastorale di Mons. Fonseca   effettuata a Monte Roberto il 4 ottobre 1737, l’altare della Concezione nella chiesa di S. Carlo è detto altare del Suffragio perché presa a carico dall’Opera Pia del Suffragio, [25] URIELI COSTANTINO, Visite Pastorali. Regesto, d. s. cit., p. 179. emanazione della confraternita della Morte, che nel frattempo si era “domiciliata” presso la stessa chiesa.

    L’altare di S. Carlo nella visita pastorale del 2 luglio 1740 viene trovato in ordine, mentre l’altare della Concezione viene detto “de jure animarum purganti” dedicato cioè alle anime del purgatorio al cui suffragio debbono andare tutte le offerte raccolte dalla confraternita della Morte. L’ordine di demolire la casetta attaccata alla chiesa, che il vescovo aveva precedentemente dato, è stata eseguito.  La confraternita aveva chiesto di acquistare l’area della casa demolita; il vescovo si reca sul posto per rendersi conto di persona, il proprietario dell’area è il vicario foraneo don Costantino Guglielmi che si dice disposto a venderla. Il contratto viene stipulato e sottoscritto il giorno dopo per il prezzo di 3 scudi che vengono subito versati; contemporaneamente si prende l’impegno di erigere in futuro sullo stesso luogo e a spese della confraternita “aliqua fabrica in ornatum et comodum ipsisus ecclesiae”, una costruzione cioè che sia utile alla stessa chiesa. [26] Ivi, pp. 187-188.

    Il proposito non si riesce a realizzare perché il violento terremoto del 24 aprile 1741   che causò diversi crolli nel castello, [27] CECCARELLI_RICCARDO, Monte Roberto. La terra, gli uomini e i giorni, cit., pp. 83-84. non risparmiò la chiesa di S.  Carloche — è scritto nel registro dei verbali della confraternita — “da un    grandissimo terremoto   fu fracassata”, per cui un anno   dopo si decide la sua   “redificazione” facendo presente la risoluzione e il problema al vescovo. [28] Archivio Parrocchiale S. Silvestro Monte Roberto, Libro della Compagnia della Morte del Castel di Monte Roberto, cit., c. 124r/v, 22 aprile 1742.

    Il progetto-perizia per la ricostruzione fu affidato a due mastri muratori   di Castelbellino, Francesco Lucarini e Marco Boria, approvato dalla confraternita il 15    novembre 1744: il costo era previsto in scudi 165 e 10 baiocchi   da affrontare con la vendita delle querce presenti nei terreni di proprietà della confraternita, con la precauzione però   di non farla globalmente ma di frammentarla in 50 scudi per volta senza così chiedere l’autorizzazione alla competente Congregazione romana, [29] Ivi, c. 127 r/v. Vedi testo completo in appendice. cui per somme superiori a questa somma spettava richiedere e ottenere il relativo permesso.

    La burocrazia, allora — come sempre — non aveva la velocità dei desideri, così la chiesa di S. Carlo quattro anni dopo era ancora da ricostruire. 11 24 marzo 1749 una lettera del vicario generale della diocesi prescriveva le modalità dei lavori della ricostruzione (a giornate e non cottimo) e la nomina di due responsabili, facenti parte della confraternita, che avrebbero dovuto a suo tempo relazionare allo stesso vicario sui lavori e sulle spese. [30] Ivi, c. 137v, la lettera è riportata in copia. La lettera fu certamente recapitata in giornata, se il giorno dopo, 25 marzo, il vicario foraneo don Giuseppe Nicodemi, fa riunire la confraternita e deliberare in merito alle richieste del vicario generale che furono accettare, parimenti furono nominati i due responsabili (“deputati”) alla ricostruzione: Giovanni Procicchiani e Carlo Rotorsciano. [31] Ivi, c. 138r.

    I lavori questa volta, vista anche l’urgenza della confraternita nel rispondere al vicario generale, dovettero iniziare subito e portati avanti con una certa sollecitudine se nel settembre del 1750, il vescovo Mons. Antonio Fonseca ancora in visita pastorale a Monte Roberto descrive la chiesa di S. Carlo “de novo nuper edificata, satis decens”, abbastanza decente cioè, in quanto da non molto riedificata. [32] URIELI COSTANTINO, Visite Pastorali. Regesto, d. s. cit., p. 214.

    Il 9 maggio 1790 la confraternita del Sacramento e Rosario e quella della Buona Morte si uniscono[33] Archivio Parrocchiale S. Silvestro Monte Roberto, Congregazioni della Confraternita del SS. Sacramento e Rosario (17374826), cc. 99v e 100r. La chiesa di S. Carlo diventa proprietà della confraternita del Sacramento e Rosario, la confraternita della Morte mantiene il giuspatronato.

    La posizione   con il passare degli anni si rivelò non certo ottimale, inoltre pericolante qual era, nei primi decenni dell’Ottocento, su suggerimento anche del vescovo, la Confraternita del Sacramento prese la decisione di demolirla e di riedificarla nelle immediate vicinanze sull’area di una vecchia casa di proprietà della soppressa Opera Pia del Suffragio, tenuta in affitto da Paolo Bertini.

    Il passaggio di proprietà della casa dall’Opera Pia del Suffragio alla Confraternita del Sacramento fu autorizzato da papa Pio VII il 2 luglio 1823. La confraternita però non aveva sufficienti risorse finanziarie per la ricostruzione della chiesa. Un buon numero di “devoti” aveva iniziato una sorta di sottoscrizione, non si arrivava però a coprire il totale delle spese che furono affrontate dalla Famiglia di Serafino Salvati che aveva la proprietà delle case a ovest del castello in prossimità della costruenda chiesa. Un capitolato di intenzioni e di obblighi, tra la famiglia Salvati e la confraternita, fu esaminato dall’assemblea di quest’ultima il 7 agosto 1825 e successivamente in una nuova   assemblea del 11 dicembre 1825, subordinato all’avallo delle autorità superiori. [34] Ivi, CC. non numerate. Trascrizione dell’atto dell’Il dicembre 1825 in appendice.

    Il progetto della ricostruzione era tuttavia seguito anche dalle autorità civili che   vedevano nella demolizione della vecchia chiesa un’occasione “di ingrandire la piazza detta di San Carlo e di rendere migliore ornamento al paese”. La proposta però di concedere un contributo di 18 scudi per la ricostruzione viene respinta di misura, 7 voti favorevoli e 9 contrari, nella seduta del Consiglio della Comunità dell’8 settembre 1824. [35] ASCMR, Consigli (1809-1827), p. 257. Lo stesso Consiglio comunque   di lì a qualche mese, il 24 febbraio 1825, riuscì a trovare e ad approvare il contributo dei 18 scudi prelevati da una   somma di scudi 37:50 derivante dalla vendita di uno “spalmento di terra” appartenente   alla Comunità.  [36] Ivi, pp. 260-261.

    Intanto le competenti autorità pontificie, la   Congregazione dei Vescovi e Regolari, approvarono   nei primi mesi del 1826 il capitolato concordato con Serafino Salvati, i lavori così ben presto poterono iniziare e concludersi tenendo presente ogni articolo convenuto con la famiglia Salvati. La chiesa con la parete di fondo insistente a perpendicolo sulle mura castellane era pressoché grande come l’antica chiesa (6 canne quadrate) [37] Ivi, p. 261: “La comunità va ad acquistare un’area di canne sei Romane di terreno che occupa l’antica  Chiesa e che la confraternita accennata cederà a vantaggio e comodo del Publico sentitoché serviranno per dilatare la Piazza S. Carlo”., ebbe il piccolo campanile con l’antica campana, l’altare con la tela di S. Carlo, non fu costruito allora né in seguito un secondo altare come era nei propositi dei Salvati. Era gestita come proprietà della confraternita del SS.mo Sacramento e Rosario, chiesa succursale della parrocchia di S. Silvestro, utilizzata in occasione di processioni dai confratelli della confraternita di Monte Roberto e da altre dei paesi vicini che partecipavano alle   medesime processioni.

    Nella chiesa venne posta non solo la citata pala d’altare con l’effige di “S.Carlo Borromeo sorretto dagli angeli” di Antonino Sarti del 1614, ma nelle ultime decadi del Settecento vi furono collocate, sulle pareti laterali, due altre tele appartenute alla vecchia chiesa di S. Silvestro: lo “Sposalizio della Vergine con S. Giuseppe” e “Madonna   del Carmelo col   Bambino e santi Biagio, Giacomo, Francesco, Caterina e Simone Stock”, quest’ultima dello stesso Antonino Sarti dipinta nel 1616.

    Lo “Sposalizio della Vergine con S.   Giuseppe” era   segnalato nella visita pastorale del 1726 presente nell’altare di S. Giuseppe, giuspatronato alla famiglia Leoni di Staffolo, con ramificazioni a Monte Roberto; la famiglia Leoni cioè si faceva carico di dotare l’altare stesso, o meglio donargli denaro e beni   immobili dai quali l’altare (e soprattutto chi lo gestiva) traeva rendite, mentre l’altra tela era nell’altare di S. Giacomo, giuspatronato della famiglia Magnoni, ambedue altari erano dell’antica chiesa parrocchiale di S. Silvestro, [38] URIELI COSTANTINO, Visite Pastorali. Regesto, d. s., cit., p. 131, p. 179 e p. 187. ricostruita tra il 1769 e il 1797; [39] CECCARELLI RICCARDO, Monte Roberto. La terra, gli uomini e i giorni, cit., pp. 160-170 tele-pale d’altare che nella nuova chiesa non furono più collocate.

    I due quadri nella visita pastorale del 15 maggio 1898 fatta dal vescovo Mons. Aurelio   Bonghi sono attribuiti ad Antonio Sarti dipinti nel 1616, mentre la chiesa di S. Carlo viene detta “giuspatronato della famiglia Leoni di Staffolo”. [40] URIELI COSTANTINO, Visite Pastorali. Regesto, d. s., cit., p. 300. In realtà solo la   “Madonna del   Carmelo col Bambino   e santi Biagio, Giacomo, Francesco, Caterina e Simone    Stock” è firmata da Antonino Sarti e datata 1616, “Antoninus de Sartis F[ecit] 1616”, commissionata    probabilmente dagli eredi di Lucangelo Barchiesi che nel 1603 aveva commissionato    al Sarti il “Martirio di S.  Lorenzo” per   l’omonimo altare nella chiesa di S. Silvestro. La tela nella visita pastorale del 1700 del vescovo Fedeli risulta essere nell’altare di S.  Giacomo, giuspatronato della famiglia Barchiesi [41] MOZZONI   LORETTA, a cura di, Antonino Sarti 1580-1647, Comune di Jesi 1997, pp. 70-72. che poco più di venticinque anni dopo, come abbiamo visto, era passato alla famiglia    Magnoni.

    La tela raffigurante “Lo sposalizio della Vergine con S.  Giuseppe”, non è firmata e reca lo   stemma della famiglia Leoni che aveva il giuspatronato dell’altare di S. Giuseppe, già ricordato, nella chiesa parrocchiale.

    Ambedue    le tele, con l’ultimo restauro, hanno conservato un cartiglio dipinto che indica il commissionario, l’artefice e la data di un primo intervento di restauro nella prima    decade dell’Ottocento; ne “Lo sposalizio della Vergine”: “Tabula hanc    temporum vetustate labefactam Anto[n]ius et Carolus Leoni Staphylani per Joa. [nnem] Ant. [onium] Bastucci concivem Staphyli reficere curav. [erunt].   Anno rep.[aratae] Salutis MDCCCVI”, (Antonio e Carlo Leoni staffolani, provvidero a far restaurare questa tavola   danneggiata dalle ingiurie del tempo, da   Giovanni Antonio   Bastucci concittadino di Staffolo, nell’anno della salvezza 1806).

    Nell’altra tela, poco sotto alla firma del Sarti: “Tabulam hanc, quae   Sacro de jure Gentill. [im]ae     Fam. [ili]ae Leoniae   Staphilanae    addita est.  J.[oannes] Ant. [onius] Bastucci restauravit. Nic. [olao] Leonio. 1807” (Giovanni Antonio Bastucci restaurò questa tavola, affidata per sacro diritto alla gentilissima Famiglia Leoni di Staffolo nell’anno 1807, [a cura di] Nicola Leoni).

    Ambedue    le tele, dopo i lavori di ripristino del vicino Palazzo      Comunale, [42] CECCARELLI RICCARDO, Monte Roberto. La terra, gli uomini e i giorni, cit., pp. 88-92 e Inaugurazione  della restaurata sede municipale, Monte Roberto, 19 ottobre 2002, cartella con 4 tavole, presentazione  del sindaco Olivio Togni e testo di Riccardo Ceccarelli. dal 2002 sono conservate nella Sala Consigliare.  Con la legge 3 agosto 1862, i relativi regolamenti e modificazioni, venivano istituite le Congregazioni di Carità con l’espropriazione di alcuni beni alle confraternite religiose e ad altri enti, la Chiesa di S. Carlo venne tolta così alla Confraternita del SS. Sacramento — anche se in alcuni documenti è detta ancora della Confraternita della Morte [43] URIELI COSTANTINO, Visite Pastorali. Regesto, d. s., cit., p. 300. – insieme ad altri beni, confluendo nelle proprietà della Congregazione di Carità fino al 1937   quando   fu istituito l’Ente      Comunale di Assistenza (E.C.A.)  e successivamente, dal 1978 dopo la soppressione di questo, la chiesa è diventata di proprietà comunale. La chiesa tuttavia, in accordo tra la parrocchia e la pubblica amministrazione, ha continuato e continua   ad essere utilizzata per   qualche circostanza religiosa come l’inizio della processione del Venerdì Santo e della domenica delle Palme o in caso di non agibilità della chiesa parrocchiale per la liturgia domenicale, come in occasione dei lavori di restauro e nuova pittura di tutto l’interno conclusisi nel 1996, e del terremoto del 1997, quando la chiesa rimase chiusa per qualche tempo.

    Nel 1988-89 nella chiesa furono fatti lavori di consolidamento su progetto dell’ing. Guido Monaldi di Ancona ed eseguiti dalla Ditta Ragni Sandro di Pianello Vallesina.

    Sul “campaniletto” della chiesa, ricostruito con essa, vi fu collocata, per volontà di Serafino Salvati, l’antica campana che però risulta non esserci più tra la seconda e la terza decade del Novecento. 11 30 dicembre 1926 infatti “la Giunta Municipale considerato: che fra gli oggetti di proprietà comunale si trovano alcuni mortai in bronzo fuori uso e inutilizzabili per qualsiasi servizio; che la locale Congregazione di Carità ne ha fatto richiesta quale contributo del Comune per dotare la Chiesa di S. Carlo, ad essa appartenente di un doppio di campane delle quali è completamente sprovvista”. E sono “n° 22 i vecchi mortai di bronzo esistenti nel   magazzeno comunale ceduti gratuitamente”. [44] ASCMR, Delibere- della Giunta (1925-1926), 30 dicembre 1926, pp. 27-28.

    I mortai erano stati inizialmente acquistati, verso la metà del Settecento, per fare spari in particolari occasioni di festa, come per la visita del vescovo o per la festa della Madonna di Loreto, [45] CECCARELLI RICCARDO, Monte Roberto. La terra, gli uomini e i giorni, cit., pp. 156-157. inutilizzati da decenni se ne decise la cessione per fare “un doppio di campane”.

    La realizzazione delle campane, che furono effettivamente due, anche se una soltanto è sul piccolo campanile e il posto per un’altra non c’era, fu fatta qualche anno più tardi, nel 1931. Lo testimoniano le poche righe presenti sulla campana stessa:

                               DAL TITOLO

                            DI QUESTA    CHIESA

                               FUI CHIAMATA

                                   SAN CARLO

                                       e

                            A CURA DEL PARROCO

                        DON VINCENZO CIARMATORI

                               E DEL POPOLO

                               A.D. MCMXXXI

                          Fonderia PASQUALINI

                                   FERMO

    Sulla campana vi è una piccola immagine di S. Carlo; serti di quercia, con figure di angeli, circondano la campana.

    L’altra campana è sul campanile della chiesa parrocchiale di S. Silvestro; eloquenti a proposito sono le scritte che vi sono state fuse:

                            A CURA DEL PARROCO

                        DON VINCENZO CIARMATORI

                               E DEL POPOLO

                               A.D. MCMXXXI

                          Fonderia PASQUALINI

                                   FERMO

                                       e

                            NACQUI DAL BRONZO

                            CHE IL MUNICIPIO

                            DONÒ ALLA PARROCCHIA

                        E DAL NOME DEL SUO PROTETTORE

                               FUI CHIAMATA

                               SANT’ATANASIO

    Sulla campana, come nella precedente, vi è la figura del santo di cui porta il nome, S. Atanasio; identici sono i serti di quercia con figura di angeli.

    La Congregazione di Carità aveva ceduto al parroco don Vincenzo Ciarmatori i 22 vecchi mortai di bronzo: due infatti le campane realizzate dalla Fonderia Pasqualini di Fermo, quella per la chiesa di S. Carlo e l’altra per la chiesa parrocchiale, che comunque non nasconde la sua origine, “da bronzo che il Municipio donò alla parrocchia”.

    La chiesa di S. Carlo per due secoli, il Seicento e il Settecento, fu sede e centro propulsore della Compagnia della Morte o Confraternita della Buona Morte, che aveva come scopo principale quello di essere vicino alle famiglie in occasione della morte di   qualche congiunto, di fare suffragi, di offrire un segno di partecipazione al lutto. Il Libro della Compagnia   della Morte ci offre qualche indizio di queste finalità oltre a dirci delle consuetudini e precisi rapporti che c’erano tra i membri della stessa confraternita.

    Quando   moriva qualcuno, la famiglia dalla confraternita riceveva una velettella in cambio di un’offerta, che     rappresentava una delle   poche entrate della confraternita stessa. La velettella era un pezzo di panno nero che veniva indossato dai famigliari per indicare lo stato di lutto. Fino a diversi decenni fa questo segno di lutto si portava per diverso tempo da parte dei congiunti del defunto, cucito sui vestiti. Una velettella nera, in segno di lutto, tuttora è presente sulla croce che precede   la processione del Cristo Morto la sera del venerdì santo. La velettella poteva essere sostituita o chiamata anche fazzoletto o salvietta. [46] Archivio Parrocchiale S. Silvestro Monte Roberto, Libro della Compagnia della Morte del Castel di  Monte Roberto, cit., c. 4v

    Ecco   alcune annotazioni desunte dal Libro della Compagnia   della Morte: “Il 13 febraro 1636 per la morte de   Francesco Reforza una velettella baiocchi quindeci”. [47] Ibidem, “item per la morte del detto una falcola de cera rossa”. “Una torcia e una velettella” nel 1644. [48] Ivi, c. 14v. Per la morte di Maria di Vendolino   fu data il 13 agosto 1673 “una torcietta con alcune candelette et un pezzo di panno” [49] Ivi, c. 40v. Ancora una velettella e una salvietta il 4 ottobre 1677. [50] Ivi, c. 53v.

    Nelle feste di Pasqua la Compagnia   in processione si recava all’eremita, cioè al  convento e alla Chiesa di S. Giacomo di Massaccio, ora Cupramontana, portando  cera. [51]Ivi, c. 7r

    Era consuetudine   poi per i   membri della confraternita recarsi il giorno di Pentecoste    (Pasqua   Rosa) presso  la  chiesa della    Madonna   del Trivio di Castelbellino,  ora  Pianello Vallesina,   per prendere  parte alla festa  e alla processione.  Nel 1647   furono “dati per carità alla Madonna del Trivio di Castel Bellino  baiocchi quattro e quattrini due il sedici [giugno] Giorno di Pasqua Rosa essendoci  andata la processione” [52]Ivi, c. 16r (1647); c. 48v (1682);c. 60r (12 giugno 1685); c. 74r (1692). Il 7 giugno 1688  si ha questa  annotazione: “E più si è cavato dalla scattola vintotto baiocchi per andare alla Madonna del Trivio dati un quattrino per elemosina alla Fratelli per ciascheduno e al ritorno data una pagnotta e bere”. [53] Ivi, c. 154r. “Ventieuno   baiocchi” si spendono per la processione del 1689, [54] Ivi, c. 161r. 6 baiocchi e due quattrini per quella del 1691. [55]

    In occasione della periodica    nomina dei Priori della confraternita si era soliti distribuire grano ai poveri prendendolo dal magazzino del  Monte Frumentario della stessa confraternita, previo l’autorizzazione definitiva del Vicario   Generale del Vescovo   che  nel 1721   prescrive che  “quelli che  prenderanno   detto   grano siano ben instruiti nella Dottrina Cristiana e Misteri della fede e   quando   non siano instruiti debbono intervenire nella Dottrina siano qualsivoglia età e sesso, altrimenti non li si dia il detto grano”. {tooltip}[56] {end-texte} Ivi, c. 107v (27 aprile 1721).

                                  APPENDICE

    1. Risoluzione della Confraternita della Buona    Morte per la ricostruzione

      della chiesa di S. Carlo (1744)

                   In Dei Nomine. Amen    Die 15 novembris 1744

       Congregata etc. serv[ata] serv. [andis] in qua ect. Rev. D. Joseph Nicodemi

    Vicarius Foraneus, ac infrascripti Petrus Piccioni, et Joannes Baptista Cucco

    Priores exercentes, necnon infrascripti Confrates Antonius Tesei, Dominicus

    Farotto, Dominicus Antonius Amatori, Franciscus Piccioni, Joannes Procicchiani,

    Sebastianus Bimbo, Sebastianus Tesei, et Victorius Tesei, in qua per me alta, et

    intelligibili voce lecta fuit sequens ect.

       Per rifare la nostra Chiesa di S. Carlo diruta sino dalli 24 Aprile 1741 dal

    terremoto si richiede la spesa di scudi 165.10 secondo la Perizia di Mastro

    Francesco Lucarini, e Mastro Marco Boria Muratori da Castel Bellino. Però etc.

                                 Tenore della Perizia

                      Al Nome di Dio.  Amen. In Castel Bellino

        Noi Francesco Lucarini, e Marco Boria da Castel Bellino suddetto di

    professione Muratori, attestiamo, come per   ordine de Priori della Venerabile

    Compagnia   della Morte di Monte Roberto Diocesi di Jesi nella Marca abbiamo

    visitato la Chiesa di S. Carlo di detto castello di Monte Roberto, e l’abbiamo

    riconosciuta, e ritrovata affatto diruta; onde secondo il nostro giudizio, e perizia

    diciamo, che il tutto e per tutta la spesa in rifar la detta Chiesa di S. Carlo vi

    possa andare come in appresso

    Calce some ottanta, che con la conduttura, e altra porta la somma di scudi

    ventiquattro    ……24:00

    Pietra cotta, o siano mattoni, coppi, e pianelle e trasporto scudi quarantotto, e baj.

    Novantacinque, cioè

    Mattoni 3000                                                    scudi 12:00

    Pianelle 2500                                                   scudi 10:00

    Coppi 3000                                                     scudi 21:00

    Trasporto, o sua careggio                                       scudi   0:95

    Legnami per il tetto scudi quattordici, e baj quindeci, cioè per

    Torzotti n.° 3 a dieci paoli, e mezzo l’uno                     scudi 03:15

    Sestacchine n° X a sette paoli, e mezzo l’uno                   scudi • 07:50

    Mezzi murali n° 70 a paolo mezzo l’uno                          scudi 03:50

    Per coppe 200 di cesso, compresaci la volta del Coretto        scudi 10:00

    Ferro per chiavi, caviglie per li cavalli, e chiodi             scudi 03:00

    Per opere di Muratori, e Facchini                               scudi 50.00

    Che tutta la spesa potrà ascendere a                            scudi 165:10

        Tanto attestiamo secondo la nostra Perizia, e tanto diciamo   andarà la spesa

    nella riedificazione, e dilazione che si pretende di fare della Chiesa -di S. Carlo

    spettante come avemo   detto alla Venerabile    Compagnia della Morte di    Monte

    Roberto Diocesi di Jesi ed   avemo detto, in segno di tal verità per non sapere

    scrivere, non solamente avemo pregato il Sacerdote D. Sante Cavalieri a scriverci

    la presente nostra perizia; ma ancora segnamo rispettivamente col segno di croce

    fatta di nostra mano

        Croce + di Mastro Francesco suddetto

        Croce + di Mastro Marco suddetti

                                   Io Santi Cavalieri di commissione    mano propria.

    Super qua Propositione Victorius Thesei unus ect. Surgens dixit: “In onore di

    Dio, e di S Carlo stimo bene la riedificazione della Chiesa nel miglior    modo

    possibile, e perché la nostra Compagnia    non à altro assegnamento per la spesa

    necessaria che di esitare le quercie esistenti nei suoi Terreni, dirrei di dare

    l’incumbenza   alli Priori esercenti di considerarle, o farle considerare da altre

    persone capaci, e giudicandosi la valuta di esse sufficiente per la spesa descritta

    dalli suddetti Muratori, li predetti Priori doveranno supplicare     Monsignore

    Illustrissimo Vescovo per la licenza d’incominciare la fabrica con la vendita di

    una porzione di dette quercie non eccedente il prezzo di scudi 50, et in altro tempo

    risupplicare Sua Signoria Illustrissima per la permissione di proseguire la fabrica

    con altra simile vendita non eccedente    come sopra sintanto che etc. altrimenti

    superando la speda e l’alienazione la somma di scudi 50, si richiede a mio parere

    la licenza di Roma.

    Posto a partito il detto di Vittorio fu approvato a pieni voti, come al margine etc.

    Et post gratiarum actiones dimissa fuit etc.

    Ita. est Ego Joseph de’ Nicodemis Vicarius Foraneus

                                         Philippus Mazzini Cancellarius    Foraneus

    (Archivio Parrocchiale S. Silvestro Monte Roberto, Libro della Compagnia   della

    Morte del Castel di Monte Roberto, c. 127 r/v).

    2. Lettera del Vicario   Generale sulle modalità della ricostruzione (1749)

    Al Molto Reverendo   signore mio osservantissimo

    Il Signor Don Giuseppe Nicodemi   Vicario Foraneo di Monte   Ruberto

                                      Molto Reverendo Signor   mio osservantissimo

    Attese le premure mi si fanno per la riedificazione della Chiesa di S. Carlo di

    codesto luogo, sarà Vostra Signoria contenta d’intimare la Congregazione dei’

    Fratelli della Compagnia    della Morte, e nella   medesima   proporre la detta

    riedificazione da eseguirsi a giornate, e non a cottimo, e qual ora per voti segreti

    venga da Congregati abbracciato tal partito, dovrà essa inoltre far eleggere dalla

    medesima Congregazione due o più deputati del ceto della medesima, che restino

    caricati della soprintendenza della detta fabbrica, e di tutto ne avvanzerà poi a me

    esatto riscontro, acciocché in seguito possa inviarle gli ulteriori nostri ordini ad

    effetto che venga della Chiesa redificata com’è dovere, e con quei  maggiori

    vantaggi, che potranno procurarsi al Luogo pio, e le prego dal Signore ogni più

    perfetta felicità.

      Jesi 24 Marzo 1749

                                    Affezionatissimo per servirla sempre di cuore

                                            S. Lauzi Vicario Generale

    (Archivio Parrocchiale S. Silvestro Monte Roberto, Libro della Compagnia della

    Morte del Castel di Monte Roberto, c. 137v).

    3. Risoluzione definitiva della Confraternita del SS. Sacramento e Rosario e

    capitolato con la Famiglia Salvati per la ricostruzione della chiesa di S. Carlo

    (1825)

                               Al   Nome di Dio. Amen

                Governo Ponteficio. Delegazione Apostolica di   Ancona

                            Monteroberto 11   Decembre 1825

        Convocata, ed adunata la presente   Congregazione   della   Venerabile

    Confraternita del SS.mo Sagramento, e Rosario di Monteroberto per ordine

    dell’Eminentissimo Signor Card. Pacca Prefetto della Sacra Congregazione de’

    Vescovi, e Regolari dei 23 Settembre passato diretto all’Eminentissimo Signor

    Card. Cesarei Leoni Vescovo di Jesi, e quindi comunicato a questa   medesima

    Confraternita, presieduta dal Molto Reverendo Signor D. Paolo Breccia, Vicario

    Foraneo, dai Priori odierni, Arcangelo Scarabotti, Pacifico David, Silvestro

    Agostinelli e Giuseppe Carbonaro, non meno, che dagli infrascritti Fratelli, Signori

    Priore Domenico, Cialone Antonio, Archetti Domenico, Barcaglioni Pasquale,

    Cerineo Arcangelo, Lucarino Agostino, Brusco   Giuseppe, Cesarone Antonio,

    Ruggieri Lorenzo, Amatori Gioacchino, Moretti Giuseppe e da me Cancellier

    Foraneo, in cui fu fatta la seguente

    Proposta.

       Sotto il di 7 Agosto passato si convocò, ed unì questa Congregazione per

    risolvere ciò, che doveva farsi in merito alla ricostruzione della cadente Chiesa di

    S. Carlo Succursale di questa Parrocchia. La stessa Congregazione trovandosi

    sfornita de’ mezzi per eseguire l’impresa, co discese a maggioranza di voti

    favorevoli, che questa venisse rifabbricata dalla Famiglia dei Signori Salvati, per

    quale si era offerto il Signor Serafino di ricostruirla a proprie spese con diverse

    condizioni espresse in essa Congregazione    sotto quindici Articoli, che nella

    medesima    Congregazione si leggono riportati.

     Sotto il giorno 28 di detto mese   di agosto con Decreto    del’Eminentissimo

    signor Cardinale   Cesarei Leoni   Vescovo di Jesi   fu   approvata la riferita

    congregazione in tutte le sue parti, con la riserva, che per i diritti richiesti agli

    articoli 5, 6, 7 e 8 si dovesse ottenere il Beneplacito Apostolico come apparisce

    dal Decreto medesimo.

     Fatto perciò ricorso alla S. Congregazione de’ Vescovi, e Regolari, mediante

    istanza del Sig. Serafino Salvati di questo luogo, detto S. Consesso con il suddetto

    venerato dispaccio 23 Settembre perduto ha prescritto, che si sentano i Confratelli

    canonicamente   adunati, ed il Parroco per aversene le relative deduzioni soprattutto

    ciò, che qui appresso si ripete.

     La Santa    Memoria di Papa Pio Settimo nell’udienza dei due luglio 1823,

    concedeva   a questa Venerabile   Confraternita   del SS.mo   Sagramento, di

    Monteroberto in perpetuo la proprietà della piccola casa esistente all’interno di

    questo Comune in Contrada Piazzola, la quale una volta apparteneva alla soppressa

    Opera Pia delle Anime Purganti di Monteroberto, alla presente tenuta a nolo a

    Paolo Bertni ad oggetto di demolirla, e ricostruire nel sito della medesima la

    Chiesa cadente di S. Carlo, che è succursale della Parrocchia di quesito Luogo,

    ed un nell’interno del Paese.

     Monsignor    Tesoriere   Generale    con ordinanza    diretta alla   Generale

    Amministrazione de’ Beni Ecclesiastici, e Comunitativi di Macerata dei 5 Luglio

    823, n°4177 Computisteria Generale Divisione 5, mandò ad effetto tale Sovrana

    beneficenza, prescrivendo a detta Amministrazione, che fosse tenuta all’atto

    formale della Cessione suindicata, conforme esegui con verbale autentico del 4

    aprile 1824; onde si disponeva    per parte della Confraternita la rifabrica

    dell’enunciata Chiesa Succursale di S. Carlo. La   nominata Confraternita però,

    come   ognuno de’ Fratelli conosce, non ha mezzi, né   può sperare risorse per

    sostenere la spesa di un’opera, per la quale non può calcolarsi una spesa minore

    della riflessiva somma di scudi 120. Molto meno può contare la Confraternita

    suddetta sull’entrate certe dell’anno, le quali non superano gli scudi 18 circa, non

    sono perciò bastanti neppure a sostenere le spese annuali, e molto meno   può

    lusingarsi sui prodotti eventuali, perché o non si verificano nel decorso di ciascun

    anno, o sono di leggerissima entità, e di quasi impercettibile considerazione.

     Vista pertanto l’enunciata Confraternita l’impossibilità di poter mandare ad

    effetto una tale impresa, oggi si è offerto il Sig. Serafino Salvati di Monteroberto,

    e sua famiglia, proponendo di rifabricare la detta Chiesa di S. Carlo a sue spese,

    con i seguenti patti, capitoli, e condizioni.

    1. La Famiglia Salvati rifabbricherà la detta Chiesa di S. Carlo, o nel sito della

       Casetta ceduta dal Governo, o poco sopra, o poco sotto la medesima, giacché

       l’accennato Sig.  Serafino Salvati è proprietario delle case, ed orti tanto al di

       sopra, quanto al di sotto della indicata Casetta.

    2. Detta Chiesa sarà all’incirca simile nella grandezza alla Chiesa attuale, rifinita

       internamente a stucco bianco, con un Altare isolato, collocandovi il quadro

       attuale di S. Carlo, dipinto dal Sarti, giacché la nuova Chiesa dovrà mantenere

       lo stesso titolo di S. Carlo.

       All’esterno la Chiesa dovrà essere rabboccata a pietra scoperta con calce,

       secondo l’arte. Dovrà nella nuova Chiesa esservi il Campaniletto nel modo,

       come ci sta al presente, e dovrà ricollocarvisi l’attuale campana.

       La ridetta nuova Chiesa dovrà rimanere in perpetuo al publico culto, come lo

       è al presente, ed è stata in passato.

    3. La Confraternita del SS.mo Sagramento suindicata di Monteroberto riterrà in

       diritto perpetuo di proprietà di essa Chiesa di S. Carlo di modo, che ultimata

       che sia a null’altro sarà tenuta la detta Famiglia Salvati.

    4. La indicata Chiesa continuerà ad essere Succursale della Parrocchia, come lo

       è stata fino al presente anche quella da demolire, tale essendo stata anche

       dichiarata dalla S. Memoria di Papa   Pio Settimo nel Rescritto sunnominato

       due luglio 1823.

    5. In corrispettiva, ed in benemerenza di tale spesa, il Sig. Serafino, e Famiglia

       Salvati richiede il permesso, e vuole il diritto di costruire in detta nuova Chiesa

       un Coretto in quella parte, che più le piacerà, e che possa entrarvi dalle Case

       di pertinenza del riferito Sig. Serafino Salvati tanto fabbricate, e che potessero

       fabbricarsi in appresso, giacché come si è detto, la nuova Chiesa rimarrà tra i

       propri beni con facoltà e però di attaccare le stesse Case a detta Chiesa, senza

       che la Confraternita possa    giammai pretendere   alcun diritto per causa di

       appoggio, o compenso, di modo che la detta Famiglia debba sempre, ed in

       ogni tempo, godere del mezzo   muro da ambedue i lati, giacché la Chiesa

       stessa trovarassi in contatto con le dette fabriche, e Beni Salvati. Al Sig. Serafino

       Salvati, e sua Famiglia, sarà vietato, e giammai potrà fabricare sopra il tetto

       della nuova Chiesa; avrà però il diritto di sorpassare la Chiesa stessa con uno,

       o con ambi gli accennati muri laterali, ma in questo caso la Famiglia Salvati

       dovrà subito incominciare ad avere il peso del mantenimento   di uno, o dei

       due muri, che avranno   superato il tetto della Chiesa medesima.

    6. Che i sotterranei di detta Chiesa debbano   essere   perpetuamente di privata

       proprietà di detta Famiglia, da convertirsi in usi decenti, e convenevoli, con le

       necessarie   comunicazioni laterali al di sotto del pavimento della Chiesa, pei

       quali sotterranei avrà l’obbligo del mantenimento della Fabrica in proporzione,

       a tenore di stile, e di legge.

    7.  Che in detta Chiesa di S. Carlo possa la divisata Famiglia Salvati tenere una

        credenza, anche infissa al muro, per conservarsi i supellettili di loro proprietà

        per uso della S. Messa.

    8.  Che debba avere, e ritenere la detta Famiglia Salvati perpetuamente una chiave

        della porta   d’ingresso di detta Chiesa, simile a quella, che dovrà ritenersi

        della Confraternita del   SS.mo Sagramento, e Rosario, abile ad aprirla, e

        chiuderla, onde possa andarvi ad orare, e celebrarvi, o farvi celebrare la S.   

        messa, a comodo proprio, ed anche del popolo.

    9.  Restano ceduti, come si è detto, i diritti di Padronanza, e la perpetua proprietà di

        tal Chiesa alla nominata Compagnia del SS.mo Sagramento, ed in conseguenza

        di valersi della medesima, anche nelle Processioni generali del Paese, onde farvi

        vestire, e spogliare tutti i Fratelli non solo di essa Compagnia, ma di qualunque

        altra, che potesse porsi in piedi in avvenire, e di quelle dei vicini Paesi nelle

        circostanze, che venissero invitati per qualunque festa tra l’anno.

    10. La stessa Chiesa di S. Carlo dovrà sempre, ed in perpetuo conservare i diritti

        di Chiesa Succursale della Parrocchia, senza lesione dei diritti della Parrocchia

        medesima.

    11. La Confraternita del SS. Sagramento, e Rosario, in conseguenza dovrà cedere

        in perpetuo alla Famiglia Salvati la Casetta enunciata col di lei Fondo, ed

        annessi, e così tutte le macerie della Chiesa attuale di S. Carlo, i legnami in

        essa esistenti, e tutt’altro alla medesima aderente.

    12. Il fondo, su cui al presente è fabricata la detta Chiesa di S. Carlo sarà ceduto

        dalla Compagnia in beneficio della Comunità, onde   ingrandire con esso la

        Piazzetta, su cui esiste, senza poterci mai più fabricare.

    13. Saranno ceduti dalla indicata Compagnia alla Famiglia Salvati gli scudi 18

        che sono stati promessi dalla stessa Comunità con   approvazione del Buon

        Governo, ad oggetto di rifabricare la detta Chiesa a norma dell’ordinanza

        della Delegazione d’Ancona dell’8 Giugno 1825 n° 5150, dovendo tal somma

        andare in diminuzione della spesa, di cui si carica la detta Famiglia Salvati.

    14. Ad oggetto di riparare la vicina caduta di essa Chiesa, sia lecito alla Famiglia

        Salvati di demolirla appena ottenuta la superiore    approvazione, perché

        cadendo andarebbero in rovina, non solo l’armato dei legnami, ma ancora

        tutti i materiali del tetto. In questo caso la Famiglia Salvati si obliga di

        rifabbricarla entro un anno, in modo di potersi officiare, e rifinirla del tutto,

        entro due anni.

    15. La detta Famiglia Salvati avrà il diritto di poter costruire in detta Chiesa un

        altare laterale a sue spese, e sotto qualsivoglia titolo; e ciò possa farlo o

        nell’atto, che si fabrica detta Chiesa, o in avvenire a suo piacimento; ed in tal

        caso l’altare, sarà in perpetuo della stessa Famiglia, e così il peso del di lui

        mantenimento.

    Sopra le quali proposizioni, ed articoli levatosi in piedi il Sig. Gioacchino Amatori,

    eletto consultore, così. disse:

    «Dalla proposizione, e suoi articoli ognun conosce quali vantaggi produce l’opera

    e per questa Compagnia, e per il popolo, e pel sussidio della Parrocchia.  Non

    sembrano gravose le condizioni, con le quali la Famiglia dei Sig.ri Salvati si va a

    caricare di una spesa, che giammai può sostenere questa Confraternita, non ostante,

    che esigga la necessità, ed il diritto di soccorso   parrocchiale di averla

    continuamente officiabile. Sono quindi di fermo parere, che questa Confraternita

    approvi in tutta la estensione il progetto, e le condizioni sud descritte, come utili

    per ogni, e qualsivoglia rapporto; e però si mandi il tutto complessivamente   a

    partito con il Capitolato, e tutt’altro, che può meritare particolare menzione su

    quest’oggetto, e riportando la maggioranza de’ voti favorevoli s’intenda per parte

    di questa Congregazione approvato, salva la sanzione dell’Eminentissimo Cesarei

    Leoni Cardinal   Vescovo di Jesi, e della Congregazione de’ Vescovi e Regolari,

    dopo la quale l’atto presente sarà autenticato mediante pubblico Istromento da

    stipularsi a tutte spese della nominata Famiglia Salvati».

      Tutti gli altri Sig.ri Fratelli, e Priori congregati si sono uniformati al parere del

    nominato consultore conservandosi nel loro silenzio.

       Quindi raccolti i voti si è deciso a   maggioranza de’   medesimi, che il Sig.

    Serafino Salvati, e sua Famiglia rifabrichino la riferita Chiesa Succursale di S.

    Carlo, mantenute sempre vicendevolmente   le enunciate   condizioni, dopo le

    opportune sanzioni superiori, avendo l’oggetto riportato voti favorevoli diciassette,

    contrari uno come in margine.

       E rese le dovute grazie al Cielo, fu dimessa la Congregazione.

       Seguono le firme

       Paolo Pievano Breccia Vicario Foraneo mano   propria

       Filippo Salvati Cancelliere Foraneo mano propria

    (Archivio Parrocchiale   S.  Silvestro Monte   Roberto, Congregazioni della

    Confraternita del SS.   Sacramento e Rosario (1737-1826), cc. non numerate).

                                                                Riccardo Ceccarelli

  • 172 6.5C Chiesa di S. Maria del Buon Gesù

    172 6.5C Chiesa di S. Maria del Buon Gesù

    Era ubicata nelle immediate vicinanze dell’incrocio tra le attuali via Pace e viale Matteotti. La sua costruzione, conclusasi nel 1567, si deve all’iniziativa della Compagnia del Corpus Domini 151 Zenobi Ciro, op. cit., p. 17. mentre il sacerdote che l’officiava, che era anche maestro nella scuola, riceveva l’onorario dalla pubblica amministrazione come maestro e come cappellano, equiparato per quest’ultima mansione, nel 1606 a quello che prima gli passava la compagnia. 152 ASCMR, Consigli (1608-1616), c. 37r, 5 agosto 1608. La nomina di cappellano era soggetta a riconferma annuale o al massimo per due/tre anni; il salario era previsto in bilancio, inoltre riceveva una soma di grano ed aveva la possibilità di “poter fare la cerca delle vendemmie e del mosto”. 153 Ivi, c.67r, v. Il Comune pagava il cappellano anche perché aveva partecipato almeno per la metà, alle spese della costruzione della chiesa così come partecipava in parte o si assumeva completamente a carico le spese per la sua manutenzione ordinaria e straordinaria. 154 Ivi, c.109r, 26 ottobre 1613; cc. 144v e 145r, 11 febbraio 1615, tetto caduto, da rifare. La Compagnia o Confraternita del Corpus Domini o del SS.mo Sacramento, unita amministrativamente alla Confraternita del Rosario, non riusciva a far fronte alle spese. 155 Possedeva solo la chiesa, cfr. Zenobi C., op. cit., p. 116, nota 46. per la chiesa, così che il Comune progressivamente se ne dovette assumere completamente l’onere, a volte però anch’esso non aveva i fondi necessari interventi tempestivi: nel 1674 l’ufficiatura nella chiesa fu sospesa per qualche tempo per ordine del vescovo in attesa di lavori ben eseguiti, infatti porte e finestre non erano state accomodate secondo le direttive date durante la visita pastorale dell’anno prima. 156 ASCMR, Consigli (1665-1676), c. 119v, 4 marzo 1674. La chiesa era chiamata anche Chiesa nuova in relazione, per l’epoca della costruzione, a quella di S. Silvestro più vecchia e unica del paese, e anche Chiesa della Madonna della Pietà per un quadro su tavola che risaliva al Seicento raffigurante la SS.ma Vergine della Pietà posto nell’altare maggiore e restaurato nel 1758. 157 ASCMR, Consigli (1756-1766), c. 69r, 9 aprile 1758, lo aveva ordinato il Vescovo Fonseca nella visita pastorale del 12 giugno 1755. Nel marzo 1687 cadde dal campanile l’unica campana: era talmente piccola che il suo suono “non si sentiva nemmeno da piedi del Castello”, nel rifarla si pensò di arrivare almeno a 50 libbre, 158 ASCMR, Consigli (1676-1698), e. 138 v. Ivi, c. 208v, 14:giugno 1693. quando poi in concreto si riuscì a farla nel 1695, si arrivò invece ad un peso di 60 libbre (poco meno di 20 kg.). 159 Ivi c. 230r, 19 giugno 1695.  Il cappellano, verso la metà del Settecento, è obbligato a celebrare nella chiesa una messa ogni domenica per ciascun mese dell’anno e in tutte le feste della Madonna, sia di precetto che di devozione; negli altri giorni doveva celebrare nell’altare del Rosario della chiesa parrocchiale di S. Silvestro o dove gli sarebbe stato comodo, comunque se fosse stato inadempiente il Comune lo avrebbe privato della cappellania. 160 ASCMR, Consigli (1735-1755), c. 104r, 4 marzo 1742. Il vano della chiesa era coperto da un tetto senza volta, un arco delimitava il presbiterio e l’altare ricoperti da un’abside; sui gradini dell’altare c’era una piccola urna di legno con il corpo di S. Bonaventura martire. 161 Urieli C., Archivio Diocesano – Visite Pastorali, ds., p. 132. Nel 1755 la chiesa è in pessimo stato e il vescovo mons. Antonio Fonseca invita a trovare una soluzione per un radicale restauro. 162 Ivi, c. 197r. Sei anni più tardi si decise di rifabbricarla; i lavori vennero appaltati nel 1762, 163 ASCMR, Trasatti della Comunità di Monte Roberto (1758-1777) cc. 25-27, 25 aprile 1762; cfr. testo in Appendice n. 5, pp. 292-294. il progetto, pianta e disegno erano dell’architetto Ludovico Alessandri di Staffolo; 164 ASCMR, Registro delli Bollettini (1711-1775), c. 181 V. fu benedetta da don Girolamo Noni, già parroco di Monte Roberto, delegato del vescovo, vicario generale e rettore del seminario di Jesi, il giorno 8 settembre 1763. 165 Ivi, c. 197r.   ASCMR,   Consigli (1756-1766), c. 22/v. Nel 1817 nella chiesa si tumulava provvisoriamente e si pensava di fare nelle sue vicinanze il cimitero, si soprassiede però al progetto non avendo parere favorevole del medico; 166 ASCMR, Consigli (1809-1827), pp. 93-94, 8 marzo 1817; p. 105, 29 maggio 1817. vent’anni dopo si ritorna sull’argomento e si approva il progetto che tuttavia non verrà realizzato. Durante il colera dell’estate 1855 l’area limitrofa alla chiesa fu trasformata in cimitero provvisorio sia per Monte Roberto che per Castelbellino: le salme furono esumate nel 1871 per mettere di nuovo il campo a coltura. 167 ASCMR, Deliberazioni Consigliari (1866-1876), p. 95, 25 maggio 1871. La chiesa di S. Maria della Pietà divenuta Chiesa Tumulante del Cimitero ancora in piedi nel 1866, risulta “diruta” nella visita pastorale del 1869. 168 Urieli C., Archivio Diocesano – Visite Pastorali, cit., pp. 272 e 277.

  • 173 6.5D CHIESA DI S.MARIA DELLA NEVE

    173 6.5D CHIESA DI S.MARIA DELLA NEVE

    Di questa chiesa rimane solo il nome, via Madonna della Neve, dove sorgeva; la contrada era chiamata anche le Villate o Poggetto. La prima notizia è del 1697 quando la chiesa viene benedetta dal vescovo mons. Alessandro Fedeli e dedicata a S. Maria Neve e a S. Guglielmo abate in occasione della sua visita pastorale il 2 settembre a Monte Roberto. Ricostruita di nuovo (“noviter extructa”), e per questo benedetta, la chiesa doveva essere più antica, era oratorio privato della famiglia Guglielmi che il vescovo prima di questa occasione nelle sue visite pastorali non aveva mai visitato. 169 Ivi, pp. 72 e 77. Di piccole dimensioni, coperta dal tetto senza volta, eccetto la parte superiore separata da un arco con una piccola abside sull’altare; nel 1726 c’erano nella chiesa le statue della Madonna con il Bambino e di S. Albertino e, più piccole, di Gesù Bambino, di S. Pietro e di S. Paolo. 170 Ivi, p. 132. A metà del Settecento alla famiglia Guglielmi subentra la famiglia Palmucci, così è scritto nella relazione della visita pastorale del 1758. 171 Ivi, p. 220. Alla fine dell’Ottocento, il 15 maggio 1898, la chiesa è visitata da mons. Aurelio Zonghi, vescovo di Jesi, in visita pastorale a Monte Roberto, e viene trovata ridotta ad una rimessa e ad un magazzino e non più officiata. 172 Ivi, pp. 300.

  • 174 6.5E CHIESA DI MARIA ASSUNTA

    174 6.5E CHIESA DI MARIA ASSUNTA

    È la chiesa del cimitero costruita nel 1867-68 su disegno dell’Arch. Ciriaco Santini (1797-1889) di Jesi, cui si deve anche il cimitero stesso: 173 Ibidetn.
    Si tratta probabilmente della medesima chiesa chiamata della Concezione di Maria, ricordata nella visita pastorale del 22 febbraio 1875 ed ubicata in contrada Belvedere: 174 Urieli C., iop. cit:, p. 285.

  • 174 6.6A ABBAZIA DI S. APOLLINARE

    174 6.6A ABBAZIA DI S. APOLLINARE

    Sorge sul luogo di quella che fino a non molto tempo fa era ritenuta l’area dell’antica città romana di Planina scomparsa nel V sec. e della quale l’abbazia potrebbe rappresentare un elemento di continuità, come nella vicina Cupramontana la chiesa plebale di S. Eleuterio che sorgeva entro il perimetro di Cupra Montana, la città romana nei pressi dell’attuale cimitero. 175 Cherubini A., Le antiche pievi della diocesi di Jesi, p. 78. Ceccarelli R., Le strade raccontano, cit., p. 169.
    Viene ricordata per la prima volta 1180 quando l’abate di S. Apollinare, Uffredo, firma per primo tra non pochi testimoni, l’atto di aggregazione dell’abbazia di S. Elena sull’Esino a Camaldoli. Secondo testimone fu l’abate Martino del vicino monastero di S. Giovanni d’Antignano in stretto rapporto con l’abbazia di S. Apollinare nella quale forse si trasferirono dopo l’assalto subito dal monastero nel 1284 e alla quale poi passarono tutti i beni. 176 Cherubini A., Arte medioevale nella Vallesina, p. 168, nota 6. Urieli C., La Chiesa difesi, Jesi 1993, P. 194,


    La sua origine può essere addirittura anteriore al Mille e collegata alla prima immigrazione di monaci nella valle dell’Esino. La dedicazione a S. Apollinare richiama senza dubbio il dominio esarcale di Ravenna “che si estendeva tra il VI e l’VIII secolo sulla Pentapoli e al qual Santo, patrono di Ravenna, erano dedicate in questo territorio almeno una quindicina di chiese. Peraltro, più che alla fondazione da parte della chiesa di Ravenna, o di monasteri ravennati, viene ipotizzato che il titolo possa richiamarsi alla sola dedicazione della chiesa suggerita forse dal fatto che la zona di S. Apollinare, posta al confine tra la zona bizantina e quella longobarda, segna il punto di incontro tra le correnti benedettine provenienti dal sud (Norcia) e la tradizione ravennate proveniente dal nord”. 177 Urieli C., Jesi e il suo Contado, vol. I, torno I, pp. 274-275.
    Tra il Duecento e il Trecento l’abbazia conobbe il periodo di maggiore importanza, i suoi abati ebbero incarichi amministrativi per l’intera diocesi di Jesi e ne assistevano il vescovo negli stessi problemi, mentre le terre possedute arrivarono a circa 160 ettari. Con il Quattrocento, come per molti altri centri monastici, inizia il decadimento che si concluderà nel secolo successivo quando i beni dell’abbazia, ormai vuota di monaci, saranno attribuiti al Priore del Capitolo della Cattedrale di Jesi nel 1539 con bolla di Paolo III.
    Qualche decennio più tardi la chiesa è descritta come “rurale e non molto curata”, il Priore della Cattedrale vi fa celebrare la messa solo saltuariamente. 178 Zenobi C., L’episcopato jesino di Mons. Gabriele del Monte, cit., p. 202, visita pastorale del 1573. Alla fine del Seicento va in rovina il tetto e l’intera struttura è totalmente in cattivo stato; 179 Urieli C., Archivio Diocesano – Visite pastorali, p. 77 (1697). ristrutturato il tetto “si susseguirono deterioramenti ed alterazioni della originaria fisionomia del tempio, il quale venne intonacato e successivamente sfigurato con il rinnovamento del presbiterio, con incongrui altari laterali [fatti dopo il 1726], nuove e altrettanto incongrue finestre in luogo delle originarie, che vennero chiuse, basso soffitto di cannucciaia, nicchie scavate nelle sue pareti per statue di santi, dotazione di suppellettile intonata con l’aspetto ormai irriconoscibile acquistato dall’antica chiesa.
    Nuove alterazioni questa subì nel 1928, quando un discutibile restauro (che ebbe per altro il merito di ricostruire il cadente tetto, sia pure ad un livello un poco superiore all’originario) distese una cornice di archetti pensili prima inesistente alla sommità delle pareti e della facciata, eliminò l’antico campanile a vela sopra il lato sinistro della facciata stessa per erigerne uno di sana pianta a fianco della chiesa (di cui turba la visione) e chiuse del tutto la pur non originaria e ampia finestra già aperta sopra il portale.


    Un più positivo restauro ha avuto inizio nel 1968 con la stonacatura delle pareti, abbattimento del soffitto a cannucciaia, la rimozione della cantoria sovrastante il portale, ed è proseguito con ritmo più intenso nel 1973 con la eliminazione degli altari, nicchie, porte e finestre degli ultimi secoli, la  riscoperta e riapertura delle originali monofore feritoie e porticine laterali, la ripulitura della parete absidale, in cui è stato scoperto e rimesso in luce un affresco del secolo XVI (su cui era stata successivamente stesa una modesta pittura a olio), restituendo così il tempio alla sua schietta semplicità originaria.
    Nell’anno successivo la Soprintendenza ai Monumenti sottolineava il “rilevante interesse storico ed artistico” dell’edificio sacro che giudicava “di grande importanza per la storia degli insediamenti monastici lungo la valle dell’Esino, per la storia della Pentapoli adriatica e le sue relazioni con la chiesa ravennate, per la storia dell’arte locale” […].
    Dal punto di vista architettonico S. Apollinare è una chiesa in laterizio di aspetto romanico-gotico a pianta rettangolare navata unica, abside piatta, facciata a due pioventi. […] L’interno si presenta come semplice aula rettangolare coperta a capriate, nella quale predominano le dimensioni della lunghezza e dell’altezza da cui un certo verticalismo dell’ambiente, non privo di una nota di misticismo per la nudità delle pareti e la scarsa luce filtrante dalle poche monofore e feritoie […].
    Per la datazione della chiesa attuale non soccorrono documenti scritti. […] I caratteri stilistici e il raffronto con le altre abbazie della Vallesina sembrano riportarla al sec. XIII.

    Di gotico infatti c’è soltanto il portale e, se si vuole, un certo verticalismo dello- spazio interno e dell’abside piatta mentre le aperture sono tutte decisamente romaniche e le feritoie costituiscono un indubbio segno di vetustà. D’altra parte non sembra verosimile una ricostruzione della chiesa nel sec. XIV, quando la stagione migliore dell’abbazia era già tramontata. Anche i pochi resti del monastero inglobati nella casa colonica adiacente, hanno carattere romanico, con volte a botte e le aperture a feritoia”. 180 Cherubini A., Arte medievale nella Vallesina, cit., pp. 167-168.    Cherubini A., Arte medievale nella Vallesina. Una nuova lettura, cit., pp. 191-195. Albino Savini Maria Rosa, L’abbazia cistercense di S. Maria in Castagnola, Chiaravalle 1984, pp. 93-94.    Cherubini A., Restauri a S. Apollinare, in Voce della Vallesina, n. 33, 30 settembre 1973
    Con i restauri e eseguiti nel 1973 si auspicava che anche la parete esterna dell’abside potesse essere liberata dalla costruzione su di essa insistente e addossata, 181 Cfr. Voce della Vallesina, n. 7, 9 luglio. 1972, p. 5. irrealizzata allora venne portata a termine con i restauri eseguiti nei locali adiacenti verso la fine del Novecento.
    L’affresco sulla parete absidale, già descritto nella visita pastorale del 1726, 182 Urieli C., Archivio Diocesano – Visite Pastorali, ds., p. 138. successivamente ricoperto da intonaco poi di nuovo messo in luce nel corso dei restauri della chiesa, rappresenta la Madonna in trono.


    È stato restaurato nel 1973-74 dal prof. Arnolfo Crucianelli. 183 Urieli C., Un affresco del 500 in luce a S. Apollinare, in Voce della Vallesina, n. 24 del 16    giugno 1974. Datato 1508 è stato attribuito di recente ad Arcangelo di Andrea di Bartolo (1518). 184 Pastori Attilio, Gli Aquilini, Jesi 1898, pp. 36, 43-44. La chiesa è stata dichiarata parrocchia nel 1961 dal mons. Giovanni Battista Pardini vescovo di Jesi ed il territorio di sua giurisdizione ricavato da quello delle parrocchie di Monte Roberto, Pianello Vallesina e di S. Leonardo di Cupramontana, comunque già alla metà dell’Ottocento il card. Cosimo Corsi ne aveva ravvisato la necessità. 185 Urieli C., Archivio Diocesano – Visite Pastorali, cit., p. 348.
    Presso la chiesa fu costituita da don Vincenzo Ciarmatori, parroco di Monte Roberto, nella prima decade del Novecento una “Unione Agricola Cattolica”, formata dai tanti agricoltori della zona, che partecipò attivamente alle rivendicazioni e alle manifestazioni che i cattolici in quegli anni misero in atto in tutta la Vallesina. 185bis Urieli C., Cattolici a Jesi dal 1860 al 1930, Nicolini, Jesi 1976, pp. 306-331. Il recupero di tutti gli edifici adiacenti e annessi alla chiesa, quelli che sostanzialmente costituivano l’antico monastero successivamente adibito ad abitazioni coloniche, è stato realizzato tra il 1996 e il 2009.

  • 179 6.6B CHIESA DI S. BENEDETTO

    179 6.6B CHIESA DI S. BENEDETTO

    È in territorio di Castelbellino, ma è di tutta la comunità di Pianello Vallesina amministrativamente divisa tra Monte Roberto e Castelbellino.
    Fu inaugurata il 5 ottobre 1924, mentre la prima pietra era stata posta il 25 aprile 1921: il disegno ed il progetto si debbono all’architetto Alfonso Coppetti.
    Promotore della costruzione fu don Romeo Michelangeli (1885-1962) che su consiglio di don Cesare Annibaldi la volle dedicata a S. Benedetto, come omaggio al papa di allora Benedetto XV e ricordo dei monaci che civilizzarono l’intera vallata dell’Esino. Fu eretta a parrocchia il 1 novembre 1955. 186 Michelangeli don Romeo, Cenni storici sulla chiesa di S. Benedetto Abate in Pianello Vallesina, Roma 1956.
    Sostituiva la vecchia chiesa di S. Maria del Trivio, costruita attorno alla metà del Seicento, ubicata sull’attuale casa in piazza della Vittoria n. 1 e 2 e ricordata per la prima volta nella visita pastorale del 1673. 187 Urieli C., op. cit., p. 63. Ceccarelli R., L’antica chiesa della Madonna del Trivio, in Voce della Vallesina, n. 22/23 del 15 giugno 1986.
    Una chiesa sempre molto povera, senza alcun pregio artistico, con un quadro della “Madonna della Misericordia” cui venivano attribuiti nel 1726 molti miracoli
    (“miraculis clara”) attestati da altrettanti ex-voto. 188 Urieli C., op cit., p. 134. La tela, attribuita ad Antonino Sarti (1580-1647), è stata restaurata nel 2001 e, dalla sacrestia dove era collocata, è stata sistemata in chiesa il 5 maggio 2001. 188bis Ceccarelli R., Restaurata l’antica immagine della Madonna della Misericordia, in Voce della Vallesina, 4 giugno 2001.
    Una curiosità: la cappella realizzata nell’attuale chiesa di S. Benedetto negli anni Settanta da don Ermanno Pentericci e dedicata alla Madonna di Lourdes, fu preceduta da un’immagine della stessa Vergine di Lourdes posta nella vecchia chiesa nel 1898. 189 Urieli C., Archivio Diocesano – Visite Pastorali, ds., p. 299. .

  • 179 6.6C CHIESA DI S. SETTIMIO

    È ridotta ad una capanna, fu sospesa dall’ufficiatura liturgica dagli ultimi anni dell’Ottocento,190 Ivi, p. 300, visita pastorale del 15 maggio 1898. mentre apparteneva a Serafino Salvati; in precedenza faceva parte dei beni della sede vescovile di Jesi.
    La sua costruzione risale ai primi decenni dei Settecento, dedicata a S. Settimio primo vescovo di Jesi, proprio perché faceva parte della mensa vescovile, e fu contemporanea o di poco successiva alla costruzione dell’omonima piccola chiesa eretta nei pressi del fiume Esino (vicino all’attuale ponte S. Carlo, area dell’attuale chiesa di S. Antonio di Borgo Minonna), tra il 1719-1720, dove si ipotizza fosse avvenuto il martirio dello stesso S. Settimio.191 Annibaldi G., Monografia sul luogo preciso del martirio di S. Settimio, Jesi 1874, p. 74. Erroneamente e senza fondamento il Badiali (cfr. Badiali Ezio, Urbs Vetus Regia Aexium, Jesi 1958, pp. 21-32), confonde identificando le due piccole antiche chiese, lontane tra loro diversi km., andata distrutta la prima il 26 luglio 1779 (cfr. Annibaldi G, op. cit., p. 107), mentre quella, in territorio di Monte Roberto è ancora in piedi seppure ridotta a magazzino di casa colonica anch’essa ormai da anni disabitata.
    La chiesa fu visitata per la prima volta il 21 settembre 1726 dal vescovo di Jesi, aveva un altare con pittura su tavola raffigurante la Madonna, S. Settimio e
    Vincenzo.192 Urieli C., op. cit., p. 139.

  • 180 6.6D CHIESA DI S.ANTONIO DI PADOVA

    180 6.6D CHIESA DI S.ANTONIO DI PADOVA

    Risale alla metà dell’Ottocento, ed é stata sempre di proprietà della famiglia Tesei, ubicata nei pressi della loro villa. La ricordano le visite pastorali del 1859, 1875, 1898.193 Ivi, pp. 26, 285, 300.
    Rievoca l’antica chiesa di S. Antonio di Antignano che sorgeva nelle vicinanze, solo però nel nome e non nella persona, la prima era dedicata al santo abate
    considerato il fondatore dell’ascetismo eremitico (sec. III-IV), questa al celebre santo francescano (1195-1231).

  • 180 6.6E Chiesa di S. Pio V

    180 6.6E Chiesa di S. Pio V

    Viene ricordata nelle risposte ai questionari delle visite pastorali del 17 maggio 1869 e del 22 febbraio 1875 quale proprietà dei conti Scalamonti. Nella visita pastorale del 15 maggio 1898 viene detta dalla famiglia Honorati, di piccole dimensioni, ben fornita.194 Ivi, pp. 277, 285, 300.
    Con tutta probabilità inizialmente apparteneva alla famiglia Ghislieri proprietaria anche dei teriéni limitrofi e passati poi ad altri. S. Pio V (1504-1572), papa per soli sei anni, canonizzato il 22 maggio 1712, era un Ghislieri, lontano ascendente di un ramo famigliare della nobile casata jesina. Il 5 maggio, giorno della festa del santo, fino a qualche decennio fa, padroni e coloni erano soliti riunirsi accanto alla chiesa dove venivano fatte celebrare alcune messe e si procedeva poi alla benedizione dei campi. Nel 1866 è indicata come chiesa rurale S. Giovanni, proprietaria la famiglia Scalamonti.195 Ivi, pp. 272.

  • 181 6.6F CHIESA DI S. SERAFINO

    181 6.6F CHIESA DI S. SERAFINO

    Attigua a Villa Salvati, costruita dopo la villa stessa (la concessione dal vescovo fu ottenuta nel 1819), realizzata da Serafino Salvati (1755-1835) agli inizi dell’Ottocento.
    La dedicazione al santo cappuccino dallo stesso nome, Serafino da Monteprandone (1540-1604), intendeva ricordare appunto l’artefice primo della fortuna della famiglia Salvati ed un santo cui la famiglia era particolarmente devota e che ricordava la zona di provenienza (Rosara, nei pressi di Ascoli Piceno).
    Nella visita pastorale del 21 maggio 1866, viene indicata come chiesa dello Sposalizio della Vergine196 Ivi, pp. 252, 272. dalla pala dell’altare, copia dall’originale di Carlo Maratti (1625-1713), restaurata nel 2010.
    Nella chiesa nel 1835 fu sepolto, per volontà testamentaria, Serafino Salvati: il monumento funebre con effigie dei defunto e statua in marmo allegorica dell’architettura, è di Fedele Bianchini (1891-1867).

  • 181 6.7 IL CIMITERO

    181 6.7 IL CIMITERO

     La sepoltura dei defunti ed il loro ricordo, a motivo della fede nella vita dopo la morte e nella risurrezione, furono sempre tenuti dai cristiani in speciale: onore. Così dai primi tempi del cristianesimo dopo che nelle chiese ‘venivano inumati vescovi, sacerdoti ed anche laici di particolare virtù., invalse la consuetudine di’ seppellire indistintamente nel sottosuolo delle stesse chiese tutti i fedeli. 197 Decretum Gratiani, par. II, causa XIII, quaestio II, capitulum XVIII (ed. Romae, In aedibus  Populi  Romani 1582, coll. 1383-1384). L’usanza durò fino al Sette-Ottocento; e non soltanto il sottosuolo delle chiese ma anche le immediate loro vicinanze accoglievano le salme. A Monte Roberto nel Seicento si seppelliva nella chiesa parrocchiale di S. Silvestro e “sotto la muraglia della chiesa”, dove un’apertura permetteva di entrare in vani sotterranei e non era raro il caso che detta apertura rimanesse senza protezione e facilitasse l’entrata di animali di qualsiasi genere, compresi i maiali che giravano liberi per il paese. Nel 1681 si cerca di ovviare proteggendo l’apertura con paletti di legno 198 ASCMR, Consigli (1676-1698), c. 72r, 14 dicembre 1681.  che reggono ben poco se il vescovo mons. Alessandro Fedeli nel 1697 in visita pastorale trova il cimitero di nuovo aperto e senza riparo. 199 Urieli C., Archivio Diocesano – Visite Pastorali, ds., p. 77.  Il vescovo vista l’indecenza della situazione ordina di riparare il cimitero e di farlo dove ‘è tradizione che sempre sia stato. 200 ASCMR, Consigli (1698-1711), c. 27r, 8 agosto 1700.Il nuovo pievano don Pier Francesco Sebastianelli, titolare della parrocchia dal 1701, pur tra qualche difficoltà iniziale 201 Ivi, c. 65v, 20 luglio 1704, cimitero ancora da terminare. riesce a portare avanti il progetto e a completarlo con l’aiuto determinante del Comune, attorno al 1710. 202 Ivi, cc.114 e 115v e seguenti non numerate, 31 agosto 1710.  Nel 1744, al vescovo mons. Antonio Fonseca il cimitero appare “costruito con scrupolo e devozione” (“religiose constructum”). 203 Urieli C., op. cit., p. 206. Nella seconda metà del secolo severi provvedimenti legislativi cominciano a colpire questa consuetudine per gli ovvi motivi di ordine igienico: non poche sono le resistenze ed il tutto non si concretizza facilmente. La prima disposizione per costruire “cimiteri fuori dell’abitato” risale per le Marche e quindi per le nostre zone, al decreto del 1° marzo 1810 che recepiva il decreto reale del 5 settembre 1806 che a sua volta aveva esteso al Regno Cisalpino quanto Napoleone aveva deciso a Saint Cloud il 12 giugno 1804. Ancor prima del decreto del 1810, comunque, il Consiglio Comunale aveva previsto la spesa relativa per un progetto di un nuovo cimitero. 204 ASCMR, Consigli (1809-1827), p. 2, 8 novembre 1809.  L’ordine del Prefetto qualche tempo dopo, in merito al cimitero, diventa tassativo e, secondo, le disposizioni superiori, si progetta un cimitero comune per Monte Roberto e Castelbellino in una zona equidistante tra i due paesi, in contrada Villa, ma il Consiglio Comunale nella seduta del 18 novembre 1811 la respingeva, sette voti contrari e cinque favorevoli, senza proporre un luogo alternativo 205 Ivi, p. 26. Norme alternative severe vengono emanate al ritorno del governo pontificio 206 cfr. circolare n. 9809 del 7 giugno 1817 della Delegazione di Ancona in ASCC, Editti Bandi Avvisi Circolari (1814-1817).  ma al di là di progetti 207 ASCMR, Consigli (1809-1827), p. 105, 29 maggio 1817. e di lavori appena iniziati 208 ASCMR,  Sindacati (1790-1817), c. 131v.  o di luoghi trovati inidonei, 209 ASCMR, Consigli (1809-1827), pp. 121-122, 8 settembre 1817. si continua a tumulare nella chiesa parrocchiale, dove si sono ripulite le fosse per il gran fetore; si tumula nella Chiesa Nuova fuori paese 210 Ivi, pp. 92-94, 8 marzo 1817.  e in un piccolo “cimitero” di proprietà comunale ubicato nel “borgo” di fronte all’imbocco dell’attuale via XXIV Maggio. Respinto il progetto per ben due volte, 1’11 giugno e il 13 agosto 1820, di fare il cimitero in contrada Olivella, non lontano dalla Fonte del Crocifisso e dell’omonima edicola 211 Ivi, p. 177., si ripiega su un luogo più in alto lungo la strada che conduce a Maiolati; la nuova ubicazione ha l’approvazione il 19 settembre: il cimitero sarà finanziato con il denaro che lo Stato deve restituire al comune per le somministrazioni date agli Austriaci durante il blocco di Ancona nel 1815. 212 Ivi  p. 189. Per vedere realizzato comunque il cimitero in questo luogo bisogna attendere però quasi cinquant’anni, i soldi promessi infatti non dovrebbero essere arrivati ed il cimitero non venne fatto, anzi nel 1838 si approva il progetto di un cimitero nei pressi della Chiesa Nuova o di S. Maria della Pietà 213 ASCMR,  Consigli (1829-1839), 29 luglio 1838.  dove effettivamente già si tumula e più si tumulerà nel 1855, quale cimitero provvisorio, in occasione dell’epidemia di colera. L’attuale cimitero quello definitivo dopo decenni di discussioni e progetti, fu deliberato il 27 giugno 1865 e la progettazione affidata all’architetto jesino Ciriaco Santini che la presentò nel novembre dell’anno dopo. Il luogo previsto era quello individuato nel 1820; la spesa prevista dal Santini ammontava a 9.684,02 impossibile però da sostenersi da parte del Comune che la volle ridotta a £. 5.000 circa, “compresa l’occupazione del suolo e compreso il materiale disponibile dal vecchio cimitero” 214 ASCMR, Deliberazioni Consigliari (1866-1876), pp. 25-26, 7 novembre 1866. L’architetto Santini ridusse il progetto e necessariamente la spesa e subito iniziarono i lavori di costruzione; nel maggio del 1867 erano già completate le mura di cinta, mancavano solo alcune rifiniture e la piccola chiesa che si vuole però costruita sul primitivo di disegno del Santini ritenuto “più decoroso”, la cappella fu comunque completata nel 1868. 215 Ivi,pp.80-82, 28 maggio 1867. Il nuovo cimitero pubblico viene visitato dal vescovo di Jesi card. Carlo Morichini il 17 maggio 1869 che impartisce “le solite disposizioni di sparare le sepolture degli uomini dalle donne e dai bambini”. 216 Urieli C., op. cit., p. 277.  Se nel 1871 furono esumate le salme dal cimitero provvisorio accanto la Chiesa Nuova e nella chiesa stessa ormai in rovina, 217 ASCMR, Deliberazioni Consigliari (1866-1876), p. 495, 25 maggio 1871.  le salme sotto il pavimento della chiesa di S. Silvestro furono tolte agli inizi degli anni Cinquanta del Novecento rifacendo poi il pavimento stesso. Una curiosità: ai lati della porta d’ingresso del cimitero e ai lati della porta della chiesa vi sono in rilievo (in ferro sull’ingresso e in cemento sulla chiesa) piccoli obelischi che rassomigliano all’obelisco (“gugliola” come la chiamano) in mattoni, ora accanto al cimitero di Pianello Vallesina, che concludeva un tempo il viale alberato che diramava dal lato sinistro di Villa Salvati. Sono con tutta probabilità i “segni” del sindaco Agabito Salvati, e della sua famiglia, sotto il cui mandato fu realizzato il cimitero. Lesionato dal terremoto del 1997, i lavori di consolidamento sismico e di ampliamento furono portati a termine nei primi mesi del 2004.

  • 183 6.8 LE EDICOLE

    183 6.8 LE EDICOLE

    La pietà popolare e la devozione della gente si sono espresse lungo i secoli anche nella costruzione di edicole religiose o “figurette”. Un fenomeno diffuso derivato dal paganesimo, un patrimonio della cultura e della tradizione popolare spesso trascurato, certamente da non perdere.218Ceccarelli R., Le figurette della pietà popolare, in il Massaccio n. 5, dicembre 1990, p. 15. Sorgono ai lati delle strade, in luoghi che dovevano ricordare devozioni, episodi o fatti “miracolosi” o circostanze particolari, oppure come piccole nicchie con relative immagini erano sulle pareti delle case.
    Monte Roberto e il suo territorio non hanno fatto eccezione nel contesto di una situazione singolarmente ricca della intera Vallesina, ora non sono molte le edicole che rimangono in piedi, di altre invece ci rimane il ricordo in toponirni ancora in uso.
    Contrada la Figura ricorda una edicola dedicata a S. Giuseppe nella seconda metà del Seicento;219ASCMR, Consigli (1676-1698), c. 49r. l’attuale via S. Maria, le antiche denominazioni S. Anna o Lenze, Pian S. Luca (vicino all’attuale via S. Pietro), S. Brigida (via Sabbioni) sono l’indizio o la prova di edicole dedicate ai rispettivi santi per speciale devozione e andate definitivamente perdute. Si trattava infatti di piccole costruzioni, non molto robuste che, se non curate nella manutenzione statica e abbandonate, dopo pochi anni potevano facilmente crollare.
    Altre, e di dimensioni discrete si possono ancora ammirare.

    EDICOLA DEL SS. CROCIFISSO

    Sorge all’angolo tra via Fonte del Crocifisso e via Pace. Risale alla metà del Settecento quando viene ricordata per la prima volta;220ASCMR, Consigli (1756-1766), c. 27r. nel 1781 fu rifatta dalle fondamenta dall’erede di don Taddeo Guglielmi che ce ne ha lasciato memoria in una piccola iscrizione non più grande di un mattone.221Questa l’iscrizione: 1781 R.[everendi] D.[omini] THAD.[dei] GUGLIELMI HAERES A FU.[ndame] NTIS RESTIT [uit] EX DE,VOTIONE.

    Edicola del SS.Crocefisso

    Un sostanziale intervento restaurativo fu portato a termine nel 1932, l’ultimo fu eseguito nel 1983 con la risistemazione muraria, in quell’occasione furono fatte feste solenni e venne anche restaurato il Crocifisso ligneo dell’edicola ad opera di Danilo Del Priori di Maiolati, lo stesso Crocifisso fu rubato poi nella notte tra il 13 e i114 novembre 1988.222cfr. Voce della Vallesina n. 44-45 dell’Il dicembre 1988.

    EDICOLA DELLA MADONNA DI LOURDES (IN VIALE MATTEOTTI)

    Edicola della Madonna di Lourdes

    Ubicata in viale Matteotti; è stata restaurata a cura del Dott. Pietro Mancini nell’aprile del 1966. È un tempietto dedicato alla Madonna di Lourdes; agli inizi del secolo l’edicola era stata fatta erigere da Anna Radini moglie di Francesco Amatori e parente di mons. Giacomo Maria Radini Tedeschi vescovo di Bergamo, il cui segretario don Angelo Giuseppe Roncalli, futuro papa Giovanni XXIII, soggiornò a Monte Roberto nel 1906. In quell’occasione don Angelo G Roncalli benedisse l’edicola; la circostanza fu ricordata il 6 aprile 1966 con una lapide, un medaglione in bronzo con l’immagine di Giovanni XXIII ed una preghiera incisa sul marmo e dettata nella benedizione del 1906.223cfr. Soggiornò a Monte Roberto Don Angelo Roncalli, futuro Papa Giovanni, in Voce della Vallesina, n. 30 del 24 luglio 1966, P. 4.
    Sul retro vi è un dipinto su muro, “Cristo crocifisso con santi, Antonio da Padova e Caterina da Siena”, di Oscar Di Prata (1910-2006) realizzato nella seconda metà degli anni Sessanta.

    EDICOLA DELLA MADONNA DI LOURDES
    Sorge all’angolo tra via Villa e la strada provinciale dei Castelli.

    EDICOLA DELLA MADONNA DI LOURDES

    Anch’essa a forma di piccolo tempio; fu fatta erigere dai coniugi Pietro e Silvia Tesei nel 1908; piccola statua in gesso.
    Altre sono di dimensioni più ridotte: Edicola della Madonna delle Grazie, all’angolo tra l’inizio di via Leopardi e la strada provinciale dei Castelli; costruita agli inizi del secolo è stata sempre in legno con l’immagine della Madonna delle Grazie di Jesi, ricostruita con disegno diverso e in muratura, con l’immagine in ceramica, fu inaugurata il 31 maggio 1992;224cfr. La Gazzetta di Ancona, 28 maggio 1992. la sua origine fu probabilmente un ex-voto per grazia ricevuta.

    EDICOLA DEL CROCIFISSO

    EDICOLA DEL CROCIFISSO

    All’angolo tra via Garibaldi e via Cavour a Pianello.Fu costruita dalle famiglie Barocci Sisto e Santoni Enrico ed inaugurata il 2 settembre 1958 in ricordo della missione catechistica tenuta da missionari francescani; immagine del Crocifisso in bronzo.


    EDICOLA DELLA MADONNA IMMACOLATA

    Ai lati della strada provinciale dei Castelli, di fronte all’imbocco di via S. Apollinare;

    EDICOLA DELLA MADONNA IMMACOLATA

    fu costruita nel 1951 in ricordo delle missioni tenute dai padri minori francescani dall’8 al 18 novembre 1951; quadro con l’immagine della Madonna Addolorata. Molte le piccole nicchie in case di campagna, alcune sono vuote, le statue o leimmagini sono state trafugate o scomparse dopo che non pochi hanno lasciato la campagna, altre volte invece per la poca sensibilità delle generazioni succedutesi a quante le vollero. Altre nicchie pur avendo le statue denotano uno stato di abbandono e di degrado: in via S. Giorgio e in via Calapina (due nicchie uguali e vicine in un unica parete di pietra, una vuota e l’altra con la Madonna Immacolata.
    In via Figura in due case restaurate, nicchie con piccole statue di S. Antonio di Padova e della Madonna di Lourdes.
    A Pianello, angolo tra via Fratelli Cervi e via Don Minzoni, nuova recente nicchia con S. Cuore di Gesù su recinzione in muratura.
    Non mancano esempi di piccole edicole votive in legno issate sugli alberi, come quella, scomparsa da anni, con la statua della Madonna di Loreto su una quercia ai lati di via Calapina o l’altra su un ulivo di fronte all’imbocco di via Mattonato dalla strada provinciale dei Castelli in territorio di Castelbellino, su supporto autonomo e in ferro dal maggio 1992.
    A Monte Roberto nel 2000 in via XXIV Maggio fu costruita da Antonio David un’edicola dedicata alla Madonna ed inaugurata il 6 settembre 2001.

  • 189 7.1 PROPRIETA’ E POVERTA’

    189 7.1 PROPRIETA’ E POVERTA’

    1. PROPRIETÀ E  POVERTÀ

    L’unico reddito per la quasi totalità delle famiglie è stato, da sempre, la coltivazione dei campi. L’economia, spesso di sola sopravvivenza, era legata esclusivamente all’agricoltura e ai proprietari terrieri alle cui dipendenze si muovevano    coloni e braccianti agricoli. Come   già abbiamo    accennato, alla metà del   Seicento, l’86,3% di tutta la proprietà privata del territorio di Monte Roberto   era nelle mani di solo venti famiglie sia locali che forestiere. Alla fine del Settecento la proprietà privata forestiera incide per 1’84,95% sull’intera proprietà privata totale, il resto 15% circa è goduta da 42 proprietari locali di cui solo 20 però ne avevano l’88,6%, da aggiungere poi le proprietà del Capitolo della Cattedrale di Jesi e degli ordini religiosi. Monopolizzavano gran parte della proprietà alcune famiglie nobili di Jesi, i Ghislieri, gli Honorati, i Guglielmi;   proprietari locali erano gli Amatori, i Capitelli, i Paziani, i Chiatti, gli Antonelli, i Tesei, i Salvati, dei quali, quest’ultimi, Tesei e Salvati, accrebbero nel corso dell’Ottocento    notevolmente il loro patrimonio fondiario. Concentrazione   delle proprietà   e conseguente subordinazione      economica della   popolazione nella sua quasi   interezza: popolazione la cui   sussistenza dipendeva    dall’andamento dei raccolti agricoli. Anni di grande carestia furono ad esempio il 1643, il 1644, il 1648, il 1649, il 1677. Veramente    “penurioso” il 1643: “il popolo patisce di vitto”, si prelevano dalle due alle quattro coppe di grano dall’Abbondanza    e si danno alle famiglie più povere a giudizio degli Abbondanzieri; [1] ASCMR, Consigli (1639-1651), c. 53r, 15 marzo 1643.   l’anno dopo si danno quattro   coppe di grano per famiglia. [2] Ivi, c. 78r, 23 marzo 1644. Rubbio = 280,64 litri. Il rubbio si divideva in 8 coppe e una coppa in 4 provende, la provenda in 8 scodelle   Altrettanto “penurioso” il 1648: il Comune fa un mutuo di 550 scudi e insieme ai 60 avanzati dal bilancio del 1647 compra il grano a minor prezzo possibile per “assicurare vitto a questo popolo”; [3] Ivi, cc. 152v, 153r, 16 luglio 1648. per la semina viene dato il grano dai Magazzini dell’Abbondanza ai coloni, ma   solo a quelli che abitano nel territorio di Monte Roberto, questi poi lo   dovevano restituire l’anno dopo. [4] Ivi, c. 160r, 18 ottobre 1648; c. 164r, 8 novembre 1648.   Il mutuo acceso   dal Comune   tuttavia non fu sufficiente per acquistare il grano necessario, si dovette così vendere legname   della Selva della Comunità   per   acquistare altro grano. [5] Ivi, c. 161,28 ottobre 1648 Non fu facile arrivare al raccolto del 1649 la “necessità di vitto del popolo” continuava e per le feste di Pasqua si impiegano altri 100 scudi per provvederlo ai più poveri, la situazione era drammatica, il popolo si ritrovava “in grandissima calamità e miseria di vitto”. [6] lvi, c.168r, 6 febbraio 1649; cc.170v, 171r, 21 marzo 1649; c.173r, 8 aprile 1649.   Nuovo cattivo raccolto di grano nel 1677: molti contadini non hanno di che seminare, interviene la riserva dell’Abbondanza, si vende come già fatto quasi trent’anni prima, la legna della Selva della comunità   per comprare grano per il fornaio. [7] ASCMR, Consigli (1676-1698), cc.12v,13r, 17 ottobre 1677.   Il grano costituiva la maggiore risorsa quando ce n’era a sufficienza per le necessità della comunità e, se avanzava, si   vendeva sia a Jesi (in gran parte) che a Fabriano. Su di esso si basava esclusivamente l’economia, una cattiva stagione o il flagello della grandine creava situazioni di disperazione per la gente della campagna.

    La tempesta di grandine verificatasi il 5 giugno 1733 nelle pertinenze di Monte   Roberto e dei paesi vicini distrusse il raccolto del grano, le viti e altre colture: “li poveri contadini quasi ridotti alla disperazione per l’accidente occorso [della grandine] come per le cattive raccolte avute negli anni scorsi vogliono lasciare incolte le nostre terre”. Il Comune non ha alcuna possibilità di fornire sementi e rivolge   una supplica al Papa per aver qualche sussidio. [8] ASCMR.  Consigli (1711-1735), cc. 261r, 262r, 11 giugno 1733.   Quando invece i raccolti erano buoni come ad es. nel 1783 e nel 1784, [9] ASCMR, Consigli (1780-1793), cc.43v, 55v.   se ne avvantaggiavano   proprietari e commercianti favorendo una intensa circolazione monetaria ed anche i contadini traevano un po’ di respiro, la loro condizione però era sempre precaria legata com’era agli eventi metereologici e al duro lavoro della terra che avevano in conduzione. Il padrone era una figura “assoluta” gli si dovevano oltre la metà del grano e dell’uva, due terzi dell’olio, inoltre gli erano dovute le periodiche regalie di capponi, uova, verdure, prestazioni domiciliari ecc.; le sementi erano totalmente a carico del contadino: spesso, per non dire sempre, nei confronti del padrone il contadino era indebitato. Quando    fu introdotta la coltivazione del mais   o granoturco, questo mescolato con ghiande e veccia, sarà il cibo base dei contadini poveri: “mangiano, quella povera gente, pane di   ghiande seccato al forno […] in altri paesi mangiano assai migliore li cani da caccia”, scriveva un osservatore apostolico nel settecento. [10] Anselmi Sergio, Appunti per sulla storia della mezzadria, in li patto arcaico, a cura di Walter Montanari, Ancona 1977, pagine non numerate. Urieli   Jesi e il suo Contado, vol. IV, pp. 266-272. Nonostante tutto però avere un po’ di terra da coltivare, magari a mezzadria nelle generali condizioni di povertà, era una certezza; più nera e   drammatica era invece la situazione di chi veniva licenziato da un terreno e non   sapeva dove andare; in uno stato già miserevole la prospettiva per tutta la famiglia era quella di una miseria ancor più triste e di autentica disperazione, come quella di Andrea   Lucarini che   licenziato nell’estate 1809    dal terreno in contrada Rovigliano, “vive, scrive il sindaco Salvati al suo   padrone, in uno stato compassionevole   con la famiglia”. [11] ASCMR, Registro delle lettere (1808-1809), p. 231, n. 259, 17 agosto 1809. Più drammatica ancora era la condizione dei “casanolanti”, di coloro cioè che avevano casa in affitto e lavoravano in campagna a giornata, evidentemente un cattivo raccolto o una stagione poco propizia    rendeva la loro situazione al limite della sopravvivenza: i bisogni del mangiare e del riscaldamento in inverno non potevano essere risolti, a questi poveri il Comune   per le feste di Natale distribuiva il consueto sussidio in grano [12] Cfr. ad es. ASCMR, Consigli (1780-1793), c. lv, 17 dicembre 1780.   ed anche in fascine. Al lavoro occasionale o stagionale nei campi, si aggiungeva o si alternava la manovalanza nei lavori per le strade o nell’edilizia: raccogliere e trasportare le pietre dal fiume per selciare le strade e per le costruzioni, trasportare acqua per i cantieri, aiutare i muratori ecc., erano lavori per uomini e per donne, si preferivano però le donne perché venivano pagate di meno, specie in certe stagioni. Nel 1757 la paga per raccogliere ghiaia e pietre dal fiume per accomodare le strade era di 5 baiocchi al giorno per gli uomini e di 4 baiocchi per le donne e questo dal mese di ottobre a marzo   compreso, [13] ASCMR, Consigli (1756-1766), c. 45v, 22 maggio 1757.   d’estate poi anche le donne ricevettero 5 baiocchi al giorno, elevata dal Consiglio della Comunità “considerandosi che con tale mercede [4 balocchi] non possono viverci nei tempi di estate specialmente [14] Ivi, cc. 47v e 49r, 10 luglio 1757.   Non era facile così affrontare le necessità della quotidiana alimentazione, a soffrirne di più erano i bambini la cui mortalità era molto elevata anche per la scarsità di cibo, oltre che per le malattie che non potevano essere superate talvolta proprio per   mancanza di adeguato sostentamento. Il sale ad esempio, necessario per un sano ed equilibrato sviluppo non sempre si poteva acquistare, i più indigenti allora mancando di denaro usufruivano come altri di Massaccio, Staffolo, Maiolati e S. Paolo, delle “acque salse” di una sorgente lungo il torrente Cesoia tra San Paolo e Massaccio, in contrada Acqua Salata o Follonica; si faceva bollire l’acqua della sorgente particolarmente ricca di sali minerali ricavandone direttamente il sale, una consuetudine questa secolare per le stesse popolazioni ripresa   anche durante le difficoltà dell’ultimo conflitto mondiale. [15] Ceccarelli R., Le strade raccontano, cit., pp. 203-204 Alla    sorgente, è scritto in   rapporto del secondo decennio dell’Ottocento, si recava “la classe più indigente di questa Popolazione, la quale cerca a stento la sua sussistenza, e la salute de’ Bestiami, pecorini e porcini, che per mezzo di queste acque restano preservati da varie loro malattie”. [16] ASCC, Atti 1818, tit. I, lettera del vice-gonfaloniere di San Paolo, Luigi Dominici, del 18 maggio 1818. Un uso alimentare terapeutico per uomini e animali, come ricorda anche una dotta dissertazione sull’argomento del sec. XVIII. [17] Casagrande Giuseppe, Della nuova scoperta e dell’esame dell’acqua subtermale che scaturisce nelle falde del colle di Follonica del contado difesi… Dell’analisi e dell’uso delle medesime      in molte gravissime malattie croniche, ragguaglio…, Jesi, Stamp. Bonelli 1785, pp. 112. Dopo il “secolo dei Lumi”, da noi le condizioni di povertà non cambiano; le nuove imposizioni, trascorsa la prima burrasca giacobina, pesano   gravemente sulla classe più povera: osserva il Consiglio Comunale nella seduta del 2 gennaio 1803: “[…] siamo sempre più gravati [dalle nuove imposizioni] non tanto i possidenti quanto la   povera gente, la quale a stento conduce la sua vita quotidiana. La fame estrema, i generi a sommo   prezzo, scarso il denaro, il cui acquisto in alcune famiglie si rende impossibile, non che difficile. […] Non v’è dubbio che le collette presenti gravano soprattutto la gente “miserabile” [18] ASCMR, Consigli (1794-1808), cc. 127-129 Da   sempre coloro che hanno più pagato sono i più poveri, i meno abbienti.

    2. COLTIVAZIONI AGRICOLE

    La coltivazione del grano, come   abbiamo visto, era la più estesa e la più redditizia, specie in pianura, non mancavano però orzo, fave e legumi ecc., dal Settecento poi si cominciò a coltivare il granoturco. Ampie erano allora ancora le zone boscose, come la Selva della Comunità in contrada Rovegliano-Catalano, tradizionale riserva di legname per le necessità economiche dell’intera comunità.    Sulle pendici collinari si coltivavano in maniera più intensiva viti e olivi. La produzione di vino e di olio, come quella del grano, non era sempre omogenea, le condizioni del tempo giocavano un ruolo determinante, nelle buone stagioni ce n’era comunque per vendere.

    A – VITIVINICOLTURA

    Il vino dei castelli, Massaccio, Monte Roberto, Maiolati, Castelbellino, era conosciuto non solo a Jesi perché non pochi proprietari dei terreni erano nobili jesini, ma anche in Ancona dove il vino veniva   commercializzato in tempo di pace e richiesto dalle truppe militari quando esse con una certa frequenza sostavano in porto o in città. Ai francesi che avevano scorrazzato per la Vallesina, specie da Monte Roberto a   Massaccio nei primi mesi del 1798, il vino che si produceva   su queste colline dovette essere stato particolarmente gradito, se, durante la loro permanenza in città, la Municipalità di Jesi, da loro sollecitala o per far loro una gradita “sorpresa”, richiese alle rispettive Municipalità di Monte Roberto, Maiolati   o Massaccio l’apertura di una cantina in Jesi. [19] ASCC, Repubblica Romana: lettere diverse, anno (1798-1799).   il governo pontificio aveva garantito il libero commercio   dei vini “tanto dentro   quanto fuori dello stato “Ecclesiastico”, perseguendo    coloro che esigevano “tangenti” (l’uso non è poi tanto nuovo!) nella concessione dei relativi permessi. [20] Cfr. Editto del Card. Azzolino del I settembre 1667 in ASCC, Editti e Bandi sec. XVII, riprodotto anastaticamente in appendice al volume II Verdicchio dei Castelli di Jesi, a cura di R. Ceccarelli, A. Nocchi, E. Stolfi, Città. di Castello 1991. Da una mentalità protezionistica del   Cinquecento, si pensava infatti che si dovesse   ostacolare l’esportazione dei generi di prima necessità, si passò nel Seicento ad una mentalità più pragmatica: di volta in volta il commercio veniva incentivato o sospeso a seconda sia della scarsità dei prodotti sia della necessità del denaro circolante. Editti in tal senso erano emanati dall’autorità centrale e dai governatori locali; si andava da una specie di liberismo assoluto a norme altrettanto restrittive in tempo di carestia fino ai divieti totali di esportazione emanati sotto Urbano VIII. [21] Cfr. Editto del Governatore Mons. Francesco Boncompagni del 7 gennaio 1676 in Ibidem. A. Nocchi, R. Ceccarelli, Editti e Bandi del sec. XVII, Cupra Montana 1986, p. 30. Caravale M., Caracciolo A., Lo stato Pontificio da Martino Va Pio IX, Utet, Torino 1978, pp. 427-428. 

    B – OLIVICOLTURA

    La produzione dell’olivo doveva essere sufficiente più per i padroni che per i contadini: ricordiamo che ai padroni ne andavano due terzi, tanto che   quando mancava, non solo per i poveri ma forse anche   per i piccoli proprietari, si comprava altrove, come   nel novembre   del 1800 quando fu acquistato a Cingoli al prezzo di 97 baiocchi e mezzo per ogni boccale. [22] ASCMR, Consigli (1794-1808) cc. 71-72, 23 novembre 1800. Ceccarelli Riccardo, Olivicoltura e frantoi nella Marca di Ancona, Provincia di Ancona, Ancona   2009. 4a edizione.   Per l’olio   accadeva spesso che, rivedendosi i prezzi   ogni due mesi, commercianti senza scrupoli ne facessero incetta per poi, accresciuto il prezzo, rimetterlo in vendita alla nuova data ed evidentemente al nuovo prezzo incorrendo nelle ire del Governatore che tuttavia non sembravano incutere molto timore se la stessa disposizione veniva riproposta annualmente   in ogni castello del contado. [23] A. Nocchi, R. Ceccarelli, op. cit., pp. 13-14.  

    C – IL GRANO E “L’ABBONDANZA”

    La normativa per il grano era più capillare, il relativo bando era ripubblicato anch’esso   ogni   anno con pochissime    varianti. Essa    prevedeva la precisa conoscenza delle persone da sfamare in ogni comunità (entro “li 8 agosto haver data giusta assegna di tutte le bocche effettive, che mangino quotidianamente   il pane ancorché    non avesse raccolto   grano”), disposizioni sulla battitura, la raccolta, la   conservazione, il   commercio e l’esportazione del grano   e la proibizione di farne incetta, seguivano    norme per i fornai, l’Abbondanza   ed i loro responsabili gli “abbondanzieri”. [24] Ivi, Editto del Governatore Jacopo Angeli del 15 luglio 1651.  Ceccarelli Riccardo, Grano, pane e riso nella Marca di Ancona, Provincia di Ancona, Ancona 2009. 4′ edizione.  ” L’Abbondanza”, Magazzini dell’Abbondanza    o   Monte Frumentario, era il luogo dove veniva raccolto e conservato il grano per sopperire alla sua eventuale mancanza durante l’anno, per distribuirlo alle famiglie più povere in tempo   di Natale e fornirlo a chi ne avesse bisogno al momento della semina, con l’obbligo di restituirlo dopo il raccolto dell’anno successivo.   Il patrimonio dell’Abbondanza, tra entrate e uscite, doveva rimanere integro, severi controlli venivano fatti in questo senso agli “abbondanzieri”, a   coloro cioè che eletti ogni anno dal Consiglio della Comunità gestivano l’Abbondanza o il Monte   Frumentario. Il Monte Frumentario, l’Abbondanza, detto anche    Monte di Pietà, a Monte Roberto era stato eretto prima del 1537; [25] Zenobi C., L’episcopato jesino di Mons. Gabriele del Monte, p. 138 era ubicato nei pressi del   vecchio palazzo comunale, si  aggiungeva il magazzino     dell’Abbondanza con la scala posta davanti al palazzo stesso. [26] ASCMR, Consigli (1608-1616), c. 140r, 28 dicembre 1614. Nonostante che gli Abbondanzieri avessero il dovere di conservare il grano e di distribuirlo secondo le decisioni del Consiglio della Comunità, [27] Ivi, c. 44r., 19 luglio 1609.   non era raro il caso di una certa amministrazione “allegra”: gli stessi Abbondanzieri   prendevano il grano senza restituirlo a tempo debito [28] ASCMR, Abbondanzieri (1621-1810), c. 90r.v e seppure il patrimonio dell’Abbondanza veniva ogni anno reintegrato con la restituzione ma anche con la contribuzione di “una prevenda e mezza per soma” [29] ASCMR, Consigli (1608-116), c. 44r, 19 luglio 1069.   con un “rubio e   mezzo per dicina di tutto il grano che haverà raccolto da pagarsi a giusto prezzo”, [30] Editto del 15 luglio 1651 del Governatore Jacopo Angeli, in A. Nocchi, R. Ceccarelli, op. cit., pp. 22. rimaneva il grave illecito. Il Governatori o i loro rappresentanti eseguivano controlli periodici e dettavano prescrizioni rigorose: “in avvenire   non     debbono esercitare la carica di Abbondanziere quelli che saranno debitori di essa Abbondanza come comanda la Bolla del Buon Governo e gli Abbondanzieri eletti e approvati dal Consiglio con le idonee sicurtà debbono render conto ogni   anno”. [31] ASMR, Abbondanzieri (1621-1810), c. 59r, 26 luglio 1699 Al termine di ogni anno infatti, scadendo l’incarico, due deputati eletti dal Consiglio dovevano rivedere i conti e se c’era qualche debito o qualche   ammanco gli Abbondanzieri    “siano subito astretti all’intera soddisfatione”; mancando questa verifica “I Quattro” e il Cancelliere, cioè il Segretario, ne dovevano rispondere “del proprio”. [32] Ivi, c. 77v, 8 agosto 1681 La ragione di tanto controllo si fondava sul fatto che l’Abbondanza    era “patrimonio    de Poveri e bisognosi che dovevano   essere sollevati nelle loro necessità con l’imprestanza delli Capitali di detta    Abbondanza”. [33] Ivi, c. 91r, 9 ottobre 1698.   La distribuzione del grano doveva   essere fatta esclusivamente ai poveri di Monte Roberto e non ai forestieri, altrimenti gli stessi Abbondanzieri erano obbligati a loro spese a ritrovare la stessa quantità di grano illecitamente distribuita, i prestiti di grano dovevano essere restituiti entro i mesi di luglio e agosto. [34] ASCMR, Abbondanzieri (1675-1771), c. 194v, 21 dicembre 1765; c. 202r, 6 gennaio 1768; c. 207r, 4 febbraio 1770. L’Abbondanza, o meglio, il Monte Frumentario    come    cominciò ad essere chiamato dall’Ottocento in poi, fu presente operando   attivamente durante il napoleonico    Regno d’Italia (1808-1815) e poi di nuovo con lo Stato Pontificio fino al 1859; [35] Urieli C., Archivio Diocesano – Visite pastorali, p. 267.   con lo stesso nome, cui si aggiunse quello di Cassa di Prestanze Agrarie, come   in altri paesi della Vallesina, ad esempio Rosora e Castelbellino, arrivò fino alle soglie del Novecento. Il   Monte Frumentario   della Comunità    non fu l’unico ad operare a   Monte Roberto: lo ebbero la Confraternita del Sacramento   e Rosario, la Confraternita Pietà o della Morte e la Confraternita del Crocifisso, il più longevo fu quello della Confraternita del    Sacramento e del Rosario, [36] Ivi, pp. 65, 77,97, 104, 131, 252, 267.   erano per lo più a servizio degli iscritti alle confraternite stesse.

    D – RACCOGLITORI DI SPIGHE

    Dopo la mietitura del grano, era “uso antico della Città e del contado” che i poveri e i nullatenenti raccogliessero le spighe rimaste nei campi. Per quanto la consuetudine   fosse antica, essa trovava una continua   opposizione da parte dei padroni   dei campi e di quanti li avevano in affitto. I Governatori allora per garantire   questa misera possibilità ai più poveri, ogni anno    ritornavano sull’argomento   ordinando “tanto alli padroni delli campi, quanto alli cottomatarij de grani in tutta questa nostra giurisditione non ardischino   in modo   alcuno impedire alli Poveri il raccogliere le spiche de grani, nelli campi, purché non faccino danno alli Padroni de grani”. [37] Cfr. Editto del Governatore Mons. Francesco Boncompagni del 16 giugno 1684, in A. Nocchi, R. Ceccarelli, op. cit., p. 26 In un bando   del Governatore mons.   Giacomo   Fantucci del 18 giugno 1672, si garantiva la accolta delle spighe ai poveri “purché raccoglino dietro le loro opere [braccianti assoldati giorno per giorno dai loro padroni] e famiglie”. Non avranno   raccolto molto, comunque    l’autorità assicurava quel poco, almeno   a parole e anche per iscritto, forse senza tanta convinzione considerata la scarsa entità delle pene per quanti avessero   impedito questa raccolta, “scudi 1 per ciascheduno” e le   generiche “altre pene a nostro arbitrio”. [38] Ivi, p. 27.  

    E – COLTIVAZIONE DEI GELSI E BACHICOLTURA

    La   coltivazione dei gelsi e la relativa bachicoltura risalgono per tutto il contado   al Seicento. [39] Urieli C., Jesi e il suo Contado, vol. IV, pp. 256-257 Seguendo l’esempio di Jesi che nel 1673 aveva proceduto ad una   intensa piantagione di   mori-gelsi, anche Monte Roberto    delibera un’analoga    piantagione nel 1679, provvedendo    in pari tempo a proteggere le piccole piante minacciate da pecore e maiali. [40] ASCMR, Consigli (1676-1698), c. 49v, 10 dicembre 1679.   Queste piante, per più ai lati delle strade erano di proprietà comunale; con la vendita delle foglie (“Trasatto delle foglie de’ mori-gelsi”) che si faceva ogni anno in aprile a chi allevava bachi da seta, si cercava di racimolare   qualche entrata nelle sempre esauste casse comunali. [41] Ivi, c. 110v, 8 aprile 1685.   La bachicoltura si sviluppò così progressivamente   in tutti i paesi della valle, i bozzoli erano inviati sulla Piazza di Jesi”, una filanda per la loro lavorazione la troveremo a Monte   Roberto nei primi   decenni dell’Ottocento.

    F – TABACCO

    Un’altra ‘coltivazione che tra la fine del Settecento e gli inizi dell’Ottocento ebbe una certa fortuna in territorio di Monte Roberto, fu quello del tabacco. Nello Stato Pontificio era stato introdotto a metà del Settecento; a Chiaravalle un primo laboratorio per la lavorazione delle foglie era stato realizzato nel 1759. La coltura si estese ben presto a tutta la media e bassa valle dell’Esino favorita dalla particolare conformazione dei terreni e dall’aumento del reddito agricolo che essa garantiva. [42] Pedrocco Giorgio, Coltivazione e manifattura del tabacco a Chiaravalle, in Nelle Marche Centrali, op. cit., vol. I, pp. 1395-1426. Cappelletti Sandra, Dalla Abbazia alla Manifattura – Le origini di Chiaravalle, Chiaravalle   1978, p, 90. A Monte Roberto se ne coltivava nella zona di Pianello, a valle di Rovegliano e nell’area di S. Apollinare. Le foglie di tabacco si potevano consegnare   nei magazzini   della Fabbrica di Chiaravalle due volte all’anno, in primavera e in autunno: nel 1817, dal 4 febbraio   al 15 marzo e dal 26 settembre in poi, [43] Cfr. Notificazione della Delegazione Apostolica di Ancona del 3 febbraio e 14 novembre   1817, in ASCC, Editti Bandi Notifiche Avvisi Circolari (1814-1817). con una precisa ripartizione dei giorni per i coltivatori di ogni singolo paese a seconda del loro numero e della distanza a Chiaravalle, ad esempio nella primavera   del 1816 i coltivatori di Jesi, Monte Roberto e Maiolati    potevano consegnare dal 22 marzo al 12 aprile. [44] ASCC, Editti Bandi Notificazioni, VI (1815-1818), p. 108, notificazione del 31 gennaio 1816.   Il   Governo conosceva già in dettaglio tutti i coltivatori, le denunce e la capacità produttiva delle rispettive piantagioni e faceva presente che “se alcuno dei coltivatori o detentori de detti Tabacchi osasse di convertire a proprio uso le foglie o venderle, o distrarle comunque, per eludere gli ordini del Governo, non isfuggirà alla nostra vigilanza la di lui frode”. Nel   trasportare le foglie a Chiaravalle   poi era necessario coprirle opportunamente     per non lasciarle disperdere e difendere dall’umidità. Nel 1849 il terreno assegnato per la coltivazione del tabacco in tutto il distretto di Jesi che comprendeva   il territorio di Jesi, Castelbellino, Castelplanio, Maiolati, Massaccio, Montecarotto, Monte Roberto, Morro, Monsano, Rosora e Staffolo era di 33 rubbia (61 ettari circa) con un numero    di piante coltivate pari a 1.056.000. [45] ASCC, Editti Bandi (1849).   Quello che si coltivava a Monte Roberto nella zona di Pianello era classificato di prima classe, quello di S. Apollinare e Rovegliano di seconda classe; all’interno di queste classi il tabacco poteva essere di prima, seconda e terza qualità, con prezzi diversi a seconda della classe e della qualità; ciò era stabilito da un disciplinare, diremmo oggi, di produzione, preciso e rigoroso. Eppure alla consegna delle foglie non sempre i ricevitori di Chiaravalle lo rispettavano, facendo “comparire qua tutti [i tabacchi] che provenivano da   Monte Roberto di cattiva qualità”, con di divergenze anche sul prezzo stabilito. Le lamentele venivano esternate al Sindaco che   provvedeva a vagliarle e a farle presenti alle competenti autorità. [46] ASCMR, Registro delle lettere (1808-1809), p. 153, n. 80 dell’8 marzo 1809.   Il toponimo Canapina o Calapina, come abbiano visto, lascia intendere che nella zona un tempo ci fossero coltivazioni di canapa. Nel secondo   decennio dell’Ottocento in un clima di ripresa agricola e di differenziazione delle colture (canapicoltura e linicoltura), venne proposto al Comune (“È il papa che lo desidera”) l’acquisto di   una “macchina     per lavorare   le canape    senza macerazione”; la proposta fu respinta dal Consiglio    Comunale in quanto, si osserva, “da noi la canapa non si coltiva affatto, o in pochissima quantità, cosa questa che rende inutile l’acquisto di una simile macchina”. [47] ASCMR, Consigli (1808-1827), p. 190, 19 settembre 1820} Per quanto riguarda gli allevamenti di pecore e l’incremento della produzione della lana, più di dieci anni prima, negli ultimi anni del Settecento, a seguito di una grande propaganda nei “dipartimenti”, ci furono ripetute importazioni di pecore “merinos”, [48] Caravale Mario, Caracciolo Alberto, op. cit., p. 602. si assicura che nel 1809 anche a Monte   Roberto “si incrociano le pecore con montare delle pecore spagnole per migliorare il gregge pecorino”. [49] Pedrocco Giorgio, Coltivazione e manifattura del tabacco a Chiaravalle, in Nelle Marche Centrali, op. cit., vol. I, pp. 1395-1426.   Cappelletti Sandra, Dalla Abbazia alla Manifattura – Le origini di Chiaravalle, Chiaravalle   1978, p, 90.  .

    3. EDILIZIA RURALE

    La casa tipica delle campagne   era costituita, almeno   nel Settecento, dalle stalle al piano terra, con la cucina e le altre stanze al piano superiore raggiungibili da una scala esterna sotto la   quale ricavare lo “stanziolo” per gli animali domestici, e il forno contiguo alla casa. Così risulta dal capitolato di appalto per la costruzione della casa colonica in contrada Catalano (Rovegliano) di proprietà del Comune, del 1763. [50] ASCMR, Libro de Trasatti della Comunità di Monte Roberto (1758-1777), cc. 37-38; vedi Appendice n. 6, pp. 295-296.   Vennero aggiunte poi ampie “bigattiere” quando si incrementò la bachicoltura, mentre capanne per il ricovero   degli attrezzi agricoli nei pressi, costruite con materiale povero (legno, paglia, fronde di alberi ecc.), ci sono sempre state [51] Brigidi L., Poeta A., La casa rurale nelle Marche centrali e meridionali. C.N.R. Firenze 1953. Insediamenti rurali Case coloniche economia del podere nella Storia dell’agricoltura   marchigiana, a cura di Sergio Anselmi, Cassa di Risparmio, Jesi 1986, 2a ed. Due costruzioni, anche se non tipiche tuttavia del nostro territorio, sono state presenti in passato in un certo numero: si tratta delle palombare e delle case terra.

  • 192 7.2 COLTIVAZIONI AGRICOLE

    192 7.2 COLTIVAZIONI AGRICOLE

    La coltivazione del grano, come   abbiamo visto, era la più estesa e la più redditizia, specie in pianura, non mancavano però orzo, fave e legumi ecc., dal Settecento poi si cominciò a coltivare il granoturco. Ampie erano allora ancora le zone boscose, come la Selva della Comunità in contrada Rovegliano-Catalano, tradizionale riserva di legname per le necessità economiche dell’intera comunità.    Sulle pendici collinari si coltivavano in maniera più intensiva viti e olivi. La produzione di vino e di olio, come quella del grano, non era sempre omogenea, le condizioni del tempo giocavano un ruolo determinante, nelle buone stagioni ce n’era comunque per vendere.

  • 192 7.2A VITIVINICOLTURA

    192 7.2A VITIVINICOLTURA

    A – VITIVINICOLTURA

    Il vino dei castelli, Massaccio, Monte Roberto, Maiolati, Castelbellino, era conosciuto non solo a Jesi perché non pochi proprietari dei terreni erano nobili jesini, ma anche in Ancona dove il vino veniva   commercializzato in tempo di pace e richiesto dalle truppe militari quando esse con una certa frequenza sostavano in porto o in città. Ai francesi che avevano scorrazzato per la Vallesina, specie da Monte Roberto a   Massaccio nei primi mesi del 1798, il vino che si produceva   su queste colline dovette essere stato particolarmente gradito, se, durante la loro permanenza in città, la Municipalità di Jesi, da loro sollecitala o per far loro una gradita “sorpresa”, richiese alle rispettive Municipalità di Monte Roberto, Maiolati   o Massaccio l’apertura di una cantina in Jesi. [19] ASCC, Repubblica Romana: lettere diverse, anno (1798-1799).   il governo pontificio aveva garantito il libero commercio   dei vini “tanto dentro   quanto fuori dello stato “Ecclesiastico”, perseguendo    coloro che esigevano “tangenti” (l’uso non è poi tanto nuovo!) nella concessione dei relativi permessi. [20] Cfr. Editto del Card. Azzolino del I settembre 1667 in ASCC, Editti e Bandi sec. XVII, riprodotto anastaticamente in appendice al volume II Verdicchio dei Castelli di Jesi, a cura di R. Ceccarelli, A. Nocchi, E. Stolfi, Città. di Castello 1991. Da una mentalità protezionistica del   Cinquecento, si pensava infatti che si dovesse   ostacolare l’esportazione dei generi di prima necessità, si passò nel Seicento ad una mentalità più pragmatica: di volta in volta il commercio veniva incentivato o sospeso a seconda sia della scarsità dei prodotti sia della necessità del denaro circolante. Editti in tal senso erano emanati dall’autorità centrale e dai governatori locali; si andava da una specie di liberismo assoluto a norme altrettanto restrittive in tempo di carestia fino ai divieti totali di esportazione emanati sotto Urbano VIII. [21] Cfr. Editto del Governatore Mons. Francesco Boncompagni del 7 gennaio 1676 in Ibidem. A. Nocchi, R. Ceccarelli, Editti e Bandi del sec. XVII, Cupra Montana 1986, p. 30. Caravale M., Caracciolo A., Lo stato Pontificio da Martino Va Pio IX, Utet, Torino 1978, pp. 427-428. 

  • 193 7.2B – OLIVICOLTURA

    193 7.2B – OLIVICOLTURA

    La produzione dell’olivo doveva essere sufficiente più per i padroni che per i contadini: ricordiamo che ai padroni ne andavano due terzi, tanto che   quando mancava, non solo per i poveri ma forse anche   per i piccoli proprietari, si comprava altrove, come   nel novembre   del 1800 quando fu acquistato a Cingoli al prezzo di 97 baiocchi e mezzo per ogni boccale. [22] ASCMR, Consigli (1794-1808) cc. 71-72, 23 novembre 1800. Ceccarelli Riccardo, Olivicoltura e frantoi nella Marca di Ancona, Provincia di Ancona, Ancona   2009. 4a edizione.   Per l’olio   accadeva spesso che, rivedendosi i prezzi   ogni due mesi, commercianti senza scrupoli ne facessero incetta per poi, accresciuto il prezzo, rimetterlo in vendita alla nuova data ed evidentemente al nuovo prezzo incorrendo nelle ire del Governatore che tuttavia non sembravano incutere molto timore se la stessa disposizione veniva riproposta annualmente   in ogni castello del contado. [23] A. Nocchi, R. Ceccarelli, op. cit., pp. 13-14.  

  • 193 7.2C – IL GRANO E “L’ABBONDANZA”

    193 7.2C – IL GRANO E “L’ABBONDANZA”

    La normativa per il grano era più capillare, il relativo bando era ripubblicato anch’esso   ogni   anno con pochissime    varianti. Essa    prevedeva la precisa conoscenza delle persone da sfamare in ogni comunità (entro “li 8 agosto haver data giusta assegna di tutte le bocche effettive, che mangino quotidianamente   il pane ancorché    non avesse raccolto   grano”), disposizioni sulla battitura, la raccolta, la   conservazione, il   commercio e l’esportazione del grano   e la proibizione di farne incetta, seguivano    norme per i fornai, l’Abbondanza   ed i loro responsabili gli “abbondanzieri”. [24] Ivi, Editto del Governatore Jacopo Angeli del 15 luglio 1651.  Ceccarelli Riccardo, Grano, pane e riso nella Marca di Ancona, Provincia di Ancona, Ancona 2009. 4′ edizione.  ” L’Abbondanza”, Magazzini dell’Abbondanza    o   Monte Frumentario, era il luogo dove veniva raccolto e conservato il grano per sopperire alla sua eventuale mancanza durante l’anno, per distribuirlo alle famiglie più povere in tempo   di Natale e fornirlo a chi ne avesse bisogno al momento della semina, con l’obbligo di restituirlo dopo il raccolto dell’anno successivo.   Il patrimonio dell’Abbondanza, tra entrate e uscite, doveva rimanere integro, severi controlli venivano fatti in questo senso agli “abbondanzieri”, a   coloro cioè che eletti ogni anno dal Consiglio della Comunità gestivano l’Abbondanza o il Monte   Frumentario. Il Monte Frumentario, l’Abbondanza, detto anche    Monte di Pietà, a Monte Roberto era stato eretto prima del 1537; [25] Zenobi C., L’episcopato jesino di Mons. Gabriele del Monte, p. 138 era ubicato nei pressi del   vecchio palazzo comunale, si  aggiungeva il magazzino     dell’Abbondanza con la scala posta davanti al palazzo stesso. [26] ASCMR, Consigli (1608-1616), c. 140r, 28 dicembre 1614. Nonostante che gli Abbondanzieri avessero il dovere di conservare il grano e di distribuirlo secondo le decisioni del Consiglio della Comunità, [27] Ivi, c. 44r., 19 luglio 1609.   non era raro il caso di una certa amministrazione “allegra”: gli stessi Abbondanzieri   prendevano il grano senza restituirlo a tempo debito [28] ASCMR, Abbondanzieri (1621-1810), c. 90r.v e seppure il patrimonio dell’Abbondanza veniva ogni anno reintegrato con la restituzione ma anche con la contribuzione di “una prevenda e mezza per soma” [29] ASCMR, Consigli (1608-116), c. 44r, 19 luglio 1069.   con un “rubio e   mezzo per dicina di tutto il grano che haverà raccolto da pagarsi a giusto prezzo”, [30] Editto del 15 luglio 1651 del Governatore Jacopo Angeli, in A. Nocchi, R. Ceccarelli, op. cit., pp. 22. rimaneva il grave illecito. Il Governatori o i loro rappresentanti eseguivano controlli periodici e dettavano prescrizioni rigorose: “in avvenire   non     debbono esercitare la carica di Abbondanziere quelli che saranno debitori di essa Abbondanza come comanda la Bolla del Buon Governo e gli Abbondanzieri eletti e approvati dal Consiglio con le idonee sicurtà debbono render conto ogni   anno”. [31] ASMR, Abbondanzieri (1621-1810), c. 59r, 26 luglio 1699 Al termine di ogni anno infatti, scadendo l’incarico, due deputati eletti dal Consiglio dovevano rivedere i conti e se c’era qualche debito o qualche   ammanco gli Abbondanzieri    “siano subito astretti all’intera soddisfatione”; mancando questa verifica “I Quattro” e il Cancelliere, cioè il Segretario, ne dovevano rispondere “del proprio”. [32] Ivi, c. 77v, 8 agosto 1681 La ragione di tanto controllo si fondava sul fatto che l’Abbondanza    era “patrimonio    de Poveri e bisognosi che dovevano   essere sollevati nelle loro necessità con l’imprestanza delli Capitali di detta    Abbondanza”. [33] Ivi, c. 91r, 9 ottobre 1698.   La distribuzione del grano doveva   essere fatta esclusivamente ai poveri di Monte Roberto e non ai forestieri, altrimenti gli stessi Abbondanzieri erano obbligati a loro spese a ritrovare la stessa quantità di grano illecitamente distribuita, i prestiti di grano dovevano essere restituiti entro i mesi di luglio e agosto. [34] ASCMR, Abbondanzieri (1675-1771), c. 194v, 21 dicembre 1765; c. 202r, 6 gennaio 1768; c. 207r, 4 febbraio 1770. L’Abbondanza, o meglio, il Monte Frumentario    come    cominciò ad essere chiamato dall’Ottocento in poi, fu presente operando   attivamente durante il napoleonico    Regno d’Italia (1808-1815) e poi di nuovo con lo Stato Pontificio fino al 1859; [35] Urieli C., Archivio Diocesano – Visite pastorali, p. 267.   con lo stesso nome, cui si aggiunse quello di Cassa di Prestanze Agrarie, come   in altri paesi della Vallesina, ad esempio Rosora e Castelbellino, arrivò fino alle soglie del Novecento. Il   Monte Frumentario   della Comunità    non fu l’unico ad operare a   Monte Roberto: lo ebbero la Confraternita del Sacramento   e Rosario, la Confraternita Pietà o della Morte e la Confraternita del Crocifisso, il più longevo fu quello della Confraternita del    Sacramento e del Rosario, [36] Ivi, pp. 65, 77,97, 104, 131, 252, 267.   erano per lo più a servizio degli iscritti alle confraternite stesse.

  • 195 7.2D – RACCOGLITORI DI SPIGHE

    195 7.2D – RACCOGLITORI DI SPIGHE

    Dopo la mietitura del grano, era “uso antico della Città e del contado” che i poveri e i nullatenenti raccogliessero le spighe rimaste nei campi. Per quanto la consuetudine   fosse antica, essa trovava una continua   opposizione da parte dei padroni   dei campi e di quanti li avevano in affitto. I Governatori allora per garantire   questa misera possibilità ai più poveri, ogni anno    ritornavano sull’argomento   ordinando “tanto alli padroni delli campi, quanto alli cottomatarij de grani in tutta questa nostra giurisditione non ardischino   in modo   alcuno impedire alli Poveri il raccogliere le spiche de grani, nelli campi, purché non faccino danno alli Padroni de grani”. [37] Cfr. Editto del Governatore Mons. Francesco Boncompagni del 16 giugno 1684, in A. Nocchi, R. Ceccarelli, op. cit., p. 26 In un bando   del Governatore mons.   Giacomo   Fantucci del 18 giugno 1672, si garantiva la accolta delle spighe ai poveri “purché raccoglino dietro le loro opere [braccianti assoldati giorno per giorno dai loro padroni] e famiglie”. Non avranno   raccolto molto, comunque    l’autorità assicurava quel poco, almeno   a parole e anche per iscritto, forse senza tanta convinzione considerata la scarsa entità delle pene per quanti avessero   impedito questa raccolta, “scudi 1 per ciascheduno” e le   generiche “altre pene a nostro arbitrio”. [38] Ivi, p. 27.  

  • 196 7.2E – COLTIVAZIONE DEI GELSI E BACHICOLTURA

    196 7.2E – COLTIVAZIONE DEI GELSI E BACHICOLTURA

    La   coltivazione dei gelsi e la relativa bachicoltura risalgono per tutto il contado   al Seicento. [39] Urieli C., Jesi e il suo Contado, vol. IV, pp. 256-257 Seguendo l’esempio di Jesi che nel 1673 aveva proceduto ad una   intensa piantagione di   mori-gelsi, anche Monte Roberto    delibera un’analoga    piantagione nel 1679, provvedendo    in pari tempo a proteggere le piccole piante minacciate da pecore e maiali. [40] ASCMR, Consigli (1676-1698), c. 49v, 10 dicembre 1679.  

    Queste piante, per più ai lati delle strade erano di proprietà comunale; con la vendita delle foglie (“Trasatto delle foglie de’ mori-gelsi”) che si faceva ogni anno in aprile a chi allevava bachi da seta, si cercava di racimolare   qualche entrata nelle sempre esauste casse comunali. [41] Ivi, c. 110v, 8 aprile 1685.   La bachicoltura si sviluppò così progressivamente   in tutti i paesi della valle, i bozzoli erano inviati sulla Piazza di Jesi”, una filanda per la loro lavorazione la troveremo a Monte   Roberto nei primi   decenni dell’Ottocento.

  • 196 7.2F TABACCO

    196 7.2F TABACCO

    Un’altra ‘coltivazione che tra la fine del Settecento e gli inizi dell’Ottocento ebbe una certa fortuna in territorio di Monte Roberto, fu quello del tabacco. Nello Stato Pontificio era stato introdotto a metà del Settecento; a Chiaravalle un primo laboratorio per la lavorazione delle foglie era stato realizzato nel 1759. La coltura si estese ben presto a tutta la media e bassa valle dell’Esino favorita dalla particolare conformazione dei terreni e dall’aumento del reddito agricolo che essa garantiva. [42] Pedrocco Giorgio, Coltivazione e manifattura del tabacco a Chiaravalle, in Nelle Marche Centrali, op. cit., vol. I, pp. 1395-1426. Cappelletti Sandra, Dalla Abbazia alla Manifattura – Le origini di Chiaravalle, Chiaravalle   1978, p, 90. A Monte Roberto se ne coltivava nella zona di Pianello, a valle di Rovegliano e nell’area di S. Apollinare.

    Le foglie di tabacco si potevano consegnare   nei magazzini   della Fabbrica di Chiaravalle due volte all’anno, in primavera e in autunno: nel 1817, dal 4 febbraio   al 15 marzo e dal 26 settembre in poi, [43] Cfr. Notificazione della Delegazione Apostolica di Ancona del 3 febbraio e 14 novembre   1817, in ASCC, Editti Bandi Notifiche Avvisi Circolari (1814-1817). con una precisa ripartizione dei giorni per i coltivatori di ogni singolo paese a seconda del loro numero e della distanza a Chiaravalle, ad esempio nella primavera   del 1816 i coltivatori di Jesi, Monte Roberto e Maiolati    potevano consegnare dal 22 marzo al 12 aprile. [44] ASCC, Editti Bandi Notificazioni, VI (1815-1818), p. 108, notificazione del 31 gennaio 1816.  

    Il   Governo conosceva già in dettaglio tutti i coltivatori, le denunce e la capacità produttiva delle rispettive piantagioni e faceva presente che “se alcuno dei coltivatori o detentori de detti Tabacchi osasse di convertire a proprio uso le foglie o venderle, o distrarle comunque, per eludere gli ordini del Governo, non isfuggirà alla nostra vigilanza la di lui frode”. Nel   trasportare le foglie a Chiaravalle   poi era necessario coprirle opportunamente     per non lasciarle disperdere e difendere dall’umidità. Nel 1849 il terreno assegnato per la coltivazione del tabacco in tutto il distretto di Jesi che comprendeva   il territorio di Jesi, Castelbellino, Castelplanio, Maiolati, Massaccio, Montecarotto, Monte Roberto, Morro, Monsano, Rosora e Staffolo era di 33 rubbia (61 ettari circa) con un numero    di piante coltivate pari a 1.056.000. [45] ASCC, Editti Bandi (1849).   Quello che si coltivava a Monte Roberto nella zona di Pianello era classificato di prima classe, quello di S. Apollinare e Rovegliano di seconda classe; all’interno di queste classi il tabacco poteva essere di prima, seconda e terza qualità, con prezzi diversi a seconda della classe e della qualità; ciò era stabilito da un disciplinare, diremmo oggi, di produzione, preciso e rigoroso. Eppure alla consegna delle foglie non sempre i ricevitori di Chiaravalle lo rispettavano, facendo “comparire qua tutti [i tabacchi] che provenivano da   Monte Roberto di cattiva qualità”, con di divergenze anche sul prezzo stabilito. Le lamentele venivano esternate al Sindaco che   provvedeva a vagliarle e a farle presenti alle competenti autorità. [46] ASCMR, Registro delle lettere (1808-1809), p. 153, n. 80 dell’8 marzo 1809.   Il toponimo Canapina o Calapina, come abbiano visto, lascia intendere che nella zona un tempo ci fossero coltivazioni di canapa. Nel secondo   decennio dell’Ottocento in un clima di ripresa agricola e di differenziazione delle colture (canapicoltura e linicoltura), venne proposto al Comune (“È il papa che lo desidera”) l’acquisto di   una “macchina     per lavorare   le canape    senza macerazione”; la proposta fu respinta dal Consiglio    Comunale in quanto, si osserva, “da noi la canapa non si coltiva affatto, o in pochissima quantità, cosa questa che rende inutile l’acquisto di una simile macchina”. [47] ASCMR, Consigli (1808-1827), p. 190, 19 settembre 1820} Per quanto riguarda gli allevamenti di pecore e l’incremento della produzione della lana, più di dieci anni prima, negli ultimi anni del Settecento, a seguito di una grande propaganda nei “dipartimenti”, ci furono ripetute importazioni di pecore “merinos”, [48] Caravale Mario, Caracciolo Alberto, op. cit., p. 602. si assicura che nel 1809 anche a Monte   Roberto “si incrociano le pecore con montare delle pecore spagnole per migliorare il gregge pecorino”. [49] Pedrocco Giorgio, Coltivazione e manifattura del tabacco a Chiaravalle, in Nelle Marche Centrali, op. cit., vol. I, pp. 1395-1426.   Cappelletti Sandra, Dalla Abbazia alla Manifattura – Le origini di Chiaravalle, Chiaravalle   1978, p, 90.  .

  • 198 7.3A PALOMBARE

    198 7.3A PALOMBARE

    A ricordarle per il territorio di Monte Roberto sono gli unici due catasti che ci sono rimasti nell’Archivio Comunale, ambedue del Settecento; se ci fossero stati anche quelli dei secoli precedenti avremmo potuto fare confronti con il limitrofo territorio di Massaccio-Cupramontana la cui prima palombara è testimoniata in contrada S. Michele nel 1544, 52 Ceccarelli R., Le strade raccontano, p. 209. con quella, ancora in ottimo stato di conservazione, in contrada Fontegeloni nel comune di Serra S. Quirico, datata 1583, non tralasciando quella restaurata agli inizi degli anni Novanta in contrada S. Maria nel comune di Rosora. Erano costruzioni più alte in genere delle case coloniche, ad esse aggiunte o isolate, adibite all’allevamento dei piccioni (palombi) destinati all’uso alimentare il cui guano era utilizzato come ottimo fertilizzante per i terreni. Il numero delle palombare si accrebbe tra il Cinquecento e il Seicento nel territorio di Massaccio con una flessione nel corso del Settecento, e se questo andamento può essere analogo per il territorio di Monte Roberto, dobbiamo ipotizzare che nel Seicento, inizi Settecento, fossero ben più numerose delle 17 che troviamo a metà del secolo. 53 ASCMR, Catasto (sec. XVIII-1743). Di queste, 11 erano situate in contrada Rovegliano fin giù nel piano, tutte indicate come “casa e palombara’, eccetto quella di Gentile Amatori “terra arativa con palombara”. Proprietari con una palombara erano la Comunità di Monte Roberto, Carlo Colini, il marchese Federico Silvestri Fabi e Tranquilli, mentre Francesco di Lutio, il marchese Giuseppe Honorati ne avevano due in diversi terreni di loro proprietà. Le altre erano di Costantino Paziani (contrada Villate), di Francesco di Nicodemo (contrada Ciampana), Girolamo Fiordelmondo (contrada della Valle), dei fratelli marchesi Piersimone, Angelo, Flaminio e Pio Ghislieri (contrada Passo Imperatore) e di Leonida Leoni (contrada Olivella). Dopo qualche decennio l’altro catasto, registra solo nove volte “casa e palombara” e una sola volta “casa e palombara” quella del Tenente Ridolfo Leoni da Staffolo in contrada del Noceto, la stessa casa di contrada Olivella, nel frattempo probabilmente riassettata. Alcune erano rimaste, come quelle della Comunità di Monte Roberto, del marchese Giuseppe Honorati, dei fratelli Ghislieri, Flaminio l’aveva conservata a passo Imperatore, gli altri Angelo, Piersimone e Pio ne costruirono un’altra in contrada Cesola; altre passarono di proprietà, pochissime sembrano essere quelle nuove; Michele Turchi da San Severino l’aveva in un podere presso il Trivio (Pianello), l’Abbazia di S. Apollinare vicino alla chiesa e Pier Simone Dpminici segretario comunale di Monte Roberto aveva con i beni dotali dalla moglie Orsola Mazzini un “gasmo con palombara”, in contrada La Valle o S. Brigida. 54 ASCMR, Catasto (sec. XVIII). La palombara di Passo Imperatore di proprietà dei marchesi Ghislieri non aveva grosse dimensioni, era situata presso la strada ed il fosso limitrofo, dando origine, come abbiamo visto, ai toponimi fosso della Palombaretta e strada della Palombaretta. Notevole il ruolo economico svolto per diversi secoli da queste strutture agricole, attualmente dalle nostre zone quasi del tutto scomparse o riutilizzate‘ come magazzini; se richiesta fu per secoli la carne di piccione altrettanto apprezzato fin dall’epoca romana era il concime derivato dallo sterco dei piccioni per la fertilizzazione dei campi. 55 Volpe Gianni, Casa Torri Colombaie, Maroni, Ripatransone 1983, pp. 49-59. Paci Renzo, Sedimentazioni storiche nel paesaggio agrario, in Nelle Marche Centrali, vol. pp. 117-118. Insediamenti Rurali Case coloniche…, op.cit..,-pp. 172, 176.

  • 201 7.3B CASE DI TERRA

    201 7.3B CASE DI TERRA

    In territorio di Monte Roberto la casa di terra che rimane ancora in piedi è in via Ponte Magno. Altre due, una capanna ed una casa vera e propria, ancora utilizzata, sono a qualche centinaio di metri nra in territorio cuprense.
    Sono le uniche rimaste di una tipologia edilizia rurale diffusa nelle nostre campagne, anche se più numerose erano nel maceratese dove ancora molte sono abitate. Esse rappresentano la forma abitativa più povera dei braccianti agricoli o di , piccolissimi proprietari; sono costruite con un impasto di argilla e di paglia chiamato “cerretano”. Non avevano una lunga durata se mancavano di zoccolatura alla base e di incamiciatura agli angoli con pietre e mattoni e di un’opportuna copertura.
    Le case di terra di via Ponte Magno risalgono probabilmente agli ultimi decenni dell’Ottocento e sarebbe opportuno non lasciarle andare in rovina, sono una testimonianza di una situazione di vita di estrema povertà ed anche del progressivo trasferimento dei lavoratori agricoli sul fondo che lavoravano 56 Ceccarelli R., Le strade raccontano, p. 198 con relativa bibliografia. Palombarini A., Le case di terra nel maceratese, in Proposte e Ricerche n. 7, autunno inverno 1981, pp. 69-76. Palombarini Augusta, Volpe Gianni, La casa di terra nelle Marche, Federico Motta Editore, Milano 2002. Volpe Gianni, Il lucano e la buina, Astragalo, Fano (PU) 2002. Sori Ercole, Case di terra e paglia delle Marche, D’Auria Editrice, Ascoli Piceno 2003. Volpe Gianni, La casa a maltone, Metauro Edizioni, Fossombrone (PU) 2005.
    Altre case di terra c’erano a Monte Roberto, una nelle vicinanze dell’attuale abitazione di via Fontestate n. 3 ed altre a Pianello Vallesina, l’ultima è scomparsa da ormai da diversi decenni, ubicata tra le attuali via G Garibaldi e via S. Pertini 57 Testimonianza del Sig. Aurelio Borioni, la casa era abitata dalla famiglia Peloni. le ricordano ancora in molti, la zona dove stavano era chiamata ed è chiamata ancora, proprio per questo motivo, “Terrone

  • 201 7.4 LE FIERE

    201 7.4 LE FIERE

    Le fiere ed i mercati, anche per la valle dell’Esino, sono stati dal Medioevo strumenti ed occasioni di incontro e di scambi economici di primo piano. A Jesi. nel 1304 si teneva una fiera dal 22 settembre al 15 ottobre; 58 Urieli C., Jesi e il suo Contado, vol. II, p. 10. altre fiere nacquero nei pressi delle abbazie e dei monasteri benedettini, grossi centri anche di attività commerciali ed economiche. 59 Annibaldi G., S. Benedetto e l’Esio, Jesi 1880, p. 58.
    A Massaccio-Cupramontana nella seconda metà del Quattrocento, ma probabilmente risaliva a molto prima, esisteva un “mercatale” – oggi via S. Maria e piazza A. Costa – sede privilegiata dei mercanti e dei loro traffici 60 ASCC, Catasto I (1471), c. 29v. – mentre un mercato settimanale, al lunedì, venne istituito nel 1570; 61 Menicucci F. , Memorie… Massaccio…, p. 164. Menicucci F. , Massaccio nel 1789, in appendice a Dottori D., CupraMontana e i suoi figli più noti, p. 1 27. Ceccarelli R. , Il mercato del lunedì di Cupramontana, in Quaderni Storici Esini, 11-2011, pp.133-149. dal 1520 tuttavia già c’era una fiera nel mese di giugno in occasione della festa del B. Giovanni Maris, 62 Menicucci F. , Memorie istoriche de BB. Giovanni e Matteo, Cesena 1790, p. 32. dal 1587 poi la fiera di S. Lorenzo che durava sei giorni, dal 9 4114 agosto 63 Ceccarelli R. , Le strade raccontano, cit., p. 61, fig. 23. I mercati e le fiere di Massaccio erano molto frequentate dalle popolazioni dei paesi del pre-Appennino come Precicchie, Poggio S. Romualdo (Porcarella), Poggio S. Vicino (Ficano), Rotorscio, Domo ecc., dei paesi limitrofi e dei centri della valle dell’Esino e oltre. 64 Ceccarelli R. , Tombola dimenticata, in il Massaccio, anno II (nuova serie) n. 5 dicembre 1991, pp. 22- 23. Il periodico pendolarismo verso Massaccio alimentava notevolmente la locale economia, il fatto non sfuggì ai dirigenti delle vicine Comunità che nei decenni successivi cominciarono a chiedere autorizzazioni per altre fiere.
    L’esempio di Massaccio non fu probabilmente determinante, tuttavia contribuì, insieme alla generale crisi economica del Seicento, 65 Caravale M., Caracciolo A., Lo Stato Pontificio da Martino Va Pio IX, Utet, Torino 1978, pp. 425-429. che ebbe eco nelle nostre piccole comunità, a far ricercare occasioni per movimentare l’economia. Le fiere furono alcune di queste occasioni e magari anche di attrito tra le comunità che in esse avevano intuito una nuova opportunità economica.
    Accadde nel 1672 quando Domenico di Gabriele di Castelbellino “per essere immesso nel numero delli Quattro dona scudi 25 ad effetto che la Comunità ottenesse un Breve per far fare la fiera nella Madonna del Trevio [Pianello Vallesina] per il lunedì della terza domenica di maggio […], essendo ciò assai utile per la nostra Comunità e per il nostro Castello”. 66 ASCCb, Consigli (1653-1676), c. 149v, 17 gennaio 1672.
    Trascorrono appena sette giorni e se ne discute nel Consiglio della Comunità di Monte Roberto: “[…] il Breve per la fiera della Madonna del Trebio […] potrebbe essere di pregiudizio del Pubblico […], i Signori Quattro vadino ad informare Mons. Governatore a pregarlo che voglia […] aiutarci che non ce sia fatto […] che detta fiera sia piantata tutta nel nostro territorio con pregiudizio del nostro Pubblico”. 67 ASCMR, Consigli (1665-1676), cc. 99r/v e 100r, 24 gennaio 1672. Castelbellino ottiene l’autorizzazione della fiera per la data richiesta; Monte Roberto poco dopo, nel 1676, cerca di racimolare il denaro necessario per un analogo Breve al fine di ottenere una fiera nel giorno di S. Amanzio, 10 giugno: sono però disponibili solo sei scudi, quelli in bilancio per la “ricreatione” in occasione del rinnovamento del Bussolo e ci vogliono almeno altri dieci scudi da raccogliere tra la gente, “la fiera farebbe gran utile alla nostra Comunità”. 68 ASCMR, Consigli (1676-1698), c.2r, 10 dicembre 1676. ASCMR, Consigli (1735-1755), c.140r.
    Probabilmente non si riuscì nell’intento, non si trova infatti alcuna tracci negli anni successivi, della fiera che si desiderava per il 10 giugno. Si debbono tuttavia attendere quasi settant’anni per far decidere all’unanimità il Consigli della Comunità a richiedere l’autorizzazione per due fiere accollando completamente le spese per il documento pontificio; la decisione veni formalizzata il 25 aprile 1745: “Le fiere […] sogliono portare lucro sì al pubblico che a popoli di qualsivoglia sfera. […] e questo nostro Castello, o Terra che s solamente la nostra Università restarebbe annualmente utilizzata, ma anche questi Possedienti avrebbero motivo et occasione di rimettere le loro entrate, e le povere famiglie industriarsi con le loro fatiche”. 69 ASCMR, Consigli (1735-1755), c.140r.
    Il 18 agosto 1745 papa Benedetto XIV firmò l’autorizzazione per le dr fiere da tenersi in Monte Roberto “una nell’ultima Domenica del mese di April l’altra nella seconda Domenica di Settembre con quattro giorni seguenti ciascheduna di esse con li Privilegi, e facoltà solite e consuete”. 70 Copia del documento pontificio e in ASCMR, Registro delle lettere dei Signori Superiori (1703-1795), cc. 266-268v. Immediatamente si provvide a diffondere una “notificazione” a stampa in tutti paesi del contado e oltre, invitando “tutti e singole persone ad intervenii annualmente a dette fiere con Merci, Robbe e di qualsiasi sorte”, l’invito alla prima fiera era per il “12 settembre prossimo venturo”.
    Anno dopo anno le due fiere si affermarono diventando un appuntamento importante nel contesto delle altre fiere e mercati dei paesi più o meno lontani: Marcello (prima domenica di giugno), Barbara (16 luglio e 25 agosto), Belvedere (16 maggio), Morro d’Alba (ultimo martedì di maggio), Apiro (25 maggio e. agosto), Serra S. Quirico (13 dicembre), Staffolo (1° settembre e 12 aprile), ecc.
    Per annunciare le fiere il Comune inviava ogni anno alle diverse comunità del contado e di un circondario più vasto l’apposita “notificazione”, inoltre provvedeva a farle “bandire” da un “tamburino” di volta in volta nelle fiere che si svolgevan nei vari paesi in prossimità di quella di Monte Roberto. 71 ASCMR, Registro delli Bollettini (1711-1775), c. 127r, (1753). Nel 1809 il sindaco (Monte Roberto e Comuni Uniti confermava che le fiere che si tenevano nel su territorio erano rispettivamente, a Monte Roberto il 25 aprile e il 16 settembre, Castelbellino (Pianello Vallesina) il lunedì dopo la terza domenica di maggio, San Paolo di Jesi il 13 giugno. 72 ASCMR, Registro di Lettere (1808-1809), p. 221, 26 luglio 1809.
    Negli anni successivi le due fiere dovettero conoscere una fase di declino s non addirittura essere sospese, se in una nota redatta, senza data, ma certamente intorno al 1820-25, viene scritto: “La fiera di settembre fu ripristinata nel 1818 e quella di aprile nell’anno 1819 con felice risultato”. Continua la nota: “Il zelo della Magistratura manifestato nella ripristinazione, e le favorevoli risultanze lusingano l’accredito pd l tratto successivo di dette fiere, mentre oltre la protezione di tutte franchigie, gli interessi in ogni ramo d’industria, e di commercio hanno licenziato in ogni incontro i commercianti con la loro piena soddisfazione, e si sono dimostrati convinti dell’obbligo per loro utile di rammentarsi delle indicate due ricorrenze profittevoli al particolare loro interesse”. E conclude: “Si tramanda ai posteri la presente notizia, perché sia conservato l’impegno per ingrandire, ed accreditare il privilegio, che adorna questa ‘antica comunità, ed onora ogni classe della Popolazione”. 73 ASCMR, Sindacati (1790-1801 con annotazioni fino al 1844), p. 79.
    Nel 1865 il Consiglio Comunale constatando che “per la situazione montuosa [del paese] riescono poco le due fiere, esistenti” accogliendo un progetto della Giunta, all’unanimità votava l’istituzione di una nuova fiera da tenersi “nella pianura di questo territorio o presso il Casino Salvati o presso la Chiesa di S. Apollinare […] nel giorno 30 Agosto di ogni anno”. 74 ASCMR, Deliberazioni Consigliari (1865-1866), 30 maggio 1865, pp. 31 e 55. L’Amministrazione Provinciale di Ancona, nonostante le eccezioni dei comuni di Belvedere Ostrense e di Montecarotto che temevano che la fiera di Monte Roberto dei 30 compromettesse quelle che si svolgevano nei loro paesi rispettivamente il 31 e il 29 agosto, approvava il 5 marzo 1866 l’istituzione della nuova fiera. La decisione era motivata dall’osservazione che le eccezioni erano “di poco o niun peso”, osservando però che soprattutto era necessario “applicarsi il principio della libera concorrenza, secondo il quale non devono porsi vincoli al commercio e agli scambi, i quali poi meglio si sviluppano e prosperano dove trovano maggiori interesse”. 75 Ibidem.
    La fiera ebbe luogo per quasi un secolo a S. Apollinare, tanto da essere chiamata “La fiera di S. Apollinare”, specializzandosi per la presenza e gli scambi di bovini; solo in tempi più recenti venendo a mancare la presenza determinante di questi ultimi, fu trasferita a Pianello dove tuttora si tiene sempre alla stessa data.
    Per iniziativa dell’Amministrazione Comunale furono istituite il 10 maggio 1925 altre fiere da tenersi a Pianello il 20 marzo, il 31 luglio e il 12 ottobre. La motivazione adotta era formulata in questi termini: “L’incremento dei traffici che si è costatato nella borgata di questo comune per la posizione centrale che essa occupa ai piedi dei colli vicini in una zona molto ubertosa, ha spinto questa Amministrazione a creare in quella località nuove occasioni di scambi commerciali che riescono di profitto ai negozianti del luogo e circonvicini e naturalmente al comune”. 76 ASCMR, Deliberazioni Consigliari (1925-1928), 10 maggio 1925, p. 23.
    Per il paese invece, dove “non essendovi alcun mercato”, fu creato dieci anni dopo, il 27 luglio 1935, un “mercato di verdura, frutta, uova, formaggi mercerie e chincaglierie” da tenersi ogni giovedì, 77 ASCMR, Deliberazioni Podestarili (1932-1935), n. 112, p. 176. dopo pochi anni però già non si tenne più.

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